Don DeLillo: End zone

Dopo la morte di David Foster Wallace, mi sono attaccata ancora di più a Don DeLillo nel tentativo di colmare quel vuoto. Mi dico: meno male che c’è rimasto lui, meno male che ha scritto tanto e pare abbia ancora la voglia di continuare, e allora che Dio ce lo conservi un altro po’, dai.

End zone, che prende il titolo da un termine tecnico del football americano, è un romanzo del 1972, ma inspiegabilmente non era mai stato tradotto in italiano fino a quest’anno. È appena il secondo romanzo di DeLillo, che all’epoca aveva 36 anni, eppure è sorprendente l’evidenza del suo talento già compiuto, in nulla inferiore a quello espresso nei romanzi successivi della maturità. La vicenda è quella di un giovane che trascorre un anno in un college dove si incentiva lo sport del football americano, del quale DeLillo è sempre stato un grande appassionato e conoscitore. Si tratta di uno sport in cui la fisicità e l’agonismo sono esasperati al massimo, secondo alcuni una specie di metafora della guerra, anche se, come dice uno dei personaggi, «io rifiuto il parallelismo tra football e guerra, la guerra è guerra. Non abbiamo bisogno di succedanei dal momento che abbiamo l’originale». Il football è al centro del romanzo – che contiene fra l’altro la lunghissima e mirabile descrizione di una partita all’ultimo sangue, una vera e propria prova d’Autore. Ma altri sono i temi toccati: lo spettro della guerra nucleare, l’incomprensibilità della vita, la paura della morte. Il libro racchiude in pratica le inquietudini della generazione di giovani americani degli anni ’60, iniziati con l’assassinio del presidente Kennedy nel 1963 e segnati dalle minacce della guerra fredda e dall’incubo del Vietnam. DeLillo in ogni suo libro ha cantato l’America come un grande Paese contraddittorio; il suo è una specie di canto addolorato e a volte rabbioso, una denuncia accorata dei mali che lo attraversano e lo destabilizzano. Questo non è un romanzo riposante, di evasione. Nessuno dei romanzi di DeLillo lo è. Al contrario, è un romanzo denso, che scava e illumina, in cui ogni parola e frase è necessaria e al suo posto, che si tratti di elucubrazioni mentali, di descrizioni liriche dei paesaggi o di dialoghi solo apparentemente disimpegnati tra studenti.
Leggetelo se già vi piace DeLillo o se almeno siete interessati al football americano.
Leggetelo se vi pare che i due brevi frammenti trascritti qui sotto vi ispirino rispetto e ammirazione per questo grande autore, che cerca in ogni suo scritto di interpretare la coscienza globale dello spirito americano.

“Non voglio sentire nemmeno una parola sul valore del retaggio di una persona. Sono un individuo del ventesimo secolo. Mi sto esercitando a raggiungere uno stadio dell’esistenza che vada al di là della colpa, al di là del sangue, al di là del ridicolo passato. Meno male che esiste l’America. In questo paese è possibile raggiungere un obiettivo del genere. Io voglio guardare dritto davanti a me. Voglio vedere le cose con chiarezza. La storia non è la più accurata delle profezie. Io rifiuto il Dio iracondo degli ebrei. Io rifiuto il Dio cristiano dell’amore e del denaro, sebbene non rifiuti l’amore in sé o il denaro in sé. Io rifiuto l’idea di retaggio, origini, tradizione e diritto di nascita. Queste cose non fanno che rallentare il progresso della razza umana. Generano solo guerra e follia, guerra e follia, guerra e follia”.

“Qual è la cosa più strana di questo paese? Ecco la risposta: che quando mi sveglierò domani mattina, una mattina come tutte le altre, il primo pensiero spaventoso non saranno i nemici della nostra nazione, i nemici storici contro i quali combattiamo la nostra guerra fredda o la guerra comesichiama. Quella gente lì non mi fa affatto paura. E allora di chi ho paura io, perché non c’è dubbio che io abbia paura di qualcosa. Ve lo dico subito. Ė il mio stesso paese a farmi paura. Io ho paura degli Stati Uniti d’America. Ė ridicolo, non è vero? Ma è così. Prendiamo il Pentagono, per esempio. Se mai qualcuno ci ucciderà su vasta scala, questo sarà il Pentagono. Su piccola scala invece dovete stare in guardia dalla polizia locale. Può capitare che due agenti gentili, laureati e garbati, della squadra che si occupa del lavaggio del cervello vengano a bussare a casa mia alle tre di notte? Voi vedete il mio sorriso accattivante e contagioso e capite che questo pensiero non mi provoca alcuna ansia. Dopotutto siamo in America. Possiamo parlare liberamente. Non smetto di dirmi che non ho motivo di preoccuparmi finché la gioventù americana sarà consapevole di quello che le succede intorno”.

Di terra e di mare

Quando Saverio Campos, il fattore dei conti Valmassoi del Poggio, le chiese di sposarlo, Argentina Servadio gli rispose che si poteva fare ma che lui si mettesse bene in mente che non per questo lei avrebbe rinunciato a Gerico, perché Gerico c’era da prima e ci sarebbe sempre stato, era una cosa a parte, una storia solo sua e senza padroni, e Saverio questo lo sapeva come lo sapevano tutti e accettò a sua volta senza replicare, anzi sentendosi l’uomo più fortunato del mondo perché l’altra cosa importante che sapeva lui e sapevano tutti è che non avrebbe potuto vivere senza la grazia di poter sentire ogni giorno nelle stanze della casa il sospiro delle sue sottane quando lei si alzava presto e spalancava le finestre e il pollaio e le stalle prima di accendere il fuoco, sempre col suo passo piccolo e trafelato di energia mentre insegnava di sua mano alle fantesche come si strizzano le lenzuola lavate al torrente e dal cortile correva in cucina a mescolare paioli prima di scendere in orto a sindacare con l’ortolano la qualità del raccolto, cosicché per tutti gli anni in cui vi fu lei a capo dell’andamento domestico gli albicocchi, i meli, i ciliegi fruttarono più volte durante ogni estate, le vacche sgravavano come conigli, i conigli ingrassavano come maialini, senza contare la qualità del vino dei vigneti, che in bottiglie con le etichette oro e amaranto con le tre palle dei conti del Poggio partiva in vagoni assicurati per le mense di principi regnanti, ministri e arcivescovi; e non replicò né si scandalizzò nessuno in paese anzi era chiaro a tutti che fosse una cosa assai ben fatta, quella di dare al fattore Campos una moglie capace di mandare avanti la grande casa nella tenuta dei conti Valmassoi con la determinazione e il giudizio che aveva solo Argentina, e che la faccenda di Gerico con tutto questo non c’entrava e non riguardava altri che loro due, dato che era cominciata molto prima e non solo non dava fastidio a nessuno ma appariva anzi come una cosa buona e bella e ben fatta anche quella, perché perfino le più schizzinose beghine che non avevano mai avuto un uomo né figli sapevano tutto dell’infanzia di Gerico, famosa per le cinghiate e la catena con cui i suoi genitori lo crescevano nel canile mentre dentro la stamberga loro due si insultavano e si ammazzavano di botte annegati nel degrado di un vino da contrabbandieri, minacciando con lo schioppo e l’accetta chiunque cercasse di impicciarsi del loro inferno. Così anche le vergini e le vedove e le dame benpensanti sentivano quell’antico grumo di sangue tornare a torcersi nei loro uteri vizzi reclamando come sacrosanto un po’ d’amore di donna per quel figlio rinnegato, e pretendendo vendetta per ogni singola maglia della catena da cane che aveva temprato Gerico taciturno al prossimo e indifferente alla fame e al freddo e ai sentimenti tutti tranne quello della fuga, e nessuno avrebbe mai dimenticato che aveva sì e no dieci anni, Gerico, quando riuscì a scardinare la catena del cane e sparì nell’alba, rovinando a balzi sui piedi nudi lungo il costo tra le pietre e gli ulivi finché si lasciò alle spalle la foschia mattutina del borgo e costeggiò prima una segheria poi una fabbrica di cordami e scorse le prime casupole della periferia dove l’odore di salmastro cominciò a guidarlo e lo condusse con sicurezza al porto, a mentire sull’età elemosinando un posto di mozzo a molti capitani finché ne trovò uno che lo prese, anche se in seguito non avrebbe mai saputo dire perché, forse perché aveva sentito subito che dentro quel ragazzino c’era un marinaio, e fu la decisione più illuminata della sua carriera – disse – perché una volta in mare aperto scoprì che aveva anche un’altra dote, quella di confondere le tempeste e farle indietreggiare fino all’orizzonte, cosicché per tutti gli anni che lo tenne con sé la sua nave non incorse in cicloni o uragani e veleggiò sempre placida col vento in poppa mentre altri suoi compari di marineria naufragavano o si incagliavano anche col cielo sereno e la bussola più lungimirante.

