Morgue

In quarant’anni di servizio e ormai alla vigilia della pensione, che progettava di festeggiare con un viaggetto in Italia, Sister Dorothy Kitting aveva visto di tutto: travagli di 72 ore, tisici che tossivano brandelli sanguinolenti di polmone, alcolizzati che vomitavano secchi di sangue vinoso, operai con mani ridotte a bistecche da presse, bambini ricoperti di pustole che scoppiavano schizzando pus verdastro, piaghe da decubito che mettevano a nudo l’osso sacro, persino stigmate isteriche e infezioni da bacillo megaloschiphidus. Per non parlare di certe amputazioni genitali autolesionistiche e dei numerosi casi di allucinazioni bipolari e deliri da rabdotossina, che comunque aveva sempre affrontato senza mai perdere il sangue freddo e badando bene a che la sua uniforme non rischiasse l’impeccabilità immacolata di cui andava fiera. Ma verso la fine della sua carriera ebbe un’esperienza che mise a durissima prova la fiducia in se stessa e nella verità scientifica.

Erano gli ultimi giorni del St. Bartholomew Hospital: il vecchio edificio sopraffatto da malanni senili inguaribili era stato dichiarato obsoleto, e i malati cominciavano a essere trasferiti nel nuovissimo ospedale in collina, ancora odoroso di vernice fresca, dove si diceva avessero installato le apparecchiature più avanzate e assunto personale giovane e preparato secondo le metodiche più aggiornate. Ascensori silenziosi, ampie vetrate esenti da qualsivoglia spiffero, pareti verde acqua, cromature scintillanti, asepsi cristallina, piastra operatoria integrata, camere con massimo due letti. Al St. Bartholomew le stanze ne contenevano otto, di letti.
Alla fine di ottobre, il trasferimento delle attività e degli uffici era quasi ultimato e al St. Bartholomew restava aperta un’unica ala, dove erano stati riuniti gli ultimi 17 degenti rimasti, quelli giudicati intrasportabili.
Il numero 17, che occupava da solo la terza stanza, morì quella notte. Si trattava di Morgan Potter, il vecchio barbone storico del quartiere, che si era buscato una polmonite pentalobare cadendo – ubriaco – nel laghetto del parco. E quella era, fatalmente, la notte di Halloween, una notte, fuor di retorica, buia e tempestosa; pioggia e vento facevano oscillare gli alberi del viale e infiltravano penosi spifferi nei vecchi locali mal riscaldati. Il vecchio edificio si stagliava vagamente contro le tenebre del cielo, appena identificato dai lampioni esterni e dalla luce gialla della finestra della guardiola al pianoterra, l’unica accesa in tutto il vecchio maniero.
Dopo aver preparato la salma con l’aiuto della collega Edith Peabody, Sister Dorothy si accinse a trasportarla nell’obitorio al piano interrato.
“Io resto qui – aveva detto Edith – il numero 4 non mi piace per niente, temo stia preparando un’altra crisetta di gormitospasmo”.
“Vado e torno, replicò Dorothy; poi prese il grosso mazzo di chiavi, si munì prudentemente di torcia, si chiuse bene il giacchino di lana e si avviò lungo il corridoio spingendo la barella con il fu numero 17 coperto da un lenzuolo.
Gran parte dell’impianto elettrico era stato disattivato per economia, in quegli ultimi giorni, cosicché di notte restavano accese solo fioche lucette notturne fuori dalle porte delle stanze di degenza, ma lungo i corridoi deserti che si approfondivano nel cuore disabitato dell’edificio si poteva contare solo sull’aiuto di uno stanco neon ogni due. Larghe porzioni di pavimento e muri erano fasciate di pesante penombra, che si addensava angolo dopo angolo verso il vetusto montacarichi. Era fermo al piano, e le sue fauci grazieaddio erano (molto sobriamente) illuminate dal solito neon ingiallito e sfrigolante. Dorothy spinse dentro la barella, entrò a sua volta e fece scorrere la grata suscitandone il familiare gemito di ferraglia.
– Non fare scherzi, eh – mormorò in tono minaccioso mentre premeva il pulsante del sotterraneo.
Gli scherzi del montacarichi erano famosi persino quando l’ospedale era giovane e in buona salute, figurarsi adesso che perdeva pezzi e per di più con la burrasca autunnale di quella notte che rappresentava un buon motivo per aspettarsi qualche interruzione di corrente. Tuttavia il vecchio carrettone partì. Con un sobbalzo, del resto previsto, ma partì. E addirittura prese la direzione giusta, per una volta: verso il basso, verso il buio. Adagio, e con qualche perdonabile beccheggio. Ma non si fermò esattamente al capolinea – sarebbe stato chiedere troppo – bensì qualche centimetro prima, una mezza spanna più su, e con un sussulto di tutto rispetto.
– Uffa, ti avevo chiesto per favore – bofonchiò Dorothy contrariata.
Nel silenzio del sotterraneo cavernoso e semibuio che si apriva davanti, quell’uffa rimbalzò ovattata contro una parete e parve tornare indietro come un’eco. Come due uffa invece di una. Ma Dorothy non era lì per fare conti, perché si stava industriando a far superare il dislivello alla barella con manovre energiche, e finalmente ci riuscì con un altro paio di inevitabili trabalzoni.
