Sostiene Pereira

di Antonio Tabucchi

Pereira
Quando ho preso in mano questo romanzo – circa 200 pagine, di cui molte, tra un capitolo e l’altro, bianche – ho calcolato che mi avrebbe richiesto non più di tre serate, e che presto avrei potuto affrontarne un altro dei tanti in attesa di lettura.
Mi sbagliavo: tre serate non sono bastate.
E non perché il libro mi sia risultato di ardua comprensione o abbia preteso da me una concentrazione che mi è difficile conservare a lungo nelle ore notturne, ma al contrario perché fin dalla prima pagina mi ha sedotta al punto che ho fatto il possibile per centellinarmelo, assaporarlo, trattenerlo con me per allontanarne la fine, quel momento di tristezza che segna il distacco da una lettura amata e che si trasforma da subito in nostalgia.
Per sapere con certezza che mi sarebbe piaciuto, mi è bastato l’incipit, quelle prime cinque, brevi, efficacissime frasi in cui avviene con magistrale immediatezza l’introduzione all’ambiente e al personaggio. In poche righe, sappiamo già di trovarci in una Lisbona estiva azzurra, ventilata e scintillante, esattamente come la immaginiamo, come ce la raffiguriamo quando sogniamo di arrivarci da visitatori, e di avere a che fare con un uomo dedito alla cultura e alla meditazione, ma non un intellettuale spocchioso o un alto filosofo, bensì un animo dimesso, un abitudinario ripiegato su se stesso e sulla piccola serenità di alcune certezze un po’ stantie, un antieroe modesto e appartato, esente da presunzioni o ambizioni. Pereira, di cui non sarà dato di conoscere che il cognome col quale firma i suoi articoli, è un giornalista di mezza età, vedovo, affetto da pinguedine e dagli affanni di una lieve cardiopatia, che vive tra il suo appartamento ordinato, l’ufficio dove svolge il suo lavoro in solitaria – poco più di un bugigattolo – e un piccolo locale, il Café Orquìdea, dove prende spesso i pasti. Gli tengono compagnia pochi e semplici punti di riferimento: il suo interesse per la letteratura, alla quale si dedica scrivendo traduzioni di autori francesi dell’ottocento – anacronistici ma politicamente corretti – in qualità di redattore culturale di un modesto giornale del pomeriggio, e gli affetti per il passato, prima di tutto la moglie morta da anni con la quale parla attraverso il vetro di un ritratto, e poi i ricordi della sua animata gioventù universitaria a Coimbra. Queste consuetudini quotidiane, di cui pare non avvertire l’opacità, gli sono sufficienti per comporre giorno dopo giorno quel che resta della sua vita, anzi gli occupano e gratificano la mente al punto di appannare la percezione della realtà esterna, che in quei mesi (siamo nel 1938) sta prendendo, e non solo in Portogallo, aspetti sempre più minacciosi. Ma Pereira di quanto sta avvenendo nel suo Paese e nell’Europa intera si tiene al corrente in modo distratto, quasi volendo rimanerne fuori, dai resoconti veloci di Manuel, il cameriere del Café Orquìdea, che quasi ogni giorno gli serve le sue ordinazioni preferite, ancorché poco salutari: omelettes alle erbe e bicchieroni di limonata ghiacciata, un menu-tormentone al quale finisce per affezionarsi anche il lettore. Pereira pare un uomo che si sia ritirato dalla vita attiva, rinunciando a ogni analisi critica non tanto per viltà quanto per una larvata forma di depressione, di autodifesa forse; quella che applica spesso davanti a problemi o interrogativi cui non sa reagire, e che gli fa rinviare lo studio delle possibili soluzioni o risposte con dei dimessi “Beh, pazienza” oppure “Beh, vedremo”.
Questa routine consolidata e rassicurante comincia a mostrare la corda in seguito ad alcuni incontri, tutti e ciascuno determinanti, che lentamente – quasi controvoglia – la destabilizzano, mettendo in luce il suo anacronistico grigiore, la sua ottusità nei confronti del mondo esterno e dei suoi rivolgimenti che, malgrado Pereira abbia scelto di restarne estraneo, stanno prendendo una piega drammatica e cominciano a coinvolgere direttamente anche lui.
Dapprima entra in scena un giovane studente, Francesco Monteiro Rossi, scrittore squattrinato che si rivela oppositore del regime salazarista e porta con sé, oltre all’alito della giovinezza, anche il vento inquietante della rivoluzione; è lui il primo a introdurre nella statica vita dell’anziano giornalista la presenza imbarazzante di istanze di contestazione e ribellione, che emergono dagli articoli che scrive e gli propone, e che Pereira trova tutti immancabilmente impubblicabili, estranei come sono alla prudenza che di quei tempi informa la diffusione delle idee.
