Mille papaveri rossi

Se avete letto il post precedente e vi siete chiesti mo’ chi è sta Gisa, qui sotto ve lo racconto.

La Gisa era una brava ragazza, in paese lo sapevano tutti. Una seria, onesta, che andava dritta per la sua strada senza grilli per la testa né debolezze. E queste doti nel suo caso erano ancora più luminose perché, oltre al resto, la Gisa era anche bella, bella proprio come un’attrice del cinema. Con quei capelli mossi naturali, gli occhi profondi, la bocca rossa, il corpo morbido sopra e sotto una vita stretta da ragazza, le gambe belle da guardare anche se portava zoccolacci o scarponi. Due vestiti solo, aveva: quello a fiori per l’estate e quello nero per l’inverno, e li teneva per la domenica. Per i lavori nei campi si metteva un paio di pantaloni frusti e una camicia vecchia di suo papà, e vangava e trasportava fascine come un uomo. La domenica lavava tutto nel mastello e stendeva nell’orto. Gli uomini le riservavano sguardi eloquenti e bisbigliavano tra loro, ma nessuno aveva il coraggio di mancarle di rispetto, anzi tutto il paese provava nei suoi confronti un sentimento di ammirazione e protezione.
La Gisa era una brava ragazza e portava addosso un’espressione ardita e severa, soprattutto per nascondere la disperazione. Suo marito glielo avevano ammazzato i tedeschi che era sposata da tre mesi, neanche il tempo di restare incinta. E lei, dal gran dolore, aveva deciso di mettersi con i partigiani. Gli portava notizie e rifornimenti su per la montagna, arrampicandosi per la mulattiera con gli scarponi e lo zaino. Quel che le chiedevano di fare, lo faceva senza batter ciglio, come se non le importasse rischiare, o magari come se non avesse il minimo dubbio sulla necessità di farlo. C’aveva paura di niente, la Gisa.

Nella baracca c’erano tutti: il Gufo, il Ciuca, il Manassa, l’Anselmo… tutti. Era buio, notte di luna nuova e nuvole strappate che lasciavano intravedere solo due o tre stelle nebbiose.
Di fuori grida una civetta, due volte, poi altre due.
“La Gisa! – avverte l’Anselmo, e gli uomini si alzano e prudentemente impugnano le armi, casomai sia una trappola.
Invece eccola, è la Gisa che si fa riconoscere e sguscia dentro, col respiro ancora accelerato dall’ultimo pendio. Tutti  la guardano, e sono tesi perché se lo aspettano quello che deve dire, se lo aspettano da giorni.
“Un camion e due jeep, dieci uomini in tutto, partono dalla Certosa a mezzanotte”.
È questo il messaggio stringato e drammatico della Gisa.
Poi si avvicina al tavolo e svuota lo zaino, mentre gli uomini cominciano a parlare tra loro, a fare conti.
“A mezzanotte dalla Certosa, vuol dire che scollineranno alla Forcola verso le due – ragiona l’Anselmo.
“Tagliando per la Pratona, di buon passo siamo là in un’ora – assicura il Gufo.
Gli uomini si guardano cercando ognuno nello sguardo dell’altro una conferma alla propria determinazione.
E intanto la Gisa rovescia sul tavolo sigarette e salami, e dallo zaino estrae con cura due fiaschi.
“Il vino da parte dell’arciprete – annuncia seria – Le sigarette invece ve le mandano le ragazze della Luisona”.
“Ragazzi – dice l’Anselmo con voce grave – se volete scrivere due righe alle famiglie e darcele alla Gisa vi do un quarto d’ora, che poi si parte”.
In silenzio, con gli occhi stretti, tutti si appartano negli angoli con un pezzo di carta, passandosi un mozzicone di matita dopo aver scritto gli ultimi saluti. Cara mamma, cara moglie, mia bella Ninetta.
Solo uno, il più giovane, prende la porta e esce nel buio. L’Anselmo e la Gisa si guardano.
“Cosa l’ha il Muccino?”
“È la prima volta. Avrà paura”.
Il Muccino è la recluta, sedici anni, lo chiamano così perché i bambocci hanno sempre il moccio al naso. Ma anche gli uomini fatti hanno paura prima di andare in azione.
La Gisa le si stringe il cuore, ma vuol far vedere che è una di loro, una combattente, e mantiene in faccia un’espressione dura:
“Vado a parlarci io – dice.
Fuori è buio e fresco. Il Muccino è solo un’ombra più nera accoccolata su un masso sotto un cielo immenso e invisibile.
Parlano un po’, poche parole strette, la laconicità dei soldati.
“Non ho paura. Solo che non ho voglia di morire troppo presto – chiarisce il Muccino, e in effetti sembra più arrabbiato che spaventato.
La Gisa si stringe sulle spalle la giacchetta di suo marito, pensando che nessuno può capire meglio di lei quello che sta succedendo al ragazzo. Dovrebbe essere a casa, nel suo letto, con i genitori che parlottano serenamente in cucina, con i libri di scuola ancora aperti sul tavolo, con il pallone da calcio dentro l’armadio, la canna da pesca appoggiata al muro nell’angolo.
“Vieni un po’ qua – gli dice, e lo prende per mano, lo conduce fra i cespugli, lo attira a terra, se lo fa stendere accanto. È col suo corpo che gli impartisce il battesimo del fuoco.