– Accidenti a te! – fu la sua reazione, ma stavolta si limitò a pensarla perché non era da lei pronunciare simili imprecazioni ad alta voce. Tuttavia doveva averla pensata molto intensamente, perché ebbe la netta sensazione di udirla con le sue stesse orecchie, seppure in tono più soffocato e sgraziato di come l’avrebbe espressa lei di persona, anzi per la verità anche un pochino diversa, più simile a un dannazione! che a un moderato accidenti!
Come disturbato dall’esclamazione, un pipistrello in semiletargo sbatté le ali nell’angolo oscuro del soffitto e si staccò di lì squittendo terrorizzato alla ricerca di un anfratto più nascosto. Dorothy, nel riconoscere la natura di quel sinistro svolazzare, incassò il collo nelle spalle e si protesse il capo con le braccia. Poteva accettare a cuor leggero di trovarsi da sola in piena notte in un sotterraneo con un cadavere, ma le sue ginocchia vacillavano alla presenza di insetti, ratti e soprattutto pipistrelli. Se non altro perché le comunicavano un’insormontabile sensazione di orrore verso tutto ciò che è antigienico.
– Pipistrelli. In un ospedale. Gesù! – sbuffò sdegnata.
– U-u-u! – le fece eco qualcosa, forse il vento fuori oppure il secco fruscio delle ali inamidate della cuffia contro le orecchie.
Decisa a farla finita, riprese a spingere la barella con passo risoluto fino alla porta grigia, di metallo rinforzato, dell’obitorio. La chiave girò più volte prima che la serratura di sicurezza cedesse. All’interno era freddissimo, e ovviamente buissimo; Dorothy girò l’interruttore accanto allo stipite con scarse speranze che funzionasse, e fu piacevolmente sorpresa nel vedere che, al contrario, il neon sul soffitto ce la fece, seppure dopo qualche sinistro sfrigolio, risvegliando freddi riflessi sulle mattonelle bianche delle pareti. Si diceva che l’ospedale nuovo fosse dotato di celle frigorifere individuali e di un termostato infallibile, ma qui l’impianto che garantiva la refrigerazione del vasto stanzone era discontinuo e agonizzante, e le barelle con i cadaveri vi restavano allineate in attesa il minimo indispensabile. Al momento ve n’era una soltanto, e Dorothy parcheggiò il numero 17 di fianco a essa. Intorno c’era silenzio e ordine, come ci si aspetta in luoghi poco frequentati da esseri viventi; il tavolo autoptico era spoglio e gli strumenti sul carrello d’acciaio, minacciosamente allineati con le loro lame e ganasce dalle fogge sinistre, mandavano la fosca lucentezza di un arsenale di armi bianche ben tenuto e pronto all’uso. Dorothy era consapevole di essere l’unica persona viva in quel tempio della Morte, e prima di andarsene dedicò un pensiero rispettoso allo Spirito Oscuro che vi presiedeva, il che per lei non era una vera e propria preghiera – poiché era tendenzialmente agnostica – ma piuttosto un tributo alle forze della Natura che regolavano gli eventi terminali della specie vivente, che la Scienza, di questo era certa, presto avrebbe compreso e svelato per intero, andando ben oltre le patetiche superstizioni del comune pensare.
Non fu necessario girare nuovamente l’interruttore. In quell’esatto momento, il neon si spense da solo. Più che spegnersi, morì. E con lui morirono, non tutti insieme bensì uno dopo l’altro in lugubre sequenza, gli altri che si erano sforzati di illuminare il corridoio cavernoso dei pipistrelli.
Dorothy si affrettò ad accendere la torcia e la diresse sul pavimento a indicarle la via d’uscita nel buio totale, preparandosi mentalmente a visioni ributtanti di topi o tarantole snidati dai loro anfratti tenebrosi e abbagliati dal cono di luce. Ma il pericolo veniva dall’alto: il pipistrello di prima sbucò da qualche punto delle tenebre del soffitto e le sfrecciò sopra la testa con un gemito derisorio. Dorothy istintivamente agitò le braccia per difendersi, e la torcia le sfuggì di mano schiantandosi a terra qualche metro più in là, spenta, anzi morta anche questa. Ora sì che il buio era totale. E il generatore d’emergenza, perché non era ancora scattato? A volte ci metteva un po’, un minuto, due minuti. Quanto durano due minuti in un obitorio la notte di Halloween?
Troppo per aspettare. Troppo, per i gusti di Sister Dorothy Kitting, che avvertiva nelle gambe e nelle braccia tutti i sintomi di una imminente crisi di panico. Un cerino, sarebbe bastato un cerino. Ce n’era una scatola fra gli strumenti del carrello, Dorothy lo ricordò in quel momento con assoluta certezza. Sarebbe bastato rientrare nella morgue, avanzare a tentoni, tastare qua e là cercando di orientarsi, e soprattutto avere la fortuna di cascarci sopra con le mani trafitte da un incontrollabile formicolio isterico.
La porta era rimasta accostata, con la chiave ancora infilata. Dorothy fece per spingere, e in quel momento il sangue che le pulsava follemente nelle tempie prese la forma di voci che pronunciavano frasi perfettamente intelligibili, reali.