E quando Gerico fu uscito dall’infanzia ne sapeva abbastanza da poter diventare capitano a sua volta, non fosse stato per il carattere ombroso e malinconico che lo rendeva inviso agli equipaggi, cosicché gli uomini gli si ammutinavano e nessuno accettò più di imbarcarsi sotto il suo comando. Ma lui continuò a girare il mondo per tutti i mari, come mozzo, come fuochista, come facchino o vedetta, qualunque cosa con qualunque salario anche se doveva stare agli ordini di ufficialetti appena usciti d’Accademia che non sapevano nemmeno stare in equilibrio sul ponte ma pretendevano di essere serviti di tè e crostini giù nel quadrato mentre fuori gli uomini si facevano strappare la cerata dai venti e dalle ondate di traverso; e a vent’anni conosceva più lingue dei professori di Parigi e del Papa di Roma, e non c’era quasi porto o isola che non avesse toccato, da quando in coffa aveva avvistato per la prima volta Capo Verde proprio nell’ora in cui, al paese, la maestra angosciata guidava i gendarmi alla sua ricerca tra i balzi degli ulivi e le tane delle volpi perché i suoi genitori avevano lasciato passare un mese prima di ammettere che sì, il ragazzo era andato via e non si sapeva dove, e nel frattempo avevano continuato a schiantare bottiglie di vino pessimo sui muri della cucina imbrattandosi di schegge vermiglie e di bestemmie. E stava probabilmente stivando casse di rum cubano destinato alla Florida quando suo padre morì del veleno per topi che la moglie gli aveva sciolto nel bicchiere, e pare fosse al limite del circolo polare artico con un carico di merluzzi quando essa soffocò nel sangue del suo stesso fegato squarciato dal vizio, ma queste notizie non gli giunsero se non anni dopo, quando per la prima volta riprese terra e per curiosità decise di salire al Poggio almeno a rivedere il suo vecchio cane.

Il cane era morto di bastonate da tempo, ma in compenso trovò Argentina.

Erano state le suore a chiamarla così, una mattina che erano in cappella per le laudi e avevano sentito suonare a lungo la campanella del portone. Sui gradini c’era una neonata nei suoi stracci, e la via era deserta, nemmeno l’eco dei passi di chi l’aveva abbandonata, solo la scia della campanellina, che per diverse notti tolse il sonno alle monache spaventate. Gerico e Argentina furono messi insieme dal comune destino di orfani indesiderati, e non parve strano a nessuno, nemmeno al curato che anni dopo avrebbe celebrato il matrimonio col fattore, che quei due avessero una strada tutta loro, forse un mondo tutto loro, parallelo ma per questo non comunicante con quello degli altri, in cui riuscivano a rubare alla vita un senso quasi animalesco di riparo e di alleanza che li rendeva invincibili. Anche le beghine rispettarono sempre il loro ineluttabile destino e citavano con ammirazione quasi materna le premure di cui Argentina circondava il suo sposo morganatico quando tornava da traversate lunghe anche mesi e anni, perché non si poteva condannare l’istinto di consolazione di una donna verso un uomo che così poco e male era stato amato nell’infanzia. Saverio Campos, che le responsabilità di fattore dei conti del Poggio tenevano molto occupato e gratificavano fin nel profondo, tutto questo lo capiva, o forse no, ma di certo non disse né fece mai nulla per contrastare i due, anche perché in Gerico non riusciva a vedere un rivale ma solo un uomo più giusto di lui, e poi perché per amore del fruscio delle sottane di Argentina si era abituato a certe mattine in cui lei, alzata prima di tutti, avvertiva il presagio nell’odore del primo caffè, che inspiegabilmente sapeva di salmastro, e allora sentiva con certezza che la nave stava entrando in porto e si affrettava a rassettare i letti e a dare ordini alle donne prima da infilare due cose in una borsa di stoffa sdrucita, salutare tutti col respiro già affrettato e uscire di casa tagliando per i frutteti a terrazze e le scalinate nella roccia fino alla città del porto e all’abbaino dove Gerico a volte arrivava un’ora, due ore, al massimo mezza giornata dopo di lei, sbarcato da navi sfiancate da mesi, e spesso anni, di solitario caracollare in mari senza compassione, col suo involto di panni marchiati di olio e fumo e un titanico bisogno di dormire. Argentina gli faceva trovare la stanza  ben arieggiata, il pane nel forno, la tinozza del bagno piena di acqua e salvia, e lì lo metteva, spogliandolo come un bambino, quell’uomo grande e muscoloso come un pescecane, e gli squamava la pelle di tutto il corpo dal sale e dal nerofumo, e dai capelli sgrovigliava frammenti di gusci di conchiglie e code di cavallucci marini, e gli ordinava la barba impiastrata di alghe e sabbia, poi lo asciugava con lenzuola fresche e lo faceva giacere sul letto nel dormiveglia intanto che lavava i suoi panni contaminati da tutte le sentine e da tutti i porti e i loro lupanari, e nel frattempo il pane usciva fulgido dal forno e il paiolo della zuppa fischiava l’ultimo bollore e la tovaglia a quadri sembrava dispiegarsi da sola sul tavolo e loro due mangiavano insieme, solo guardandosi negli occhi, senza parlare, lasciando tutti i racconti e le chimere a dopo, al giaciglio di iuta sotto il lucernario dei loro abbracci profondi come le grotte sottomarine dove smeraldi abissali lanciano bagliori acquatici ai folli che vi si avventurano e ne restano sedotti senza più aria nei polmoni.

Nei quarant’anni della sua fertilità, Argentina partorì otto figli, quattro maschi e quattro femmine, quattro di mare e quattro di terra, quattro di Gerico e quattro di Saverio Campos. Solo lei assicurava di conoscere con certezza a chi era appartenuto il seme che li aveva generati, ma per Saverio la cosa non aveva importanza: i nati dal grembo di sua moglie erano anzitutto di sua moglie e tanto bastava perché lui provasse fin dentro le viscere un amore straziante e un animalesco istinto di protezione. Né il curato, che nel corso degli anni li benedisse tutti uno dopo l’altro in domeniche di festa paesana, mai si sognò di far differenza tra i battezzati di mare e quelli di terra, perché era un buon prete che prima del seminario aveva frequentato i quartieri poveri dei postriboli e dei reietti e aveva capito che certi giudizi sulla morale dei sentimenti era meglio lasciarli a Dio in persona piuttosto che a certi suoi ministri che il troppo studio della dottrina aveva portato mille miglia lontano dalle dimensioni della gente sincera. E Gerico in tutti quegli anni ebbe l’umiltà di non voler mai conoscere i suoi figli di mare, poiché apparteneva al destino di chi riparte più spesso di quanto non faccia ritorno, e non gli era consentito affezionarsi a nessuna parte di se stesso dato che ad ogni viaggio qualcosa di sé la perdeva per sempre, tra le assi di una tolda o dai boccaporti arrugginiti, o anche nei rigagnoli delle calli dei quartieri portuali, e così non voleva accadesse per i figli di mare suoi e di Argentina, che venissero loro a trovarlo una volta grandi, se volevano, se non temevano di incontrare quel pescecane smunto, dalla nuotata guardinga e dagli occhi arrossati che era metà del loro sangue, delle loro ossa e della loro nostalgia. Non poteva permettersi di pensare a loro mentre le settimane passavano tra le secche del mare d’Indonesia o i tifoni dei caraibi, mentre accatastava pesce secco ai confini del mare glaciale oppure vagava tra i vicoli fumosi di antiche città anseatiche in attesa che si levasse quella nebbia mortale che impediva alle navi di salpare, e in quei momenti senza fine il solo pensare a lei, Argentina, era già troppo, assolutamente troppo, era un ansito che gli ruggiva in cuore come di bestia selvatica che si è smarrita in foreste di sterpi là dove invece aveva creduto di trovare la libertà da ogni gabbia, cosicché l’amore che era la gabbia più grande era anche l’unica cui avrebbe voluto tornare e farsi richiudere, per poi, una volta dentro, ricominciare ad ansimare e ruggire nel bisogno intollerabile di evadere di nuovo. E intanto, al Poggio, Argentina continuava ad alzarsi prima degli altri, spalancava imposte, arieggiava tappeti, radunava oche e galline, raccoglieva le loro uova, che erano d’oro e ne trovava dappertutto più volte al giorno, così come le zucche filavano i loro tralci su per gli spigoli della casa e si tornivano sul tetto fra le tegole, e le vacche figliavano e l’orto gettava lattughe come mazzi da sposa e muraglie di pomodori rampicanti, e sui fornelli borbottavano le zuppe, i sughi, gli sformati, e le donne si indolenzivano le braccia torcendo lenzuola estratte immacolate e grondanti dal torrente e ci voleva lei per forzare la strizzatura magistrale e definitiva che le liberava da tutto il peso dell’acqua e le rendeva pronte a dispiegarsi ai buoni venti del costo asciugando in breve tempo tra profumi di erbe selvatiche.

