Le buonanime

Io fino a due anni fa facevo la postina. Che portare la posta a Venezia non è mica un scherso come in teraferma. Prima di tuto in teraferma hanno i motorini, e qua no; qua tuto a piedi, su e giù dai ponti, dentro e fuori le calli, e l’acqua alta e i numeri civici balordi che se non conosci a memoria tuto il labirinto ti trovi a girare in tondo come un imbriago. A noi a un certo punto ci hano dato un carello tipo per la spesa, almeno quelo, no come una volta che avevamo la borsa a tracolla che pesava un acidente. Ma anche col carello non è per gnente un scherso fare i gradini, provate voi di teraferma.
Poi un giorno mentre tiravo su il carello in retromarcia sul ponte dei Ferri un ebete di un garzone che spingeva in giù il carello suo di frutta e verdura ci è scapato di mano e mi è finito adosso tuto belo pesante sul calcagno destro, un male dell’ostrega che sono quasi svenuta.
Sei mesi avanti e indietro dall’ospedale ho fato, per via che il tendine si è belo che roto, e dàgli di operassioni e gessi e fisioterapie, gnente da fare, sono rimasta zoppa, orcocàn.
E sicome che sono come si dice categoria proteta per via di quele due o tre rotelline difetose che ho in testa dala nassita, il Comune mi ha trovato un altro lavoro da far meno fatica, quatro ore al giorno la matina presto, a pulire i musei.
Mi va anche bene perché c’è i assensori e poi non è gnanche tanto dificcile, basta passare con calma una bela scopa e un straccio bagnato, non c’è gnanche mobili da spostare.
L’altro giorno c’era un nebione della malora e dai finestroni del museo Corèr si vedeva tuto bianco, che i vetri non sembravano gnanche sporchi. Ero là che tiravo il straccio su un pavimento quando sento qualcuno fare il mio nome.
“Vardé vardé siora mare, la Ceschina!”
Guardo di qua, guardo di là, nesuno. Saranno le mie rotelline, ho pensato, e ho ripreso a lavorare.
Ma quella là insisteva, con una vocetta da maestrina, tuta smorfiosa:
“Ceschina, sei proprio tu! E non ci saluti?”
Salutare chi, che intorno non c’era nesuno, solo quadri da spolverare.
“Guarda qua, Ceschina, siamo le tue buonanime – mi sento dire.
E infati erano delle buonanime ma di qualcun altro, non certo mie, dentro un quadro tacato sul muro, un quadro anche belo devo dire, con ste belle figurine tute in ghingheri sedute in salotto, che guardavano proprio dala mia parte. Ho piantato lì il spassolone e ci ho risposto educatamente:
“Sì sono la Ceschina ma voi chi sareste che non vi ho mai visto?”
“Eh, tu non ci conosci ma noi sappiamo tutto di te, vero siora mare? – dice la donna giovane, quela col vestito bianco e il ventaglio.
Siora mare è quela di sinistra, con la scuffia in testa e un gato in braccio.
“Ceschina, ti presento le tue bisavole: mia figlia Ortensia e i miei nipoti Zanetta, Carlina, Eleonora e Maffeo. Io sono la bisavola Eugenia e questo è il gatto Momi. Ti piacciono i gatti, vero?”
“Eccome che mi piacciono, ho un gato anch’io e guarda che combinassione si chiama Momi anche lui!”
“A Venezia i gatti si chiamano quasi tutti Momi – dice la figlia, l’Ortensia, con l’aria di una che i gati ci fano un po’ senso, sta smorfiosa.
Il fantolino vestito da bambolotto ataca a ridachiare, e sua mama ci fa:
“Tasi ti, buratìn!”
La fiola granda, la Zanetta, vuol far la sua figura e dice:
“Certo che la Ceschina ha proprio un’aria di famiglia: è zoppa anche lei come l’avo Bartolomeo”.
