Se una sera d’inverno il premio Nobel…

Così comincia la breve relazione che leggerò il 3 febbraio davanti al pubblico di lettori e amici della biblioteca, in una serata di cultura e intrattenimento in cui cercheremo di riscrivere il premio Nobel per la letteratura a modo nostro. Ci sarà chi presenterà la candidatura di Sandor Marai, chi quella di Philip Roth, di Marguerite Yourcenar e di Anita Nair. Io presento David Foster Wallace, per il quale ho un debito di gratitudine per avermi prima scossa, poi innamorata e deliziata con il suo mondo così allucinato eppure così umano. E siccome ognuno di noi ha a disposizione solo 14 minuti e l’impresa di condensare è ardua, sono previste altrettante serate monotematiche di approfondimento nei prossimi mesi; un impegno al quale  mi sto già preparando con rispetto e con amore.

Se mai l’austera Accademia di Svezia gli avesse assegnato il Nobel per la letteratura, mi piace immaginare che David Foster Wallace si sarebbe presentato a ritirare il premio nella sua tenuta abituale – capelli raccolti in un codino, bandana sulla fronte, guance non rasate, felpa con il logo dell’università, scarpe da ginnastica – e accompagnato dai suoi due cani, che adorava al punto da affermare di aver bisogno di averli tra i piedi quando scriveva.
Mi piace immaginare che, dopo la cerimonia, si sarebbe concesso – per rilassarsi – una masticatina di tabacco che poi avrebbe sputato nella vecchia tazza da caffè che si portava spesso dietro; un vizio che lo faceva sentire in colpa e dal quale si era quasi del tutto svezzato, ma l’occasione eccezionale avrebbe giustificato uno strappo alla regola.
Mi piace immaginare che avrebbe devoluto l’assegno del premio a una di quelle strutture che si occupano del recupero di soggetti con dipendenza da alcol, farmaci o sostanze stupefacenti, come quelle descritte con straziante precisione in quel capolavoro che è il suo Infinite jest.
Mi piace immaginare che il prestigioso e compitissimo parterre non si sarebbe scandalizzato per il suo aspetto trasandato, non lo avrebbe censurato come un eccentrico, irriverente anticonformista, ma avrebbe visto in lui l’espressione di un’anima trasparente e leale al punto da apparire quasi indifesa, e comunque assolutamente libera e autentica.
Mi piace immaginare.
Ma la realtà è che David Foster Wallace non riceverà più alcun premio se non alla memoria, perché si è tolto la vita nel 2008 a soli quarantasei anni, impiccandosi nella sua casa in California. Un atto estremo che familiari e amici da anni paventavano, perché quanti lo conoscevano bene conoscevano anche il tormento che devastava questo ragazzone prestante, sportivo, brillante e scanzonato, e ormai giunto alla notorietà internazionale e al successo di pubblico come scrittore: la depressione. Una depressione evidentemente endogena, una malattia bastarda che lo accompagnava fin dall’adolescenza e che gli aveva fatto conoscere i reparti psichiatrici e la schiavitù degli psicofarmaci. Negli ultimi anni, l’assuefazione ai farmaci antidepressivi e il fallimento di ogni ulteriore tentativo terapeutico aveva fatto di lui un depresso incurabile. E la sua scelta così drastica fra la vita (o meglio la non-vita, perché tale è la vita di un depresso a quello stadio) e la morte è un suicidio annunciato, forse già previsto in questo brano tratto da Infinite jest, il suo romanzo-fiume e il più acclamato, uscito nel 1996, in cui viene descritta la depressione con toni asciutti ma tragicamente rispondenti a verità:

La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette “per sfiducia” o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli in strada che guardano in su e urlano “No!” e “Aspetta!” riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta.

5 thoughts on “Se una sera d’inverno il premio Nobel…

    • Farovvi sapere, ma il pubblico delle nostre serate, seppure caloroso, ha gusti mediamente nazional-popolari. Paasilinna li fa andare in delirio, Camus li sprofonda nella costernazione. Ce la metterò tutta.

      • Penso che il pubblico sarà dalla tua parte.
        Anche i nazional-popolari conoscono il dolore.
        Sentir raccontare di qualcuno che ha sofferto ed è riuscito a descriverne così bene gli abissi in cui ti trascina, li coinvolgerà.
        Faceteci sapere, pliiis

  1. Mi sembra una bellissima iniziativa! Se vi può interessare sul sito delgli Alieni Metropolitani (www.raccontopostmoderno.com) dal 24 gennaio inizieremo uno speciale su DFW con contributi e recensioni che durerà tutta la settimana. Potete inviare vostri contributi (purchè inediti) o commentare gli articoli che verranno pubblicati… o semplicemente leggendo qua e là. Vi aspettiamo! Raffaella

    • Bella segnalazione. Sono interessatissima e vi seguirò senz’altro, anzi faccio il passaparola anche su anobii dove ci sono dei gruppi devoti a DFW. E il vostro sito finisce subito fra i miei preferiti, oh là. Grazie!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.


*