A volte le assenze di Gerico duravano anni, quando gli capitava di poter saltar giù da una nave per imbarcarsi subito dopo su un’altra e riprendere magari lo stesso giro del mondo ma nel verso opposto, tutto pur di poter prolungare ancora un po’ l’ansia febbrile che gli dava il mare e che gli si era impressa nei calli delle mani, nelle squame delle pieghe della pelle, nel continuo fragore di risacca che gli tormentava le orecchie malgrado gli impacchi di malva di uno sciamano del golfo del Messico. Solo Argentiva sapeva per certo quale sarebbe stato il viaggio che lo avrebbe riportato a casa, perché si annunciava ogni volta con quell’odore di salmastro che saliva dal primo caffè della mattina e che avvertiva solo lei. In quelle occasioni, che nel lungo corso degli anni furono assai meno frequenti di quanto si potrebbe pensare, gli occhi grigi di Saverio si facevano color ardesia mentre saliva in cima all’armadio e ne tirava giù la vecchia sacca di stoffa, e le donne si facevano sulla soglia a ricevere gli ultimi ordini mentre lei raccoglieva le due o tre cose da portar via e i bambini promettevano di essere buoni e pettinarsi da soli, e l’ortolano la aspettava sul cancello per consegnarle un cesto di primizie colte all’alba e raccomandarle buon viaggio signora togliendosi il cappello e inchinandosi come un maggiordomo.

Una mattina Argentina si svegliò da un sogno lancinante, in cui stava sciorinando un lenzuolo nelle acque del torrente e il lenzuolo tirava, tirava, era sempre più pesante e si annodava alle pietre infide del fondo, alle radici dei cespugli sulle sponde, e una forza ineluttabile lo trascinava via, lo strappava inesorabile dalle sue mani, lo consegnava a correnti profonde che lo inabissavano tra i gorghi mentre l’acqua continuava a scorrere cancellando l’inutile sforzo e i segni del naufragio, e Argentina seppe con la sua ultima certezza che quello era il corpo di Gerico affidato al mare in un sudario così come aveva sempre predetto e voluto, seppellitemi in mare, e per questo antico voto aveva fatto di tutto, mentito, dissimulato, pur di ottenere un ultimo imbarco ben consapevole di essere verso la sua fine, la fine del suo corpo di pescecane malandato e solcato di cicatrici, abitato da azzardi ancestrali e malattie da angiporto, consumato dalle maree e dall’ossessione del mare aperto, con ricordi di canti di sirene a sfiancargli il cuore e di vele aggrovigliate dagli uragani ad avviluppargli i polmoni.

Argentina non prese il lutto, non ordinò messe di suffragio e rimase del tutto indifferente quando vennero a dirle che lo avevano fatto al posto suo e in suo onore le vecchie pie e pudiche del paese. Era da sola in cucina e mescolava lo zucchero nel caffè quando sentì suonare la campana del Requiem, e solo allora si ricordò che suo marito era ancora a letto perché ormai si alzava tardi e usciva a passeggiare un’oretta col bastone prima di pranzo da quando il fattore era diventato il primogenito Enea, ed era Enea che ora si levava all’alba per percorrere in lungo e in largo la tenuta dei conti del Poggio con la sua nuovissima squadra di agronomi, guardaboschi, contabili e cani da caccia, e gli altri figli e figlie di mare e di terra erano tutti sposati e sistemati per il mondo e in cucina c’era una cuoca giovane e nuovi e giovani erano anche le fantesche, le lavandaie, gli stallieri, gli ortolani, gli uomini di fatica, tutti succeduti alle vecchie generazioni che ancora strizzavano le lenzuola e mungevano le vacche a mano mentre ora c’erano le macchine che ronzavano e producevano senza stancarsi né metterci il cuore. E vide che qualcuno aveva già spalancato le stanze, arieggiato gli armadi, battuto i tappeti, sprimacciato i materassi, lucidato i paioli, spazzato i pavimenti dalle soffitte alle cantine, diserbato i cortili, ingrassato gli attrezzi agricoli, sciacquato a fondo le botti per il vino nuovo, censito tutte le galline, le oche, i tacchini, i conigli, le vacche, e dentro casa i vecchi mobili di famiglia mandavano opulento profumo di cera, brillavano i lampadari e i corrimano, da ogni angolo la polvere era stata sgominata come ogni mattina da quando era lei a mandare avanti la casa e queste incombenze le assumeva di persona, indicando come fare alle servette che le venivano dietro per imparare, e ricordò anche che da allora erano passati tanti anni, e stagioni e malattie, e lutti e figli, tante volte il pane era uscito dal forno perfetto, altre un po’ insipido come tutte le cose della vita e per tutti, e Saverio per quanto vicino agli ottanta complessivamente stava bene salvo un po’ di gotta e i ragazzi erano padri e madri a loro volta ai quattro angoli del mondo e anche lei, Argentina, non aveva di che lagnarsi tranne che era vecchia e tutt’ossa e per aver tanto e intensamente vissuto il suo cuore aggrovigliava i battiti come acciughe nella rete ogni volta che rincorreva le galline o torceva un lenzuolo, e a parte poi che Gerico non c’era più, era in fondo al mare su un letto di sabbia fra luci quiete di pesci d’abisso che passavano a vederlo durante i loro ininterrotti giri intorno al mondo, e tutto era a posto, ogni cosa era in pace e compiuta, e forse c’era ancora tutto il tempo anche per trovare un buon modo di invecchiare e morire decentemente, e allora si mise a raddrizzare i quadri.

La casa dell’impiccato

Un raccontino modesto, così, per rompere il silenzio dopo tre mesi.
E poi, piuttosto che niente, meglio piuttosto.

