Amore mio, non spegnere quella luce

Da un quadro una storia:
René Magritte – L’Impero delle luci, 1954

In quella casa che ora dicono vittima di un incantesimo avevano vissuto due persone speciali, e c’è chi sostiene che ci abitino ancora i loro spiriti. Erano arrivati come fuggiaschi – lui un gentiluomo come mai ne ho conosciuti, lei una dama di diafana bellezza con timidi occhi di smeraldo – per vivere in discrezione la loro passione adultera. L’esilio cui li aveva condannati la buona società si era trasformato in una bolla di paradiso che li proteggeva dalle maldicenze e dall’incomprensione. Vivevano l’uno per l’altra; non ricevevano visite e non ne facevano. Bastavano a se stessi, rinunciando a porsi termini nel futuro perché la loro condizione colpevole concedeva solo un fragile presente. Ed essi lo riempivano di tutte le cose che amavano e che potevano permettersi; facevano colazione sul tavolino di pietra del giardino, circondati da fiori selvatici su cui ronzavano le api, poi lui apriva il cavalletto e dipingeva lei che, seduta sulla panchina, ricamava cuscini di seta, oppure dondolava sull’altalena trattenendosi il fiocco delicato del cappello di paglia. A volte uscivano in macchina con un cesto di vivande – lui con guanti di capretto, lei con sciarpa di voile intorno al collo – per un déjeuner sur l’herbe in qualche loro posto segreto, un prato di papaveri o una valletta lungo il fiume. Nei pomeriggi uggiosi d’autunno, dalle finestre del salotto venivano le note di un pianoforte e una voce d’angelo che intonava romanze. Nelle notti più limpide d’estate lui puntava un telescopio dalla torretta e insieme, abbracciati, scrutavano le stelle in impercettibile movimento verso il loro tramonto. Gli uccelli abitavano le fronde del grande tiglio, e il laghetto sereno ospitava gioiosi pesci rossi e placide ninfee, dalle stesse pallide sfumature degli abiti di lei, che amava il lilla, il glicine, la lavanda.
Poi un giorno l’incidente. Fu forse l’improvvisa puntura di un insetto, oppure il guizzo di una innocua biscia di fosso che gli attraversò il sentiero, a far imbizzarrire il cavallo, e l’amazzone cadde. Il suo debole grido di sorpresa fu l’ultima sua voce che egli avrebbe udito.
Il dottore, con volto grave, pronunciò una formula misericordiosa: “Se passa la notte, vivrà”.
E quella notte la luce nella stanza al primo piano rimase sempre accesa, mentre egli aspettava il verdetto della profezia che gli avrebbe portato l’alba con il canto della prima allodola. Il sole sfiorava i muri della casa quando gli occhi di smeraldo si riaprirono, ma non si risvegliò il suo corpo, inerte e insensibile sopra un letto che ora sembrava troppo maestoso per confortare tutta quella fragilità. Nessuna scintilla animò le braccia, le gambe, il volto dolente, né quel giorno né i successivi. Il dottore tornò, strinse le labbra, e i due uomini si guardarono senza dir niente.
Io fui chiamata da una lettera, una grafia malgrado tutto elegante e un tono malgrado tutto sobrio. Avevo da poco lasciato la casa del barone M., dopo averlo assistito fino alla morte, e la vedova mi aveva raccomandata in qualità di – così ebbe la bontà di definirmi – “infermiera competente, zelante e discreta”. Vidi subito che avrei avuto ben poco da fare, perché a tutto pensava lui. Non la lasciava un istante. Il suo posto era stabilmente in quella stanza, dove gli servivo i pasti e assistevo mentre lui cercava di imboccare la sua amata. La pettinava lungamente, le profumava i polsi, mi indicava quale camicia farle indossare, ogni giorno nuova, le leggeva libri dalla pila che aveva accumulato accanto alla poltrona, le raccontava l’avanzare della stagione e i colori del giardino. Le parlava ininterrottamente d’amore. Lei era solo quegli occhi di smeraldo, che battevano le ciglia solo ogni tanto e diventavano sempre più simili a pallidi laghi asfissiati. Per ore e ore affidava a lui i suoi arti inerti, le sue mani da madonna stremata, e lui accarezzava e massaggiava senza sosta, per comunicare vita e calore a quei nervi e muscoli e articolazioni insensibili, per allontanare il più possibile il momento in cui avrebbero cominciato inesorabilmente a rattrappirsi. Io riuscivo a dargli il cambio solo quando, dopo avergli messo di nascosto qualcosa nel tè, lo vedevo assopirsi in brevi e inutili riposi.
Il tempo si fermò, la bolla di paradiso si era offuscata e non lasciava più passare i raggi del sole. Il mondo era tutto lì, una goccia d’acqua che si andava seccando fra le loro mani strette e quegli sguardi senza risposta.
Finché un mattino, scendendo dalla mia cameretta sotto il tetto, scoprii che se ne erano andati. Il letto era rifatto, la stanza era in ordine, dagli armadi non mancava nulla, ma mancavano loro. Spariti senza far rumore né lasciare biglietti o altre tracce. Li cercai ovunque, anche in giardino; un giardino ancora immerso nel buio della notte appena trascorsa benché il cielo fosse azzurro e chiaro fra le nuvole e il mio orologio segnasse le nove in punto. L’acqua del laghetto era ferma, e rifletteva le finestre chiuse, tranne quelle due al primo piano, dove ancora era accesa la luce, così come ancora splendeva silenzioso il lampioncino esterno, forse in attesa che tornassero. Ma non tornarono.
Da vecchia infermiera consumata e realista, mi convinsi che erano partiti per un convalescenziario, magari sul Baltico, dove lunghe cure riabilitative avrebbero ottenuto il miracolo. Ma sapevo di mentire a me stessa. Non era lì che erano andati. Erano molto più vicini, non si erano mai allontanati. Si erano solo trasformati in qualcos’altro, qualcosa di solido e tenace come quell’amore che voleva sopravvivere alla malattia. Forse erano dolcemente annegati nell’antico specchio sopra il caminetto, o si erano confusi tra i personaggi della quadreria degli avi nello studio o fra le pagine dei libri della biblioteca; o magari si erano metamorfosati in una statuetta di Venere avvinghiata dall’edera.
Oppure si erano semplicemente sublimati nel fulgore di quel lampadario e di quel lampione, che continuano a segnare la notte di una casa dove nessuno suonerà più il pianoforte per due amanti tragicamente belli e innamorati.