– Molly Doherty, vecchia battona irlandese, anche tu qui?
– Non dirmi. Quel lurido ubriacone di Morgan Potter!

Dorothy sentiva le voci, non c’erano dubbi; ed era un dialogo.

Il suo corpo si rifiutò di andare oltre, ma anche di tornare indietro. Solo la sua mente, la sua bella mente agnostica, razionale e scientifica, sopravviveva alla paralisi motoria che la stava inchiodando su quella soglia.

– E che ci fai qui, splendore?
– Quello che ci fai tu, topo di fogna, ah ah ah.
– Io polmonite. E tu?
– Mi vergogno a dirlo, ma cirrosi.
– Ah ah ah, l’ho sempre saputo che io lo reggo meglio di te!
– Il solito gentiluomo…
– Ma… i tuoi capelli, la tua fulgida criniera di capelli rossi? Cosa le è successo?
– Non mi ci far pensare. Sgrovigliati e lavati. Però hanno dovuto aspettare che entrassi in coma per farlo. Mai glielo avrei permesso, da viva.
– Assolutamente, mai e poi mai. A me hanno tagliato le unghie dei piedi, ti rendi conto?
– Non hanno rispetto, lascia che te lo dica.
– Comunque non trovi che sia fantastico ritrovarsi io e te proprio qui e proprio stanotte? Non avrei potuto immaginare una morte migliore.
– Oh già, anche io. L’ambientino, la compagnia… una vera pacchia.
– Però quel montacarichi, di una scomodità…
– Alludi allo scossone? Non hanno rispetto, te l’ho detto.