Paul Cezanne: La casa dell’impiccato, 1873

La casa dei cugini, me la ricordavo diversa.
Le estati in cui venivamo qui in vacanza era ancora una casa abbastanza nuova, la più nuova del paese, costruita apposta per ospitarvi una famiglia che si preannunciava numerosa, e lo divenne. Cinque figli, erano arrivati, e le grandi stanze spoglie si erano riempite di voci, viavai, profumo di pane e sapone di marsiglia, mentre nel cortile a ghiaia trillavano i campanelli delle biciclette e innumerevoli lenzuola e calzettoni asciugavano stesi sfiorando il rosmarino.
All’interno un unico specchio, nel bagno senza riscaldamento, e così piccolo e alto che sì e no serviva al padre per farsi la barba col pennello all’alba. Sulle pareti nessun quadro, tranne i due ritratti fotografici di fine ottocento dei bisnonni, col rametto d’olivo rinnovato a ogni Pasqua. Nelle stanze, il minimo necessario: un letto per ognuno, un cassettone, una sedia; mancavano del tutto le cose superflue, libri e giornali compresi, e qualunque forma di ornamento. Di tende in particolare non c’era bisogno perché la casa sorgeva distante da ogni altra abitazione, circondata da terra incolta che confinava con la ferrovia, in fondo a una stradina sterrata nuova e poco utilizzata.
Nessuno della famiglia conosceva le esigenze dell’estetica e il piacere del superfluo. Erano gente onesta, senza vanità, tutta lavoro e affetti familiari, sereni nell’economizzare ma non tanto per avarizia quanto per rispetto di un vangelo di campagna, all’antica. I ragazzini crescevano vivaci il giusto ma obbedienti ancora di più. Una famiglia modello.
Poi arrivò l’Angelo del Signore con la sua spada spietata, e li divise. Si prese la madre fra i tormenti di un ospedale senza compassione, assistette beffardo alla fuga dei figli come formiche stanate dal loro castello sotterraneo, riempì di nebbia la mente del padre, più orfano di tutti.
La maggiore prese il treno per la città con la debole scusa degli studi, e non vide quando una burrasca di fine agosto affogò l’orto e la grandine crivellò le galline, disperdendone i resti in un rigagnolo schiumoso lungo lo sterrato. Pochi anni dopo la troviamo a pulire le latrine al Cottolengo, e di qualunque sogno avesse avuto nessuno seppe più niente.
La seconda, quando ebbe finito di ramazzare le frasche e il marciume del nubifragio, indossò un vestito buono e andò in bicicletta a chiedere lavoro in fabbrica nel paese vicino. Sei mesi dopo era incinta di uno sposato, e insieme se ne andarono altrove, a fare una vita di vergogna dove non li conoscessero.
Le altre due sorelle per anni si contesero aspramente il diritto di essere la prossima a lasciare la famiglia; ci riuscì quella che, per dispetto, si prese un fidanzato del meridione che la sposò in sacrestia all’alba e la portò a vivere così lontano che ci si dimenticò di loro.
L’ultima femmina era stata brava a scuola, e le bruciava vedersi avvizzire in un paese di beghine. Ma qualcuno doveva pur occuparsi del padre, prosciugato dalla vedovanza e in balia della debolezza di un carattere che si era sempre nascosto dietro le fiere sottane della moglie.
A Gualtiero, il minore, l’unico maschio, nessuno chiese nulla. Dapprima perché era un bambino, e in seguito per orgoglio, poiché se a lui non passava neanche per la testa di prendere in mano le redini della famiglia e sostituirsi al padre inutile, non erano certo le sorelle maggiori e tutte donne a volersi umiliare nello spronare a farlo. Ciascuna di loro aveva le doti per essere una matriarca, ereditate dalla madre, ma di lei non avevano la purezza d’animo, e per tutta la vita coltivarono segretamente il rancore per l’ingiustizia che gliela aveva tolta quando ancora c’era bisogno di lei.
Così Gualtiero, col suo viso paffuto da marmocchio ben nutrito e un corpo che andava facendosi piacevolmente robusto, terminò di crescere e si fece uomo sempre ignorando il senso della responsabilità, anche quando lavorò prima come meccanico, poi come camionista, e perfino quando sposò quella ragazzetta semplice e vivace di Fratta con cui ebbe un matrimonio breve e tre figlioletti biondini dei quali entrambi non sapevano bene che fare.
Il padre non si accorse nemmeno di essere diventato nonno, come non si era reso conto di avere perduto per sempre tre delle figlie e di aver ridotto in schiavitù l’ultima rimasta. Morì di nulla, come se il nulla in cui aveva vegetato dopo la perdita della moglie lo avesse definitivamente inglobato. E al funerale vennero solo poche donne di pietà perché in paese lo avevano dato per morto molti anni prima.
Solo allora se ne andò anche Ernestina, ma non troppo lontano perché per lei era ormai tardi. Rilevò un negozietto all’angolo della piazza, con camera e cucina al piano di sopra, e vi vendeva fili, bottoni, colletti e scampoli di stoffa. Gualtiero era tornato col suo fagotto di fallimenti, e nella vecchia casa conduceva una vita da rinnegato, barricandosi tra le rovine di famiglia fino a diventare egli stesso un topo di legnaia.
L’hanno poi trovato impiccato nella rimessa, con un cane afflitto che rosicchiava una scarpa poco più in là. Dicono che ormai beveva troppo e troppo male per tenersi un lavoro, qualunque lavoro. Altri pensano che sia stato per il dolore di non poter più vedere i suoi figli dopo la diffida del tribunale. O entrambe le cose. Anche in lui doveva aver albergato il germe negativo di suo padre, quella stessa vocazione all’inettitudine e alla mediocrità.

Entro in casa varcando il cancello che non c’è più. Era stato il loro orgoglio in un paese dove non esistevano staccionate e recinzioni, e dove si accedeva alle aie delle grandi case coloniche attraverso porticine ritagliate nei vasti portoni carrai. In mezzo alla ghiaia del cortile, secchi e tinozze di plastica sfondati, copertoni lisi di camion, rottami di ferro. Le tapparelle, altro orgoglio quando tutte le altre finestre del paese erano ancora riparate da imposte di legno scrostato, pendono a metà, sbilenche e scardinate. Quelle che sembrano tende di velo antico dietro i vetri sono ricami complessi e sovrapposti di ragnatele. Nelle camere in penombra, le reti metalliche dei letti arrugginiscono, e ovunque immondizia, bottiglie, lattine, pile di giornali, stracci, imbottiture sfondate, muffe e sudiciume sui muri, i segni di un falò in mezzo al pavimento del salotto. Per di qua è passata la disperazione, e non ha trovato ostacoli. Come il nubifragio che aveva divelto il pollaio e sterminato l’orto, quando la terra sulla tomba della madre era ancora fresca.

Ernestina forse mi aspettava, si è vestita in un certo modo, goffamente distinto, che me lo fa supporre. I celebri riccioli di famiglia, con quel loro inconfondibile colore di miele scuro, si sono però trasformati in un mazzo di pannocchie riarse, e poi quegli occhiali, mio Dio, quelle lenti grandi e pesantemente ambrate, dietro le quali lo sguardo sembra al tempo stesso sfuggente e maligno. Appoggia le mani a pugno sul vetro rigato del banco in un atteggiamento aggressivo, e alle sue spalle gli scaffali sguarniti espongono la miseria dell’abbandono. In vetrina ho visto qualche bavaglino e dei gomitoli di lana, ma soprattutto uno strato di polvere e falene seccate.
“Sei venuta a vedere come ci siamo ridotti? – mi apostrofa, avvelenata – Guarda, guarda pure, guarda tutto finché puoi, che io ormai non ci vedo quasi più”.
E con una mano fa un gesto rabbioso verso gli occhiali giallastri, indicandomi così l’ultima malasorte con una specie di disgraziata fierezza.
“La casa la vendiamo, sì. Se solo qualcuno la volesse, perché per ora nessuno si è fatto avanti. Forse dovremmo buttarla giù e farla finita, così magari almeno la terra farebbe gola a qualcuno”.
Mi butta là frasi così, dure, risposte a domande che si aspettava da me ma che io non le faccio. In negozio non entra nessuno, mentre mi riassume gli anni dello sfacelo come se sputasse fuori rospi, o peccati vergognosi.
“Dodici anni che non ci parlavamo. Del resto lui non parlava con nessuno. Con i cani, forse. I cani! In quella casa non c’era né telefono né acqua calda, però lui  si teneva i cani, e scommetto che mangiavano meglio di lui. Adesso se li sono portati via, è venuto uno del Comune a prenderli”.
Mi dice anche:
“Voi non potete capire. Voi di città. Cosa ne sapete voi?”
“Questo non puoi dirlo. Siamo di famiglia, Ernestina, siamo addolorati anche noi, davvero”.
E vorrei aggiungere che neanche io ho avuto una vita facile, ma sarebbe vigliacco, così mi tengo dentro tutta questa desolazione, la sua e la mia.
“Compratela voi, la casa. Comprala tu. Perché non la compri? Vale poco, puoi permettertela di sicuro – attacca Ernestina, ed è una sfida.
Ma poi fa un gesto di disgusto:
“No no, a  voi di città non la venderemmo mai. Piuttosto la buttiamo giù e morta là. Tanto io presto me ne vado, ho fatto domanda all’Istituto per i Ciechi, tra poco non potrò più arrangiarmi da sola”.
L’ultima cosa che mi dice prima che esca ha tuttavia qualcosa di conciliante:
“Che vuoi farci, è andata così”.

Fuori, in piazza, una coppia di turisti fotografa la meridiana sulla pieve, mentre i vecchi già giocano a carte ai tavolini del bar sotto i portici e l’ombra del tramonto taglia in due la facciata del Municipio.
La mia macchina è posteggiata lì sotto. Devo solo recidere alcune radici e poi infilarmi in autostrada con Glenn Gould in sottofondo.

