Tornare a Itaca

Ogni tanto ci torno, a Itaca.
Più che altro torno per vedere come stanno, se stanno tutti bene, se c’è qualcosa da cambiare, aggiustare, rinnovare.
Finché va tutto bene, sto bene anche io, perché posso dirmi “Allora, anche se parto di nuovo, qui lascio tutto in ordine, e potrò tornare un’altra volta, magari fermarmi un po’ di più, o per sempre, se ci riesco”.
Finché la mattina si aprono le imposte e i traghetti lasciano gli attracchi e il caffè si scalda sul fornello e qualcuno lava via il piscio di gatto della notte; finché i bambini vanno a scuola e le donne al mercato e i pensionati a vedere i treni alla stazione e i bottegai mettono fuori la merce e spazzano la soglia; e i preti dicono messa per le vecchiette che si alzano presto e osservano il digiuno e quando tornano a casa danno da bere ai fiori e al canarino e rassettano il letto e accendono la radio; finché i morti vanno a San Michele in pompa magna, in corteo attraverso la laguna, traslocando solo temporaneamente in un’isola ancora più bella, più silenziosa e placida; finché tutto continua così, finché stanno a galla loro malgrado e malgrado il peso dei marmi e dei mosaici e della pietra e della Storia; fino ad allora ci tornerò. Ogni tanto, quando posso. Il più spesso col pensiero, o con la musica. Violoncello e clavicembalo insieme fanno miracoli.

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