Poco dopo, è la volta del dottor Cardoso, un medico dalle idee aperte e dalla filosofia pacata, che apre gli occhi a Pereira sugli aspetti della libertà di coscienza, pur senza forzare la mano o fare opera di proselitismo, al contrario proponendosi come ascoltatore, confidente, interlocutore sereno e saggio, portatore di alcune di quelle risposte che a Pereira mancano da tempo.
Da ultimo, un episodio che occupa solo pochi (e splendidi) paragrafi ma che ha il suo peso: la conversazione casuale, su un treno, con una certa signora Delgado, una donna ebrea che racconta brevemente la sua esperienza di perseguitata e insinua in Pereira l’inquietudine per il futuro che aspetta tutti, suggerendogli perfino di esercitare gli strumenti della sua professione per mobilitare le coscienze.
Da questi incontri, il mite giornalista ricava un senso di turbamento che lo spinge a ripensare alla sua vita e alle sue motivazioni, scoprendole insufficienti e addirittura ingannatorie. Prende nebulosamente consapevolezza delle storture della società che lo circonda e in cui finora si era sentito avvolto come in un guscio, e inizia a rendersi conto dell’impostura salazarista che si è già insinuata fino al nucleo centrale del suo stesso lavoro, condizionando le scelte editoriali, ormai da tempo soggette a una censura politica più o meno esplicitamente espressa.
La narrazione assume il profilo del romanzo civile, e segue fino all’epilogo tragico la vicenda del giovane rivoluzionario nella quale resta gradualmente e sempre più pericolosamente coinvolto un Pereira già oscuro e fatalista e che ora sta compiendo quasi senza saperlo un percorso di svecchiamento e autoconsapevolezza, un rinnovamento interiore prima impensabile e portatore di una nuova carica di energie mentali, di dignità e di coraggio. Passando attraverso l’esperienza della violenza, della sopraffazione e dell’omicidio di polizia, Pereira si libera del suo vecchio abito miope e rinunciatario e riprende possesso della sua vita, progettando per sé – come ultimo gesto – un futuro ancora non esattamente definito ma certamente assai diverso.
Al di là del significato della storia e delle sue implicazioni, quello che per me è il pregio maggiore di questo grande romanzo è il registro equilibrato che lo accompagna dall’inizio alla fine e che non scade mai, nemmeno nelle pagine di più dichiarato valore morale e politico, né nella propaganda né nella celebrazione né nel comizio censorio, ma conserva con finissimo equilibrio una costante pacatezza di tono. Lo stile è blando, non ornato, quasi casuale, ma si intuisce la mano esperta dell’Autore nel mantenerlo uniformemente controllato su un registro medio-basso che pare scelto apposta per seguire e sottolineare il ritmo lento e un po’ incespicante delle giornate di Pereira, dei suoi passi faticosi per l’afa e la fiacchezza del cuore, delle ore di solitudine e opaca meditazione, ma soprattutto il ritmo sonnolento della sua stessa coscienza.
Di questo libro, uscito nel 1994, si disse e si dice che contiene una ferma condanna all’imbavagliamento della stampa da parte dei regimi totalitari, tanto che fu usato come manifesto dall’opposizione di sinistra nei confronti del monopolio berlusconiano dell’informazione, ma a me pare evidente che il messaggio di Tabucchi vada ben oltre queste contingenze nostrane, indicando un valore superiore e universale quale quello, più ampio, del risveglio della coscienza e della fiducia in ogni e qualsiasi redenzione. E trovo assolutamente ammirevole la capacità tecnica dimostrata da Tabucchi nel trasmetterlo senza cadere nell’uso di effetti convenzionali o di sermoni edificanti; il suo linguaggio sobrio, senza impennate, senza ammiccamenti, è il mezzo migliore per affrontare temi così fondamentali partendo però dal basso, dalla dimensione umana, dall’individuo e dal suo microcosmo, invece che porsi in cattedra predicando verità scontate e convenzionali. Un linguaggio che si sublima nella chiusa, un piccolo capolavoro nel suo genere, in cui si condensa il senso stesso dell’esistenza umana e delle sue risorse e in cui si indica un futuro la cui maggiore ricchezza è proprio l’indeterminatezza che ne fa territorio di conquista per chi ne auspica uno comunque migliore.