Il morbo infuria

Questa storia me la raccontava quand’ero piccola quel buontempone di mio nonno Amedeo, al quale non si sapeva mai se credere perché era un gran burlone; tant’è vero che i preti lo chiamavano sempre per le recite nel teatrino parrocchiale, e quando entrava in scena lui la gente si ammazzava regolarmente dalle risate. E di questo aneddoto di famiglia aveva fatto addirittura una scenetta, il suo cavallo di battaglia, che ogni volta mandava in visibilio il pubblico
Ma anche se lui insisteva che questo era un episodio vero, verissimo, della storia di Venezia, trascurato dai libri per miopi motivi di decenza, molti dettagli stanno a dimostrare che si tratta di un falso storico; pur tuttavia a noi nipotini piaceva un mondo, e seguitavamo a farcelo raccontare in molte varianti.
È in ogni caso vero che il nonno Amedeo, che era falegname, discendeva in realtà da una stirpe di speziali: il suo bisnonno Maffeo, protagonista di questa gustosa storiella, aveva ereditato la farmacia di famiglia a Santa Fosca. Era il suo orgoglio e quello di sua moglie Tullia, che scendeva dall’appartamento al primo piano tutti i giorni per spolverare di persona i preziosi vasi di vetro soffiato e quelli di ceramica allineati sulle solide mensole di quercia. Contenevano erbe essiccate buone per tutti i malanni, che Maffeo sapeva dosare con un bilancino di precisione e triturare diluendo con alcoli ed essenze per i preparati galenici più efficaci di tutta Venezia. Tullia, nello spolverare, si inebriava di quei tesori: l’oro del miele depurativo, il blu dell’iris, la senape color ocra, la malva rosata, la viola artemisia, il giallo dell’arnica, il nero della liquirizia, la verde menta, il tamarindo screziato.
Un giorno, mentre Maffeo nel retro introduceva il figlioletto Giambattista ai primi rudimenti dell’arte speziale, Tullia lo avvertì che c’era gente. Era entrato infatti un giovanotto marziale in divisa, una divisa i cui colori – il blu e l’azzurro imperiali – al patriota Maffeo facevano salire il sangue alla testa. Ma poiché la salute pubblica era per lui una missione, e non solo un commercio, si accinse a servirlo con competenza.
L’ufficialetto spiccicava un italiano barbaro, e i contorsionismi verbali cui si costringeva lo rendevano ancora più incomprensibile. Risultò, molto all’incirca, che Sua Eccellenza il Maresciallo soffriva di costipazione e necessitava di un rimedio. Maffeo annuì gravemente e invitò l’attendente a tornare dopo un’ora per ritirare il preparato. Poi si ritirò nel retro e pasticciò con le sue erbe e le sue essenze con insolita soddisfazione. La boccetta in cui distillò il prodotto assunse un colore ambrato che gli parve carino ravvivare con qualche goccia di blu di metilene e aromatizzare con un tocco di anice. Ne uscì un capolavoro pittorico e gustativo, che il figlio Giambattista ammirò con stupore come l’opera di un mago.
L’attendente ripassò puntuale, ritirò l’ordinazione e se ne andò battendo i tacchi con quel rumore ridicolo che a Maffeo faceva venire la voglia di spaccare qualche testa, possibilmente austriaca.
“Cosa ci avete messo, signor padre? – chiese Giambattista, ansioso di imparare.
“Mah, un po’ di questo, un po’ di quello… – tergiversò Maffeo – Principalmente senna, cascara, aloe e tamarindo, se proprio vuoi saperlo”.
E aggiunse: ” Ricetta segreta, eh: non svelarla in giro”.
L’indomani l’attendente tornò paonazzo e agitatissimo, e prese a sbraitare in tedesco. Che Sua Eccellenza era stato malissimo tutta la notte. Che tuttora si torceva dal mal di pancia. Che avevano certamente tentato di avvelenarlo. Che avevano dovuto svuotare in canale più e più volte tutti i vasi e i secchi di casa. Che in casa c’era un odore che probabilmente non se ne sarebbe più andato via. E che, naturalmente, qualcuno doveva pagare per tutto ciò, e quel qualcuno non era di certo lui, che aveva solo riferito il disturbo e chiesto un rimedio.
Maffeo lo ascoltò con espressione candida e spaesata, scuotendo la testa.
“Che sta dicendo? Con chi ce l’ha? – chiese Tullia, che era scesa tutta allarmata.
“E io che ne so, questo qua parla in tedesco – rispose Maffeo.
“Ma tu il tedesco lo conosci benissimo, hai studiato a Vienna!”
“Sì, ma lui mica lo sa – rispose Maffeo con un brillio scaltro negli occhi.
Per farla breve, fecero venire un interprete, e saltò fuori che c’era stato un increscioso equivoco. Allora Maffeo, che non aspettava altro, recitò la scena finale:
“Sua Eccellenza mi perdonerà, ma io quando ho sentito la parola costipazione ho inteso si trattasse di costipazione dei visceri. Mica mi avevate detto che era di petto. Eh diamine, c’è costipazione e costipazione! Se mi aveste detto che si trattava di costipazione di petto, gli avrei preparato uno sciroppo di malva, tiglio e miele balsamico, e a quest’ora sarebbe guarito. Un’altra volta siate più preciso, giovinotto, e magari procurate di imparare la lingua del posto, ché con i farmaci non si scherza!”
Con questo sermone severo e un flacone di ottimo sciroppo espettorante (al quale all’ultimo momento volle misericordiosamente aggiungere il tocco magico di un po’ di agrimonia, ortica e carrubo dal miracoloso potere astringente), congedò l’attendente gabbato facendolo passare per sciocco e colpevole, e per altre quattro generazioni (il figlio Giambattista, il nipote Gaspare, il pronipote Amedeo e me), si tramandò l’esilarante storia di quella volta che il Maresciallo Radetzky rischiò di morire ingloriosamente di cagotto per una dose di lassativo da cavalli.
Invece poi, come tutti sanno, Venezia fu messa a ferro e fuoco e colera (il cagotto quello vero), e io stetti sempre ben attenta a non citare la bravata dell’avolo Maffeo quando la maestra mi interrogava sul ’48.
Ma mi piaceva immaginare che il povero Manin, amico di famiglia e ultimo doge della sventurata Repubblica, fosse partito per l’esilio portando con sé almeno qualche pasticca rosa per il crepacuore e un bottiglino di assenzio verde alga per l’insonnia, sapientemente preparati dalle mani del miglior farmacista della città.

*   *   *   *   *   *

Per l’EDS arcobaleno della Donna Camèl, insieme a:
Tramonti di Angela
La grande bolgia di Stefano
Il professore delle favole di Hombre
Pinocchio di Dario
Avventura al Policlinico di Il Coniglio Mannaro
Magia al Polo Sud di Michele
Madonna segreta di Gordon
Cicciuzzu Babbaluci di Dario
Temporale primaverile di Pendolante
Di padelle ne è piena la Storia di Pernonsprecareunavita
Frammenti di vita di Lillina
I custodi del lunedì mattino di Marco
Spifferi di luce di Stefano
Alice nel paese dei cosplayer di Leuconoe 