E qua tute cominciano a contarsela, guardandomi come se fussi una casseta di sardèle sul banco del pessivendolo, e io capisco e no capisco, parlano di certa gente che davero non ho mai sentito prima.
“Non dire stupidessi, l’avo Bartolomeo era zoppo perché a Lepanto si era preso delle schegge di cannone in una gamba. Piuttosto come l’ava Prosdocima, che era badessa a Santa Maria delle Grazie e aveva la gotta”.
“Le mani però sono quelle dell’avo Barba Frutariòl, che aveva banco e bottega a Rialto”.
“Gran lavoratore anche lui!”
“Sì ma gli occhi? Precisi a quelli dell’ava Dolfina, che abitava giusto di fronte alla Veronica, la Veronica Franco”.
“Stessi capelli dell’ava Lucinda, che aveva sposato quel tessitore alla Giudecca. E il naso mi ricorda tanto quello dell’avo Pompeo che dirigeva il coro a San Marco. Dico bene?”
“Senti però, Ceschina – mi fa la vecchia con un modino tuto afetuoso – scusa se te lo dico, ma quel camiciotto celestino non ti sta mica bene, sai. Ti sbatte. Ah, se potessi andare di là, ho una cassapanca piena di damaschi e merletti, ti regalerei volentieri qualche braccio di stoffa per farti un bell’abito come si deve!”
“E io – si mete in mezo il magiordomo sull’angolo della porta – offrirei ben volentieri alle Vostre Signorie una cioccolata, un rosolio, ma purtroppo il Maestro mi ha messo qua in piedi, né dentro né fuori, e non posso servire nessuno…”
Io sono là tuta esterefata che li ascolto, le bele cose che dicono, le maniere da signoroni, tuta quela bela creanza, e un poco mi vergogno col mio camisoto celeste e il spassolone.
“Ma voi come fate a sapere tute queste cose della famiglia?”
“Eh, mia cara, noi siamo qua da tanto di quel tempo, vediamo tanta di quella gente, ascoltiamo tante di quelle storie…”
“E giriamo il mondo, anche. Parigi, Londra, Madrid, San Pietroburgo… All’estero i musei sono pieni di italiani, qua invece vengono quasi solo i foresti. Mah.”
“Ma siamo proprio sicuri che siamo parenti? Perché a me mi par tanto strano…”
“Sicuri, sicuri. Venezia è piccola e siamo tutti un po’ parenti. Avevi sì o no un bisnonno orologiaio a San Marcuola? Ecco, quello era pronipote di un pronipote di questo fantolino qua, Maffeo, che adesso se la ride come un macaco”.
“Ma senti che notissia… Se ce la raconto ala Sonia sicuro che non ci crede…”
La Sonia è la mia compagna di pulissie; al momento è due salette più in là che finisce di lavare per tera, ma fra due minuti verà a chiamarmi perché è ora di andar via.
Bisogna salutarsi, perché a le buonanime non ci piace che i estranei ascoltano i fati nostri, e fra i complimenti mi fano tante racomandassioni:
“Ceschina, i capelli: fatteli più vaporosi!”
“Ceschina, un bell’impacco di glicerina sulle mani tutte le sere!”
“Ceschina, la cipria!!!”
“E stai bella dritta con la schiena!”
Poi ariva la Sonia e quelli si fano tuti muti, mi sembrano anche un po’ più pallidi, sono tornati fissi imobili dentro il quadro, là in posa come prima più di prima.
“Cafè? – mi fa la Sonia davanti al distributore.
E io: “Macché cafè, oggi ti ofro io la ciocolatta al Florian, qua in Piassa!”
“Ciò, e da quando ti xé deventada ‘na Signora? – la Sonia spalanca i ochi.
Mi meto a ridare:
“Sempre stada, vecia mia, sempre stada”.

(nell’immagine, Pietro Longhi: La famiglia Sagredo, 1752)

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