Una mano di bianco

Ė la prima volta che entro in questa casa, la casa di mio padre.
Il notaio mi ha preceduto nell’ingresso per aprire qualche imposta e far entrare la luce. Nell’aria, l’odore della polvere che ha soffocato i tendaggi, infeltrito i tappeti, ingolfato i velluti dei divani. E un altro odore, dolciastro e malato, che ricorda i fiori appassiti, ma il mio naso di imbianchino lo riconosce: è muffa.
I mobili di maggior valore sono protetti da vecchie, enormi lenzuola bianche. Sembrano salme coperte da sudari nell’immobilità delle stanze disabitate.
Non ho mai conosciuto mio padre, né lui ha conosciuto me. Per l’esattezza, non mi ha nemmeno riconosciuto. In questa casa ha vissuto una lunga vita di agi e solitudine in compagnia dei suoi soldi, delle sue collezioni e del suo egoismo. Spietato con mia madre, inesistente con me.
Ma per qualche suo tardivo senso di responsabilità mi ha citato nel testamento. L’esecutore testamentario ha dovuto fare non poche ricerche: di me aveva solo il nome, il cognome di mia madre, la città dove ero nato e una data approssimativa. E quando mi ha trovato, ho saputo che “lui” era morto e che a me, figlio illegittimo e indesiderato, aveva lasciato i suoi libri. “Affinché si faccia una cultura”.
Ho cominciato a lavorare a quindici anni. Mia madre andava a servizio ma odiava quel lavoro. Odiava tutta la vita che facevamo, e nei momenti peggiori odiava anche me, perché le ricordavo che aveva perso la sua libertà. Mi ha cresciuto come poteva e come sapeva, cioè poco e male. A vent’anni ero già solo e mi mantenevo come garzone imbianchino. Lei se n’era andata, non so dove e con chi. Si è persa da qualche parte fra qua e l’altra faccia del mondo.
Ho provato con le scuole serali. Ma dopo una giornata passata a imbiancare, la sera avevo la schiena a pezzi e mi si chiudevano gli occhi. I compiti, li lasciavo il più delle volte in bianco. I libri, dopo un anno inutile li ho rivenduti. Non ho più avuto tempo per leggere, farmi un’istruzione, una cultura.
Oggi ho una piccola ditta, due dipendenti e un furgoncino. Imbianco le belle case degli altri, coprendo con vasti teli di nylon i mobili, i letti, le librerie. Anche questa casa, la casa di mio padre, avrebbe bisogno di una bella imbiancata. I libri bisognerebbe prima metterli al riparo in scatoloni: chissà quanti sono, e chissà che meravigliose storie contengono. Io se avessi tempo qualche libro lo leggerei volentieri, per esempio i romanzi di Mark Twain che ci raccontavano in classe alle medie.
Qui ci sono libri dappertutto. Pareti coperte di libri fino al soffitto, persino sopra gli architrave delle porte. In ingresso, nei corridoi, nei salotti, nella camera da letto, nella vera e propria biblioteca. I dorsi sono di tutte le gradazioni di colore, ma perlopiù nei toni terrosi e ocra, sbiaditi dalla luce e smangiati dal tempo. Volumi panciuti con rilegature in cuoio e titoli in oro, libricini dall’aspetto friabile e preziosissimo, pronti a svaporare come i reperti delle Piramidi al primo soffio d’aria.
“Ma i più importanti li teneva nel suo studio. E parliamo di alcuni incunaboli, alcune cinquecentine. Edizioni rarissime. Un mercante o un collezionista glieli pagherebbero bene”.
Sfioro trattati in latino e atlanti di anatomia. La muffa ha smerlato di paglierino i margini, e attraverso le righe scritte e le illustrazioni barocche guizzano, stanati, piccoli sciami di velocissimi pesciolini d’argento, abitatori e unici lettori di questo universo esclusivo. Chissà com’è la loro vita di insetti minuscoli, abituati al buio fra quelle pagine remote, negli interstizi delle vecchie legature fra le antiche tracce di colla e di tela. Di certo sono più colti e istruiti di me. Di certo si cibano di tutti quegli studi che a me sono mancati.
“Guardi, qui c’è l’inventario depositato in tribunale. Titoli, edizioni, valore: completissimo. Una sua firma qua sotto, ed è tutta roba sua”
Un po’ tardi, direi. Imperdonabilmente tardi.
Lo spazio per la firma resta in bianco.

*  *  *  *  *

Non mi è stato facile rispettare il numero massimo di caratteri richiesto dall’eds della Donna Camèl, ma è lei che comanda. E con me si adeguano:
Angela con Album di famiglia in un interno. Bianco come il bagno nel mese dei lucci
WonderDida con Lamento di una giovane morta
Lillina con Il soffio della vita
Gordon con Caramelle
Dario con Austinu
Hombre
con Chi s’è mai sognato di mangiare una rondine?
Angela
con L’agosto del pesce volante e del pettirosso timido 
Pendolante con La lista
La Donna Camèl con L’occhio del branzino deve essere bianco 
Il Coniglio Mannaro con Diffidenza
Hombre con L’incanutito e la salata immensità

17 thoughts on “Una mano di bianco

    • Grazie sorella, ma per me è un po’ debolino, un po’ forzato. Mi è mancata un’ispirazione forte, a parte l’idea dei pesciolini d’argento.

  1. Ottimamente scritto, e non poteva essere che così vista l’autrice. Solo un appunto, se posso: proprio perchè è scritto in modo elegante, mi suona poco verosimile che quella sia la voce dell’imbianchino. Imo sarebbe più efficace se narrato a due voci, oppure da un terzo.

  2. come dice la nostra DC (per i non adepti non è un partito ma una vera donna) il finale è veramente tosto, là ci freghi con il vero bianco

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  6. Per essere triste è triste… conosco davvero una persona che ha rifiutato i soldi del padre naturale che non lo aveva riconosciuto. Una ben misera rivincita.

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