Bazar

Ho molto viaggiato, vi dico, ho girato tutto il mondo; ne ho viste di tutti i colori. E ovunque sia stato, ho sempre veduto il sole sorgere giallo a est e arancione tramontare a ovest. Ora che la vecchiaia mi ha riportato a casa, nei miei occhi continuano a specchiarsi le luci variopinte dell’Oriente anche mentre la nebbia dell’inverno annega i tetti e le cupole della mia città.
Ho molto viaggiato, vi dico, ho girato tutto il mondo; ne ho viste di tutti i colori, e potrei raccontare storie che molti crederebbero inventate. Ah, sapessi dipingere, che quadro farei di quel bazar… ero uscito da palazzo mentre il mio padrone riposava, e mi ero lasciato attirare dal brusio di un grande mercato.
Incuriosito da un insistente tintinnio di campanelli, mi avvicinai ad alcune bancarelle stipate di oggetti colorati e, a prima vista, di difficile catalogazione. Facevano gruppo a sé, un gruppo esotico, disposte a formare quasi un cerchio che lasciava poco spazio in mezzo, così che girandosi ci si trovava subito di fronte dell’altra mercanzia e altri colori. Prevalevano i rossi, dal porpora all’arancione acceso, con molte note violacee e stacchi di blu quasi fosforescente, ma si alternavano anche gli ocra e i marrone, tutti però caldi, vivaci, con un che di vitale come fossero mantelli di animali favolosi dormienti e pronti a svegliarsi. Dietro i banchi, figure insolite dai tratti e dalle vesti orientali, forse di zingari, forse di stregoni. Gli uomini avevano i crani rasati, dalla pelle bronzea e lucida, e nella fusciacca ai fianchi portavano infilati piccoli scudisci o pugnali; le donne invece avevano il capo e il volto velati, e da una fessura orlata di perline si intravedevano occhi lucenti come il plenilunio. Dall’orlo delle larghe maniche ricamate uscivano polsi sottili e  magre mani affusolate color della terra, ornate di unghie lunghissime tinte di rosso bruno. Avevano tutti un aspetto fiero e misterioso, più che mercanti sembravano principi del deserto, cosicché le loro mercanzie, disposte con incredibile opulenza sui banchi e per terra, sopra tappeti splendidi, sembravano non oggetti in vendita ma l’esibizione del bottino di un ricco saccheggio o di un tesoro dissepolto da una grotta incantata.
Rotoli di tessuti lucenti, cuscini, velami traforati e trasparenti, fusciacche di colori digradanti, fasce di velluto con appesi campanellini d’argento, ciabattine ricamate con la punta allungata e incurvata, speroni appuntiti, passamanerie a nastri e frange, fazzoletti di velo incrostati di pagliuzze dorate, samovar di smalto, cammelli ed elefantini di giada, tabacchiere di peltro, pipe d’avorio, collane di conchiglie, bracciali di rame, anelli di pietre dure, gioielli raffinati che riproducevano in svariate fogge e materiali le spire di un serpente o teste di animali feroci, specchi incorniciati di legno intagliato, coppe colme di perle di vetro minuziosamente decorate e colorate: di tutto, su quei banchi opulenti e misteriosi, all’ombra di tendaggi che soffondevano una luce rossastra, un’atmosfera surreale. E, su ogni cosa, quel lieve ma continuo tintinnare che proveniva dai molti, moltissimi, turiboli appesi a spandere intorno uno stordente profumo di incensi diversi.
Qua e là, dappertutto, fra mazzi di piume di pavone, denti di drago e fiori di seta, in grandi vassoi laccati stavano raccolti in gran numero dei boccettini di cristallo iridescenti, ognuno diverso per foggia, dimensioni e colore del contenuto, dall’ambra allo smeraldo al rosso sangue al nero assoluto. Quando accennai a sporgermi per prenderne uno, comparve al mio fianco uno di quegli uomini impassibili e muti e mi fermò con un gesto della mano, mentre con l’altra se ne incaricava lui e me lo porgeva. Tolse con gran delicatezza il tappo di cristallo lavorato e mi avvicinò l’imboccatura perché annusassi, in perfetto silenzio. Aspirai un aroma sconosciuto ma incantevole, cui non avrei saputo dare un nome: ricordava un fiore sul punto di appassire, ma sotto emergeva una nota intensa di spezia indecifrabile. Socchiusi un attimo gli occhi per inebriarmi, e solo quando li ebbi riaperti l’uomo annuì e pronunciò una parola, una parola sola e per me incomprensibile, forse il nome di quel profumo, forse una formula magica.
Dopo di quello, me ne fece annusare molti altri, uno dopo l’altro, tutti misteriosi e tutti fortemente speziati oppure dolci, tutti nuovi per il mio olfatto e tutti insinuanti, tali da stregarmi. Di ognuno citava il nome (o forse il potere) senza altro aggiungere, e poi lo posava al suo posto quasi con riverenza, senza mai permettermi di toccare le boccette, come se volesse silenziosamente ammonirmi che quei profumi, quegli unguenti, quei balsami magici non erano cosa per me e potevano anzi nuocere a chi non fosse iniziato alla stregoneria orientale.
Sotto le tende rosse, tra quelle esalazioni di incenso e le fragranze inquietanti dei boccettini,  cominciai a provare uno stordimento via via più languido, che mi procurava vertigine, affanno e debolezza alle gambe. Sentivo caldo, mi si annebbiava la vista e nelle orecchie il tintinnio dei campanelli si stava trasformando in un rullo di tamburi che da sommesso andava crescendo di intensità e ritmo fino a sgomentarmi. L’uomo ora non mi porgeva più nulla e restava a guardarmi senza intervenire, quasi studiando le mie reazioni del tutto occidentali e compatendole dentro di sé. Sentii che dovevo strapparmi via da lì, da quel luogo di seduzioni arcane dove non avrei mai dovuto avventurarmi da solo. Girai sui tacchi e fuggii in una direzione qualunque, fuori da quel cerchio di magie diaboliche.

La sera, al banchetto del Kublai, non raccontai nulla al mio padrone per timore che la mia stolta audacia venisse rimproverata. Egli era così sereno, così bello e beneamato, indossava vesti fastose color cremisi e smeraldo, e la benevolenza del gran Kublai si riversava su di lui.
Ma stasera su Venezia è scesa una nebbia densa che tutto cancella e scolora, e anche l’inchiostro della mia penna si è seccato, trattenendo nel suo fondo indaco i policromi ricordi della mia giovinezza.

*   *   *   *   *   *

Per l’EDS arcobaleno della Donna Camèl, insieme a:
Tramonti di Angela
La grande bolgia di Stefano
Il professore delle favole di Hombre
Pinocchio di Dario
Avventura al Policlinico di Il Coniglio Mannaro
Magia al Polo Sud di Michele
Madonna segreta di Gordon
Cicciuzzu Babbaluci di Dario
Temporale primaverile di Pendolante
Di padelle ne è piena la Storia di Pernonsprecareunavita
Frammenti di vita di Lillina
I custodi del lunedì mattina di Marco
Spifferi di luce di Stefano
Alice nel paese dei cosplayer di Leuconoe 

Mississippi

Mino non ha mai pescato così tanti pesci in un solo pomeriggio.
Il fatto è che nessuno è venuto a chiamarlo per la merenda e i compiti, e questo è molto strano.
Non è strano per niente, invece, che la sua barchetta sia un terrazzino, la sua canna da pesca un bastone con uno spago e il suo Mississippi il cortile di cemento del condominio. Bisogna vedere quanti pesci, e come abboccano! Di tutte le misure, piccoli e grandi; i più divertenti sono quelli grossi che si dibattono, tirano forte, ma lui tira ancora più forte e li prende tutti. Nell’album di figurine che ha riempito con il nonno ci sono le immagini dei pesci di tutto il mondo. Uno alla volta, Mino ha intenzione di pescarli tutti, che siano d’acqua dolce o salata. Così a volte spinge la sua barchetta in mezzo al mare e aspetta che abbocchino. Nel mar dei Caraibi ha pescato pesci angelo, in quello del Giappone dei velenosissimi pesci palla, nell’Oceano Indiano il pesce chirurgo e il pesce farfalla. Ma senza andare troppo lontano (perché alle 4 di solito deve rientrare per i compiti), nel Mediterraneo ha catturato enormi cernie e squali bellicosissimi, tutto da solo!
Se sarà promosso, il nonno gli ha promesso una canna da pesca vera, misura da bambino ma per il resto completa di tutto.
Ma adesso Mino ha fame, ed è anche un po’ stufo di pescare. Accosta la barchetta alla riva erbosa del Mississippi e scende a terra.
In cucina non c’è nessuno. Sul tavolo qualcuno ha lasciato un mazzo di rose bianche avvolto da un largo nastro nero con una scritta argentata. I bicchieri sono sullo scaffale alto, dove lui non arriva. Va a cercare la mamma, ma c’è quello strano silenzio in casa, e le persiane mezze abbassate.
Sono tutti nella camera del nonno. Il papà, la mamma, gli zii, le zie, anche don Guido. Bisbigliano, qualcuno trattiene un colpetto di tosse, altri si soffiano il naso. Il nonno è a letto, da qualche giorno sta poco bene e non è più venuto a pescare. Dietro i parenti vestiti di nero, Mino non riesce a vederlo, ma siccome tutti parlano sottovoce capisce che sta dormendo. E non sa cosa fare, non vuole disturbarlo.
La mamma si accorge di lui, lo prende per mano e lo porta via.
In cucina gli versa un bicchiere di latte, poi toglie le rose dal cellophan e le aggiusta con tristezza in un vaso.
Mino ha i baffi bianchi sopra la bocca.
“Mamma, per chi sono quei fiori?”
“Per il nonno, pesciolino mio. Oggi è andato in Cielo”.
E lo abbraccia, gli pulisce i baffi di latte e gli ravvia i capelli.
“Ora vai, torna a giocare”.
“E i compiti?”
“Per oggi non importa. Pensa solo a giocare e a fare il bravo bambino”.
Mino torna al fiume. Il sole comincia a calare dietro il casamento di fronte, i pesci si nascondono sott’acqua per dormire sul fondo. Ma ecco che in mezzo al Mississippi, avanza maestoso un battello a ruota pavesato di luci. Mino si incanta a guardarlo, non ha mai visto un battello così grande e festoso: c’è un’orchestrina che suona e gente che balla, e le macchine fanno pot-pot e dietro si forma una allegra cascata di spruzzi.
E quello lì a prua… ma sì, è lui, è il nonno, con la giubba da pescatore, la canna da pesca sulla spalla e il sorriso birbante dei suoi giorni migliori, che si toglie il cappellaccio di paglia e lo agita verso di lui in segno di saluto.

