Le belle estati

casolare

Per un po’ di anni passammo le estati là. Alla casa di pietra vasta come una scuola e alta come una torre, sulla schiena di una collina di cespugli e pecore e un boschetto di allori.
I padroni l’avevano dimenticata, e chi ci veniva – e anche noi – si sentiva ogni volta di lasciarci il proprio segno, perché continuasse a vivere. Così a noi piacque stuccare le cento imposte e ridipingerle color terra contro la salsedine, mentre ai francesi venne di ricoprire i cento letti delle cento stanze con plaid di ritagli a fiori e stelle e a quelli del Sud di riallineare le mille tegole scheggiate del tetto coi nidi di vespe nei solchi.
La mattina presto, caffè e fette di pane sulla panca fuori dalla porta, e intanto il sole arrampicava dalla striscia abbacinata di mare a inturgidire le olive. C’era sempre quell’odor di pittura e intonaco fresco, e quell’altro aspro di erbe a seccare, e poi il nostro di fumo di camino e voglie da sciogliere. D’estate.
Si dipingeva, sul muro e su tele, chi amava dipingere, chi sapeva farlo. Chi amava scrivere metteva un tavolino tondo da bar sotto l’ombra del fico e sedeva sul muretto a guardar nascere una storia. Chi aveva dentro una musica la sgrovigliava sui tasti di una fisarmonica o tra le corde di un violino, la matita fra i denti e i fogli fermati da un sasso.
Dal pozzo tiravamo un’acqua schietta e luminosa che pareva avesse dentro le onde, e ci spremevamo i limoni e ci dissetava. Zuppe selvatiche e pane con l’olio sul tavolone di cucina, una caraffa di vino di paese e la penombra di convento delle travi basse. Sui pianerottoli i greci avevano appeso terrecotte dei loro santi dai volti orientali, che ci seguivano con occhi socchiusi quando si saliva a riposare.
A volte si andava giù sulla costa con sporte di paglia, a fare il bagno su una spiaggia di molti sassi e rametti: ci si scottava la pelle sotto un riverbero sconfinato e il sale ci scoloriva la vista, ma il sangue scorreva a torrente nei polsi e nelle gambe, e stavamo bene come i primi uomini sulla terra, quelli inconsapevoli.
Si faceva tardi la sera, ammucchiando in mezzo fra noi parole, conchiglie, fogli da musica, aliti sorpresi, desideri sospirati, carte da gioco, noccioli di frutta matura. Confessioni, che venivano facili.
In quegli anni – i migliori delle nostre vite, e i più fecondi – nessuna di noi donne rimase incinta, come se la natura avesse vietato che ci riproducessimo in quella riserva primordiale, e nessuno degli uomini spense mai i sensi nell’apatia del vino, per non perdere un solo attimo la cognizione dell’eden.
Da quelle straordinarie stagioni nacquero invece libri, dipinti e sonate che viaggiarono ad emozionare molta gente di là dai mari e oltre noi, nel frattempo già riandati e conclusi.
A settembre, nel salire sul treno, sentivamo secca di sete la bocca, e durava così tutto l’inverno.

3 thoughts on “Le belle estati


  1. Apatia del vino? Chi meglio del vino accende i nostri sensi? senza offese ma… nell'armonia generale del tuo racconto questa mi sembra una nota stonata:)
    Libero (Noè) Neri

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