Terre lontane

È l’ora che precede i Vespri mariani, e nella mia cella sale dal chiostro il profumo commovente delle rose e dei gigli mentre io, carico di anni e di malinconica saggezza, vado ripensando ai tempi lontani in cui ero ragazzino e i colli che dolcemente cintavano il mio orizzonte non erano questi della verde Toscana ma quelli del mio paese natio, il Poitou.
Quella sera indimenticabile, avrò avuto una dozzina d’anni e mai avrei pensato che la mia vita sarebbe presto mutata così profondamente. Fino ad allora, conoscevo solo i confini della masseria, i lavori dei campi, i ritmi degli animali da cortile, gli affetti della mia famiglia di contadini, le leggi della Chiesa e del Re.
Ma accadde un fatto, un incontro, che mi aprì un’altra strada, e la più imprevedibile.
Si era alle porte dell’inverno, e mai come in quei giorni era dolce tornare all’imbrunire alla nostra casupola, riconoscendone da lontano il fil di fumo e pregustando il calore del fuoco e l’odore della zuppa. Terminata la giornata di lavoro, ci accingevamo a sedere tutti intorno al tavolo per la cena; mio padre recitò la preghiera di ringraziamento e subito dopo mia madre cominciò a riempire con abbondanza le nostre ciotole con mestoli di minestra densa e fumante.
In quel momento, udimmo bussare alla porta.
Sulla soglia si presentò uno sconosciuto vestito di stracci, sudicio oltre ogni dire, in atteggiamento umile. Dai suoi capelli come corde intrecciate di pece, dalla barba aggrovigliata e intrisa di ogni porcheria, dalla pelle annerita e in più punti scorticata e disseminata di lacerazioni in parte ancora gementi, emanava il lezzo più nauseabondo che avessimo mai sentito, un miscuglio di fetori dolciastri, pungenti e indecifrabili che invase a ondate la nostra cucina. I miei fratelli e sorelle, in preda a orribili smorfie, sgusciarono sotto il tavolo e si ripararono accanto alle gonne di nostra madre che, gravida per l’ottava volta, era impallidita e si era portata un lembo del grembiule a coprire la bocca. Io, il maggiore, resistetti e anzi mi avvicinai a mio padre per dargli sostegno nella insolita situazione.
Lo sconosciuto parlò, o meglio esalò una voce fioca, mortalmente affaticata, e ci raccontò di essere reduce dalla Terra Santa, dove aveva combattuto e riportato gravi ferite, e in cammino verso Poitiers nella cui cattedrale avrebbe sciolto il voto di povertà e astinenza cui aveva affidato la propria vita. La meta che perseguiva ormai da molti mesi non distava più di due giorni, ma per raccogliere le ultime forze chiedeva umilmente di poter passare la notte al riparo del nostro fienile o nella stalla.
Lo sforzo di questa spiegazione lo aveva sfinito, e a mezzo dell’ultima frase lo vedemmo afflosciarsi a terra come un sacco, ma talmente leggero da non fare che un fruscio di stracci.
Mio padre, che aveva modi rudi ma un cuore cristiano, vinse subito ogni ripugnanza: lo aiutai a trasportare quel corpo infetto e denutrito nel fienile, lo adagiammo, gli bagnammo le labbra con un po’ d’acqua e pian piano lo vedemmo rinvenire. Mia madre gli mandò una ciotola di zuppa e due coperte, e io mi offersi di restare accanto a lui, perché era visibilmente malato e troppo debole. Mi acquattai in un angolo con una lucerna, un acciarino e una brocca d’acqua e mi accinsi a una lunga veglia.