*  *  *  *  *

Questo è quanto richiesto dall’eds della Donna Camèl, al quale partecipo insieme a:
Angela con Album di famiglia in un interno. Bianco come il bagno nel mese dei lucci
WonderDida con Lamento di una giovane morta
Lillina con Il soffio della vita
Gordon con Caramelle
Dario con Austinu
Hombre con Chi s’è mai sognato di mangiare una rondine?
Angela con L’agosto del pesce volante e del pettirosso timido
Pendolante con La lista
La Donna Camèl con L’occhio del branzino deve essere bianco
Il Coniglio Mannaro con Diffidenza
Hombre con L’incanutito e la salata immensità

Una mano di bianco

Ė la prima volta che entro in questa casa, la casa di mio padre.
Il notaio mi ha preceduto nell’ingresso per aprire qualche imposta e far entrare la luce. Nell’aria, l’odore della polvere che ha soffocato i tendaggi, infeltrito i tappeti, ingolfato i velluti dei divani. E un altro odore, dolciastro e malato, che ricorda i fiori appassiti, ma il mio naso di imbianchino lo riconosce: è muffa.
I mobili di maggior valore sono protetti da vecchie, enormi lenzuola bianche. Sembrano salme coperte da sudari nell’immobilità delle stanze disabitate.
Non ho mai conosciuto mio padre, né lui ha conosciuto me. Per l’esattezza, non mi ha nemmeno riconosciuto. In questa casa ha vissuto una lunga vita di agi e solitudine in compagnia dei suoi soldi, delle sue collezioni e del suo egoismo. Spietato con mia madre, inesistente con me.
Ma per qualche suo tardivo senso di responsabilità mi ha citato nel testamento. L’esecutore testamentario ha dovuto fare non poche ricerche: di me aveva solo il nome, il cognome di mia madre, la città dove ero nato e una data approssimativa. E quando mi ha trovato, ho saputo che “lui” era morto e che a me, figlio illegittimo e indesiderato, aveva lasciato i suoi libri. “Affinché si faccia una cultura”.
Ho cominciato a lavorare a quindici anni. Mia madre andava a servizio ma odiava quel lavoro. Odiava tutta la vita che facevamo, e nei momenti peggiori odiava anche me, perché le ricordavo che aveva perso la sua libertà. Mi ha cresciuto come poteva e come sapeva, cioè poco e male. A vent’anni ero già solo e mi mantenevo come garzone imbianchino. Lei se n’era andata, non so dove e con chi. Si è persa da qualche parte fra qua e l’altra faccia del mondo.
Ho provato con le scuole serali. Ma dopo una giornata passata a imbiancare, la sera avevo la schiena a pezzi e mi si chiudevano gli occhi. I compiti, li lasciavo il più delle volte in bianco. I libri, dopo un anno inutile li ho rivenduti. Non ho più avuto tempo per leggere, farmi un’istruzione, una cultura.
Oggi ho una piccola ditta, due dipendenti e un furgoncino. Imbianco le belle case degli altri, coprendo con vasti teli di nylon i mobili, i letti, le librerie. Anche questa casa, la casa di mio padre, avrebbe bisogno di una bella imbiancata. I libri bisognerebbe prima metterli al riparo in scatoloni: chissà quanti sono, e chissà che meravigliose storie contengono. Io se avessi tempo qualche libro lo leggerei volentieri, per esempio i romanzi di Mark Twain che ci raccontavano in classe alle medie.
Qui ci sono libri dappertutto. Pareti coperte di libri fino al soffitto, persino sopra gli architrave delle porte. In ingresso, nei corridoi, nei salotti, nella camera da letto, nella vera e propria biblioteca. I dorsi sono di tutte le gradazioni di colore, ma perlopiù nei toni terrosi e ocra, sbiaditi dalla luce e smangiati dal tempo. Volumi panciuti con rilegature in cuoio e titoli in oro, libricini dall’aspetto friabile e preziosissimo, pronti a svaporare come i reperti delle Piramidi al primo soffio d’aria.
“Ma i più importanti li teneva nel suo studio. E parliamo di alcuni incunaboli, alcune cinquecentine. Edizioni rarissime. Un mercante o un collezionista glieli pagherebbero bene”.
Sfioro trattati in latino e atlanti di anatomia. La muffa ha smerlato di paglierino i margini, e attraverso le righe scritte e le illustrazioni barocche guizzano, stanati, piccoli sciami di velocissimi pesciolini d’argento, abitatori e unici lettori di questo universo esclusivo. Chissà com’è la loro vita di insetti minuscoli, abituati al buio fra quelle pagine remote, negli interstizi delle vecchie legature fra le antiche tracce di colla e di tela. Di certo sono più colti e istruiti di me. Di certo si cibano di tutti quegli studi che a me sono mancati.
“Guardi, qui c’è l’inventario depositato in tribunale. Titoli, edizioni, valore: completissimo. Una sua firma qua sotto, ed è tutta roba sua”
Un po’ tardi, direi. Imperdonabilmente tardi.
Lo spazio per la firma resta in bianco.

*  *  *  *  *

Non mi è stato facile rispettare il numero massimo di caratteri richiesto dall’eds della Donna Camèl, ma è lei che comanda. E con me si adeguano:
Angela con Album di famiglia in un interno. Bianco come il bagno nel mese dei lucci
WonderDida con Lamento di una giovane morta
Lillina con Il soffio della vita
Gordon con Caramelle
Dario con Austinu
Hombre
con Chi s’è mai sognato di mangiare una rondine?
Angela
con L’agosto del pesce volante e del pettirosso timido 
Pendolante con La lista
La Donna Camèl con L’occhio del branzino deve essere bianco 
Il Coniglio Mannaro con Diffidenza
Hombre con L’incanutito e la salata immensità

Il numero 97

L’autobus giallo, il numero 97, rientrò al deposito a fine turno a mezzanotte e 25. Fu solo allora che ci si accorse del cadavere scivolato fra i sedili. Che fosse cadavere era abbastanza evidente, tuttavia lo accertarono quelli del 118 arrivati con l’ambulanza, e subito dopo arrivò anche la gazzella dei carabinieri, chiamata così, per sicurezza.
Il conducente, interrogato, non aveva molto da dire. Era stata una corsa normale, pochi i passeggeri, nessun inconveniente. Dal capolinea era partito vuoto, di questo era sicuro. Lungo il tragitto aveva imbarcato qualche persona per lo più diretta dal centro verso la periferia, come sempre il sabato sera a quell’ora. Un gruppetto di ragazzi, saliti tutti insieme e probabilmente di ritorno da una festicciola, aveva fatto un po’ di chiasso con una chitarra e un mangianastri che passava roba di quei tipi nuovi, quegli inglesi con la frangiona, i bitols, i bitles, insomma quelli lì, i capelloni del momento.
“Ubriachi? – chiese il commissario.
“Forse di Fanta – rispose l’autista, che in trent’anni di servizio aveva visto di tutto succedere sugli autobus, dalle risse ai flirt, dagli scippi ai parti prematuri. Anche qualche morto, aveva visto, ma finora sempre per cause naturali. Questa era la prima volta che aveva trasportato, a sua insaputa, un corpo esanime trafitto da qualcosa di così appuntito da provocargli, come ipotizzarono i paramedici e confermò più tardi il perito autoptico, un’emorragia interna letale.
La scientifica fece i suoi rilievi e non trovò nulla di interessante. La solita sporcizia dei mezzi pubblici, cartacce, gomme appiccicate, resti di merendine. Impronte ce n’erano a iosa, tutte sovrapposte e illeggibili. Il cadavere apparteneva a un uomo presumibilmente fra i 40 e i 50 anni, di proporzioni, peso e lineamenti del tutto comuni. Gli indumenti erano comuni anch’essi, forse un po’ sgualciti, e le tasche risultarono vuote: né documenti né foto o lettere. L’igiene personale appariva discretamente curata, la dentatura era sana e non rivelava alcun pregresso intervento odontoiatrico, la barba non aveva più di tre giorni; sul corpo, nessun anello o medaglietta, nessuna cicatrice chirurgica o tatuaggio o segno particolare. Solo quel forellino netto che trapassava il cappotto, la giacca, la camicia, la canottiera e infine la milza, e che ne aveva provocato il progressivo collasso per dissanguamento.
“Possono esserci volute anche ore prima che crollasse – disse il medico legale – Anzi forse non si è nemmeno accorto di essere stato ferito e può aver camminato a lungo finché non ha avvertito i sintomi dello shock emorragico”.
“L’arma? – chiese laconico il commissario.
“Qualcosa di appuntito e sottile. Direi un cacciavite a stella da elettrotecnico”.
“Grazie Matteo”.
“Figurati Gianni, e buon lavoro”.