Dorothy ascoltava come in trance, i piedi congelati e la testa in fiamme. Era certa, certissima, che fossero state espletate con scrupolo tutte le procedure mediche prima della dichiarazione ufficiale di avvenuto decesso, ma quella notte troppe delle sue certezze stavano subendo un attacco frontale da parte di energie malefiche che sfuggivano al metodo scientifico. Poteva spiegarsi la latenza del generatore, ma doveva assolutamente provare a se stessa di essere ancora all’altezza delle proprie responsabilità.
Fu da questo antico orgoglio professionale che trasse il coraggio di emettere un filo di voce, e lo fece improntandolo al massimo rispetto:

– Signor Potter? Mi scusi, signor Potter… ma lei è morto oppure…?
– Ah ah ah, miss Kitting, spero proprio di sì!
– E lei, signora Doherty…
– Signorina, prego. Stia tranquilla, sorella, sono morta anche io. Siamo morti tutti e due.
– Sister, ci creda: mortissimi. E non abbiamo bisogno di niente, davvero. Lei ha fatto tutto il possibile, ma noi ora stiamo bene così, vero Molly?
– Già, dici bene, Morgan. Mai stati meglio nelle nostre grame vite.
– Sentito, Sister? Perciò vada pure, vada in pace. Ci lasci da soli, che abbiamo tanto da raccontarci prima che venga mattina.

Sei mesi dopo, mentre firmava cartoline per le vecchie amiche seduta sulla terrazza di una pensioncina sulla costa amalfitana, Dorothy non avrebbe saputo ricostruire con esattezza cosa fosse successo dopo. Di fatto, il generatore era partito con vari schianti e sibili, i corridoi si erano illuminati e lei in qualche modo era risalita fino al reparto, trovando tutto tranquillo. Non ricordava se il numero 4 l’avesse poi avuta, la crisetta di gormitospasmo paventata da Sister Edith, né se nei giorni successivi al St Bartholomew si fossero verificati altri decessi. Di certo nella morgue non era più tornata, e nessuno che vi fosse sceso al suo posto ne era mai risalito raccontando storie d’orrore.
In effetti, nell’austero ambiente del vecchio ospedale quel genere di facezie era considerato di pessimo gusto.

* * *

Con questa facezia di pessimo gusto chiedo umilmente di partecipare all’Eds 27 spousev paura! bandito dalla Donna Camèl, insieme a:
– lillina con Vite malate
– MaiMaturo con 0.10.35
– Hombre con Wonderwall
– Dario con I guerrieri del caos
– Pendolante con Il collega
– Hombre con Cimici
– MaiMaturo con Il prescelto
– La Donna Camèl con Gatto nero
– Pendolante con Racconto banale

10 thoughts on “Morgue

  1. Ragazze, voi non potete sapere… la sala autoptica, le autopsie alle 8 di mattina, il freddo, la luce cruda, lo sgocciolio nella vasca d’acciaio, i grembiuloni plastificati, lo stridere della sega, lo squaaaccc molliccio degli organi asportati e fatti cadere nelle bacinelle… ah che bei tempi, e come ero giovane!

  2. Letto tutto d’un fiato. Complimentissimi dottoressa melusina!
    Nel caso possa servire, si ritiene che il gormitospasmo dipenda da certi cartoni animati, trasmessi sul digitale terrestre.
    Si combatte con dosi massicce di inazuma 😉

      • Tu hai dato un nome a quel fastidio che mi prende quando vedo mio figlio imbambolato davanti alla TV :)
        E’ la regola 1: “Dai un nome al tuo nemico”: ora combatterò meglio!
        Altro che squalifica…tra gormitospasmo e megaloschiphidus… 😉

  3. Pingback: Racconto banale | Pendolante

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