È mattina presto quando il Tobia sfreccia in bicicletta davanti alla casa della Gisa che sta dando il mangime alle galline e le fa un gesto vittorioso, che significa “Missione compiuta, tutti salvi!”
La Gisa stringe le labbra e si sente il cuore ballare in petto. Stanotte poi non ha mica dormito, è stata sveglia a girarsi nel letto aspettando mattina per sapere qualcosa. Ora che la notizia è arrivata, può fare il resto.
Si mette il vestito della domenica e prende la strada del camposanto.
“Faustino non so neanch’io cosa dirti. Lì sul momento ho sentito che era la cosa giusta e l’ho fatto. E ancora adesso non sono mica pentita. Poi se per qualcuno è peccato, pazienza”.
Il viottolo sassoso è in lieve pendio, la Gisa si sente leggera e salta da un ciottolo all’altro come se guadasse un torrente. A quell’ora la campagna ha un odore buonissimo, la vita un sapore di pane appena sfornato.
Il tedesco intrappolato dietro le linee sbuca fuori da un fosso come un topo incarognito. Ha un’arma in mano e una faccia feroce da affamato.
La Gisa si blocca, intercetta lo sguardo allucinato che le fruga il corpo e capisce tutto. Ma come il Muccino non ha paura, è solo molto, molto arrabbiata.
L’uomo si avvicina col respiro grosso e gli occhi arrossati.
“Ah no, eh, a te non te la do! – esclama la Gisa con forza, esasperata, sprezzante. Non ne può più, è sempre la stessa storia. E mo’ basta, eh.
Improvviso, un mazzo di fiori rossi le fiorisce sul petto: uno, due, dieci, un’unica chiazza, un macabro bouquet da sposa.
Cade sul ciglio, gli occhi rivolti alla chioma dei pioppi, al cielo intrecciato fra i rami più alti. Sempre più bianco, sempre più bianco.

L’han sepolta nel suo abito da sposa, han gettato sulla tomba mille papaveri rossi.

*   *   *

Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
Dario con Lisa Borletti
Dario con Turi Pappalardo
Dario con Lucevan li occhi suoi più che la stella
Gordon Comstock con Il peccato più grande
Fulvia con Biancaneve
Hombre con Present continuous
Gabriele con Cave cave Deus videt
Angela con Pensiero stupendo
Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi
Pendolante con Generazioni
Michela con Apple
Cielo con Il pantone. Altro che rosso
Lillina con Iago
Hombre con I primi nove venerdì del mese
Calikanto con Tabarin 
La Donna Camèl con La casa rossa
Leuconoe con Sogno di un pomeriggio di mezz’autunno
Marco con Il treno rivelatore
Kermit con Aspettando Geova
Singlemama con La Messa della domenica

18 thoughts on “Mille papaveri rossi

  1. Pingback: Cave Cave Deus Videt | L'inverno del nostro scontento.

  2. poetico , ed ecco il mio copia-incolla per questo (ma è solo uno dei tanti)
    “Era buio, notte di luna nuova e nuvole strappate che lasciavano intravedere solo due o tre stelle nebbiose” potrei dirti fermati sono per la mia eccessiva invidia
    ciao

  3. Anche questo racconto è riuscitissimo. Musicale come Paolini quando racconta, e uno spaccato di vita stile Melusina. Bello

  4. Pingback: La confessione | Pendolante

  5. Pingback: Generazioni | Pendolante

  6. Pingback: Pesci bianchi, pesci rossi | L'inverno del nostro scontento.

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