14 thoughts on “Amore mio, non spegnere quella luce

  1. Io quel quadro l’ho visto, tanti anni fa, al Guggenheim a Venezia.
    C’è la luce lì dentro è qualcosa di incredibile e mi è rimasto dentro.
    Ora conosco anche la storia di quella casa.
    Ciao

    • Conosco bene la Fondazione Guggenheim (sono di Venezia, anche se vivo da tanto di quel tempo in terraferma) ed è proprio lì che l’ho visto anche io la prima volta, oltre 30 anni fa direi. È stata una rivelazione e non me ne sono ancora riavuta.

  2. Quando ho letto che i due protagonisti erano spariti mi son venuti i brividi! E il finale, così inaspettato. Melusina, sei bravissima!
    Il racconto rende perfettamente le sensazioni che trasmette il quadro.

      • “Io non so parlar d’amore
        l’emozione non ha voce
        E mi manca un po’ il respiro
        se ci sei c’è troppa luce”
        (melusina di fronte al quadro)
        :)
        E’ vero che “ogni bello ha il suo più bello” ma questo bello, a me, sembra già bellissimo.
        Ciao!

    • Benvenuti, nuovi viandanti.
      Siamo onorati di esservi piaciuti e speriamo vi piaceranno anche i prossimi quadri della nostra modesta pinacoteca.
      ps: anche tu sei più di uno, come me? 😉

  3. ohcaz… i post da un quadro una storia mi sa che me li vengo a leggere tutti.
    ti sbatto (no, non è carino… rifo…)

    ti metto subito nel mio blogroll, sorella d’etichette :)

  4. 1) quando leggo cose del genere mi vien voglia di smettere di scrivere.
    2) questo racconto mi verrebbe da tradurlo ed esportarlo, perché vorrei tanto lo leggesse una persona che non conosce l’italiano. ma che darebbe un paio di volti a quell’amore.
    3) il codice captcha di questo commento per me è un messaggio chiarissimo.

    :) sei una grande.

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