Quella notte, il cavaliere errante smaniò e delirò a lungo, squassato da una febbre diabolica; agitava le braccia alla cieca, respingeva la coperta, scuoteva la testa di qua e di là, bofonchiando frasi spesso incomprensibili in cui a tratti emergevano lamenti da strappare il cuore. Io, inchiodato da una fascinazione irresistibile, lo ascoltavo; e un po’ alla volta le sue parole smozzicate si facevano chiare alle mie orecchie. L’immaginazione fece il resto.
Raccolsi una lunga storia di viaggi per mare e per terra, di vascelli carichi di armi e uomini esaltati, di spedizioni a cavallo o sui cammelli lungo piste desertiche e pietraie.
Udii clangori e cozzi di ferri e mazze, scalpitii e nitriti, cigolii di carri da guerra lanciati all’assalto, sibili di dardi, sfrigolii di incendi.
Ma udii anche il carezzevole gorgogliare di limpide fontane e le nenie tribali di tamburelli e flauti, e il fruscio della brezza della sera fra le palme e i cedri, e lo sciabordio dolce della risacca in riva a un grande mare.
Vidi i diamanti e le gemme che incrostavano il manto di califfi, gli stendardi variopinti sulle torri, le cupole dorate delle città sante, i cortei bizantini e cristiani, le porpore, le sete, gli schiavi neri come la notte che conducevano al guinzaglio maestosi leopardi alla corte del Re di Gerusalemme.
E soprattutto distinsi, dal marasma stordente che impaniava quel corpo derelitto, gli innumerevoli odori che ne componevano la varietà. La salsedine degli scafi di legno, l’afrore delle stive e dei postriboli del porto, le spezie multicolori dei mercati, la frutta matura sui muretti bianchissimi al sole, gli aromi degli erboristi e dei maestri profumieri, gli incensi delle liturgie, le pietanze piccanti vendute per le strade. E accanto a queste fragranze così esotiche e seducenti, e intrecciate a esse, ecco anche i fetori della guerra, il sudore dei cavalli, il puzzo della paura dei combattenti, quello dolce e ferroso del sangue vivo, o asfissiante delle ferite infette e dei corpi bruciati, e poi la putredine dei lebbrosi, i miasmi della dissenteria, il tanfo dei lazzaretti, delle prigioni, delle carcasse di animali ai cigli delle strade polverose.
Tutto questo vidi, udii e annusai, e ne ero al tempo stesso sconvolto e abbacinato.
Solo verso mattina la febbre cedette, e l’infelice si quietò, sfinito come dopo una lunga lotta. Allora mi addormentai anche io, e quando mi svegliai il sole era alto e l’uomo se n’era andato. Aveva piegato con cura la coperta, bevuto tutta l’acqua e mangiato la minestra fredda, lasciando ogni cosa in ordine in un angolo.

Due settimane dopo, accompagnai mio padre a Poitiers per un mercato di bestiame, e mentre era occupato a trattare sgattaiolai verso la cattedrale per cercare notizie del nostro ospite misterioso. Venni a sapere che, due giorni dopo che aveva trascorso la notte da noi, un uomo emaciato, con gli occhi spiritati e gli abiti a brandelli, era effettivamente entrato in città e si era rivolto al canonico per sciogliere il suo voto. Dopo la confessione e la benedizione, aveva finalmente preso un lungo bagno purificatore, si era fatto tagliare la barba e aveva chiesto la tonsura.
Quello stesso anno, annunciai ai miei genitori il mio desiderio di abbracciare la vita monastica, ed essi mi affidarono ai canonici di Poitiers. Da allora sono passati tanti anni. Ho dedicato la mia esistenza alla preghiera e alla clausura perché Nostro Signore ci preservi da tutte le eresie e tutte le guerre, e ora la mia lunga vita si sta compiendo fra le mura quiete di questo monastero toscano, tra profumi di rose, gigli e incenso che mi predicono già il Paradiso.

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Questo racconto esaGGerato partecipa all’eds Sniff sniff della Donna Camèl insieme a:
San Sebastiano di Dario
Odori di ricordi di Lillina
Ucci Ucci sento odor di cristianucci di Hombre
L’abbondanza di cozze di Fevarin e carnazza
L’odore della Sipe di Pendolante
Profumo di Marsiglia di Lillina
Odore della domenica di F
La puzza di La Donna. Camèl

13 thoughts on “Terre lontane

  1. Pingback: L’odore della SIPE | Pendolante

  2. Mi piace tantissimo la tua maniera di scrivere, sai descrivere perfettamente tempi e luoghi e lo fai con parole raffinate ma non troppo ricercate. L’esercizio ambientato nel passato è mille volte più difficile eppure tu sembri assolutamente a tuo agio, come se lo avessi vissuto o lo avessi perlomeno studiato per anni. Mi piacerebbe avere tante informazioni e conoscenza da mettere a frutto in racconti come questo ma non è così, dunque, nella speranza di migliorarmi, continuerò a leggerti meravigliata.
    Complimenti davvero:)

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