Ci vorrebbe un amico

Aveva ragione SpeakerMuto: ho fatto bene a riprendere Americana, di Don DeLillo. Degli ultimi quattro libri che ho letto, ben tre erano di donne, fatto piuttosto insolito per me, ma ne è valsa la pena perché alla fine non mi sono dispiaciuti. Quello che mi ha colpita di più è stato L’infinito nel palmo della mano  di Gioconda Belli; casomai ne scrivo qualcosa un’altra volta, o forse anche no.
Ma dopo Egan, Brookner e Belli avevo voglia di ritornare al mio genere preferito: il postmoderno, quello duro e ruvido ma struggente di Wallace e dei suoi predecessori, come Barth e questo grande DeLillo che da due sere mi sta confortando, e anche abbastanza tormentando (le relazioni vive implicano pure questi due aspetti antitetici, no?).
Lo sento, lo vedo, sono lì, riconosco tutto come chi riconosca, al tatto e dall’odore, la trama del suo cappotto più liso e avvolgente. E questo benché io non abbia mai visto New York, non sia mai stata una donna in carriera, non abbia mai subito il fascino del successo e della visibilità (sono tutte cose scomodissime). È una di quelle storie intellettuali che mi stimolano, mi gratificano, mi commuovono con la rivelazione di una sorprendente empatia: questa parla di alienazione e vanità, mette a nudo con spietata eleganza l’immaturità e la miopia di una società vittima dell’immagine.
Non dico altro. Lascio parlare lui, un pezzetto abbastanza a caso perché il linguaggio e l’incanto è tutto di questo tono, classe e suggestione.

Decisi di andare a piedi. Faceva freddo, e il vento soffiava dagli angoli di strada portando odore di neve e vaghi sentori di sempreverde dalle bancarelle degli alberi di Natale. Nella Terza Avenue, gli autobus sfrecciavano via in branco, illuminati a festa come sale operatorie, con ciascun finestrino che conteneva più teste moribonde. Qualche metro più avanti a me c’era un uomo con una radiolina. Attraversò la strada stringendosela all’orecchio, senza prestare la minima attenzione al traffico. Gli tenni dietro per cinque isolati, e lui non abbassò la radio neppure una volta. Lo affiancai. Ascoltava le previsioni del tempo mormorando fra sé, o forse dialogava con la radio. Era molto più giovane di quanto immaginassi, un ragazzino sui quindici anni, tondo e chiazzato, con uno sguardo enigmatico offuscato dalla ciccia infantile, e aveva quell’aspetto da lieve ritardo mentale tipico del genio in erba: la stessa astuzia rapace e grifagna dei collezionisti metropolitani di stracci e bottiglie vuote, grandi campioni evolutivi dell’arte della sopravvivenza. Il ragazzo mi guardò.
«Il bollettino della neve» disse.
Non mi era mai piaciuto avvicinarmi troppo a gente del
genere. Attraversai la Terza Avenue in fretta. Avevo percorso meno di un isolato che lo sentii gridarmi dietro qualcosa. Era fermo dall’altra parte della strada, vicino a un lampione, con le mani a imbuto sulla bocca a chiamarmi e la radio sotto l’ascella, la sagoma corpulenta che scompariva e riappariva tra le macchine e gli autobus che sfrecciavano fra noi, come una successione di diapositive.
«Arriva!» urlò. «L’hanno appena annunciato. Scenderà da un momento all’altro. Otto centimetri entro mezzanotte. Bisogna lasciar libere le corsie di emergenza. Il sindaco consiglia di non usare l’automobile se non in caso di necessità. Da un momento all’altro. Otto-dieci centimetri. La neve! La neve! La neve!»

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