“Era meglio affrettarsi, il Lisboa sarebbe uscito fra poco e non c’era tempo da perdere, sostiene Pereira”.

15 thoughts on “Sostiene Pereira

  1. scusa l’intrusione :)

    ma se ti resta qualche minuto libero, passa a leggere anche il mio blog-racconto .

    A presto

  2. Dopo le aspre polemiche Tabucchi-Ferrara (Unità-Il foglio), mi concessi la lettura di un libro di racconti di Tabucchi: abbandonai dopo qualche pagina. Non ricordo bene il motivo, certo perché non mi entusiasmò.

    La tua recensione mi spinge adesso verso il famoso Pereira. Che faccio, ci riprovo?

  3. Oh, ragazzi, per me questo Tabucchi è stato una rivelazione, soprattutto dal punto di vista stilistico (ma è molto attuale anche il contenuto). Ora ho quasi timore di leggere qualcos’altro di suo per non restarne, magari, delusa.

  4. Anch’io ho letto i racconti di Tabucchi (ecchissenefrega, giusto).

    Ma quanto mi è piaciuto leggere ‘sto post, che secondo me è un voler prolungare un pochino la soddisfazione della lettura…Vero?

  5. Leggere il tuo post è stato un piacere perchè anch’io ho amato moltissimo questo libro e, esattamente come te, provavo dispiacere a raggiungere troppo velocemente la fine.

    A me Tabucchi piace molto ma capisco che possano non soddisfare la vaghezza e l’oscurità a volte quasi onirica dei suoi racconti. In questo romanzo invece, pur senza tradire se stesso, abbandona questi elementi, e ne fa una storia davvero avvincente, con una scrittura chiara.

  6. sono rimasta lontana da tabucchi, dissuasa da non ricordo più chi -e dal caso, che son convinta che prima o poi se un libro deve arrivarti addosso ci arriva.

    da come ne scrivi mi sa che comincerò ad annusarlo sempre più da vicino.

    che se poi m’incanta ti vengo a rendere conto, vè! ;-))

  7. Di Tabucchi non ho ancora letto altro, in particolare non mi attirerebbero i racconti perché è proprio il genere che non mi piace molto. Ma in questo romanzo sono stata folgorata dal tono piano dello stile a fronte di un tema civile così rovente e così sentito. Un linguaggio efficacissimo nella sua sobrietà, quasi un grigiore. Non ho visto il film, ma mi è capitato di pensare che Mastroianni deve averlo interpretatato splendidamente, lui che sapeva rendere così bene il carattere dell’uomo insignificante, schivo, mite.

    Devo anche dire che Sostiene Pereira è giusto un esempio di lettura in cui ho potuto esercitare in pieno il diritto al bovarismo che mi riconosce Pennac.

  8. Luna ti ho visto con il tuo sguardo distratto il flauto a tracolla e la mamma che urla sempre. Ti ricordi quando ti leggevo l’orlando furioso per farti addormentare? E quei compiti così sofferti, i Sumeri specialmente non volevano entrarti in testa. Eri così bella, così persa nel tuo mondo che qualche volta ho pensato di averti fatto io. Non avere fretta di crescere, e quando disegni quei bei cieli non ascoltare chi ti dice di farli azzurri se tu li vedi gialli. Proteggi sempre tua sorella non lasciarla mai e cerca di andare daccordo con la mamma, ti vuole tanto bene come te ne voglio io anche se non ci vediamo più, ora ti lascio perchè mi viene la malinconia e poi divento noioso. Probabilmente non leggerai mai questo messaggio ma sappi che ti penso sempre.

  9. Grazie grazie grazie !!!!!!

    Questo libro è fantastico ! Ho provato a leggere altro di Tabucchi, ma non mi è piaciuto granchè. Ma questo è un capolavoro assoluto.

    Quest’inverno ho anche avuto la fortuna di assistere alla rappresentazione teatrale interpretata da Paolo Ferrari.

    E’ stata una delle serate più belle della mia vita. Vi sembrerò esagerata, ma dire che è stato emozionante è troppo riduttivo.

    Paolo Ferrari è un mostro (nella sua accezione positiva ovviamente) e temo che di attori come lui ne siano rimasti pochi, e non ne facciano più. Ma questo è un altro discorso….

    Ma è stato un Pereira perfetto.

    Alla fine dello spettacolo piangevo, e a casa, mentre raccontavo a mio marito, ho pianto ancora. E mi sentivo così stupida….. Ma mi aveva mosso troppo.

    Grazie grazie grazie !

  10. mammamary: Paolo Ferrari ha proprio la faccia giusta per Pereira; mannaggia, non l’ho visto e ti invidio!

    miskin: grazie per la visita e il brano, delizioso come al solito

    zop: grazie anche a te (ragazzi, andate a trovarlo, questo mio amico: è fortissimo!)

  11. si, si, bello bello

    io l’ho pigliato in mano circa 10 anni fa e leggendo il tuo commento mi sono sentito addosso la stessa camicia sudaticcia che mi sentivo allora 😉

    io mi appassiono di rado alla lettura, e quel “sostiene Pereira” ripetuto più volte mi dal il senso di un’esistenza mite e dolce in cui è piacevole mettere il naso

    l’interpretazione che hai dato è molto attenta, è di una di “mestiere”; penso che la bellazza di quel testo è che sappia inserire lo stesso preciso “semino” che tu hai colto anche la lettore “della domenica”

    (porta pasiensa, al momento non mi spiego mejo di così… ;-P)

    un bacio

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