Furono convocati i familiari di alcune persone scomparse. Tra i primi si presentò una vecchina che da mesi cercava suo figlio, un mascalzone che viveva alle sue spalle ma alla cui perdita non si rassegnava.
“Eppure… – mormorò dopo alcuni istanti.
“Si faccia coraggio, signora Matilde, e lo guardi ancora. Ė lui?”
“Posso solo dirle che non è mio figlio, grazie a Dio, eppure mi ricorda qualcuno”. Qualcuno che aveva visto la settimana prima, non avrebbe saputo dire esattamente quando, perché lei al cimitero ci andava tutti i giorni. Lo aveva visto là, una mattina presto, quando per i viali non c’era ancora nessuno, e lo aveva notato per via di quella cosa strana che stava facendo.
“Si era tirato su le maniche della camicia e si stava lavando viso e braccia alla fontanella, capisce? E poi si è arrotolato i pantaloni e si è lavato anche i piedi. Alla fontanella. Serio e tranquillo come fosse nel bagno di casa sua. Io mi sono girata dall’altra parte e ho fatto finta di niente per non metterlo in imbarazzo. E inoltre ho le cataratte, quindi non mi sentirei di giurare che fosse proprio lui. Però me lo ricorda. Un barbone? Non direi affatto: sembrava un signore distinto, magari un po’ dimesso, ma distinto, ecco”.
Indagini lungo il percorso del 97, foto diramate in tutti i commissariati della città, della provincia, della regione, del Paese, ricerche negli ambienti degli emarginati e degli informatori, nulla aiutò a chiarire il caso. Lo sconosciuto rimase tale. Un uomo qualunque in buona salute, senza vizi rilevabili dagli esami di laboratorio, senza corrispondenze nei registri dei sospetti, dei pregiudicati, degli scomparsi. L’unica traccia, la testimonianza poco attendibile, di fatto quasi ritrattata, della vecchia signora. Il commissario ne tenne conto anche quando il direttore lo esortò a non perdere altro tempo su quel caso e a tornare piuttosto a occuparsi di omicidi più illustri.
Il sabato successivo, fuori servizio, prese l’ultima corsa del 97, e ripercorse il tragitto dello sconosciuto. attraverso tutta la città, da una periferia all’altra, costeggiando quartieri di ogni tipo, negozi, scuole, cinematografi, palazzine residenziali. Guardava accigliato dai finestrini, in attesa di un’intuizione che non venne.

A letto, nel buio della stanza rigato dai riflessi giallastri dell’insegna di fronte che filtravano fra le stecche delle tapparelle, pensava al suo uomo. Lo vedeva vagabondare per le strade, attraversando piazze, rasentando palazzi grigi, a caso, come uno sceso da un treno alla stazione sbagliata e senza soldi per comprare un altro biglietto. A casa aveva lasciato un lavoro fallito, una moglie assente, nessun vero amico; casomai fastidio, ostilità, rancori, o più di tutto indifferenza. A un uomo così non servivano più i documenti, né un orologio da polso o un portafogli con le foto dei cari, né un indirizzo, delle chiavi, un posto dove tornare ogni sera. Eccolo che vaga incerto, è nuovo del mestiere, non sa come si faccia a diventare un vero barbone, capisce solo che non succede tutto d’un tratto, che ci vuole volontà, la volontà di abbrutirsi, e la perseveranza.  Ė ancora agli inizi, ancora indietro per imparare come si deve saper rinunciare allo spazzolino, al rasoio, alla doccia, come si allestisce un giaciglio tra due cassonetti per coricarsi all’aperto. Forse non è ancora pronto ad abbandonare del tutto la sua dignità. Tentenna, si sta testando, ci arriverà per gradi, passando attraverso la fame e l’accattonaggio che ne sarà l’obbligata conseguenza. Eccolo che si fa sera e non ha ancora mendicato, ha tenuto duro, ma ora ha le ossa stanche e i piedi dolgono. Non si sente all’altezza di accostare quelli come lui, le colonie di reietti che si sono organizzati a dormire sui cartoni, nei cunicoli, nei caseggiati in demolizione. Per stanotte, per qualche notte, cercherà un altro genere di riparo, più discreto, più appartato.
Questi qui dovevano essere piuttosto ricchi e orgogliosi del loro nome se si sono fatti costruire una cappella così ornata. Ha perfino una porta con i vetri fumé, e dentro è una stanzetta di marmo col soffitto a cupola e targhe bronzee alle pareti. Sul pavimento in mosaico, lapidi lisce con svolazzi in oro brunito. Ai quattro angoli, colonnine corinzie reggono trofei di fiori finti. Ma dalle fessure il vento di molti inverni ha soffiato dentro foglie secche e marciume, e le corone d’alloro di plastica sono completamente stinte. Una tomba di famiglia abbandonata nella zona più remota e antica del cimitero, tra altre muschiose dimore eterne di gente che nessuno ricorda neanche più.
Lo sconosciuto trova legittimo prenderne una in prestito per qualche notte. Dormirà al coperto, raggomitolato nel cappotto. Potrà comunque lavarsi alla fontanella, domattina, finché non si sarà abituato a farne a meno. Ed ecco che la seconda sera, non molto più barbone del giorno prima malgrado abbia rimediato mezzo panino sotto una panchina al parco, porta nella nuova casa provvisoria due sacchi di iuta e una coperta raccattati tra i rifiuti nel pressi del mercato. Appende con cura il cappotto a una torcia di rame perché non si stropicci troppo, si prepara il letto, si stende, riesce persino ad addormentarsi senza più pensare a quanto gli piacerebbe radersi.

Il commissario legge dei fogli senza trattenere una sola parola. Ė sicuro che un sopralluogo al cimitero gli permetterebbe di trovare quella cappella e le prove del passaggio del suo uomo. Ma non ne ha parlato con nessuno, e non sa se vuole veramente farlo. Il suo uomo si stava nascondendo, non da qualcuno, non dalla giustizia, ma da se stesso. Stava imparando a perdersi, era questo il suo desiderio. Voleva solo essere libero, libero di non esistere per chi lo aveva già comunque rinnegato. Poi, una sera, all’imbrunire, un altro disgraziato incalzato dal freddo era penetrato nella cappella, lo aveva minacciato per rubargli il posto, quel miserabile riparo tra le ossa dei morti e l’umido dei cipressi. Lui si era difeso, forse gli aveva proposto una temporanea coabitazione, perché era un uomo civile e non aveva ancora imparato la legge della giungla. Ma l’altro era un topo della notte, un randagio incattivito e irragionevole, e dal fondo dei suoi stracci aveva estratto un cacciavite – a stella, sottile, da elettrotecnico – colpendolo fulmineo a un fianco prima di fuggire. L’uomo senza nome non aveva sentito l’arma penetrargli nel corpo. Il freddo e lo shock avevano attutito il colpo. Era rimasto raggomitolato nell’angolo, incredulo e ansimante. Quando, dopo parecchio, aveva cercato di rialzarsi, si era sentito strano, molto debole. La fredda aria notturna non riuscì a rianimarlo. Sto male, pensò. Mi starà venendo un infarto. Devo cercare qualcuno che mi aiuti.
L’autobus giallo era in arrivo carico di luci, che alla sua vista appannata si confondevano in aloni multicolori. Accostare la scala al muro di cinta, salirvi e poi lasciarsi cadere al di là era stato puro e primitivo istinto di sopravvivenza. Ora quell’autobus lo avrebbe portato da qualche parte, dove c’era gente, un pronto soccorso, ossigeno, medicine, salvezza. Quei ragazzi così allegri, così vivi. Cantavano, erano sgraziati e eccitati come gli storni sui campanili. Se avesse avuto ancora un minimo di fiato, un barlume di lucidità, un’ultima goccia di sangue nelle vene, avrebbe potuto ancora chiedere aiuto a loro.

Il commissario non voleva sapere altro. Non gli interessava un colpevole a tutti i costi: avrebbe significato scoperchiare fatti troppo privati, aprire ferite, confondere idee, e soprattutto mandare in prima pagina un uomo che non voleva più avere una storia. Omicidio di ignoto a opera di sconosciuti.
Caso archiviato.

*  *  *  *  *

Il Giallo non è propriamente il mio genere letterario, ma è quanto richiesto dall’eds della Donna Camèl, e chi sono io per obiettare? Quindi mi adeguo come posso, aggiungendomi ad altri che certamente faranno meglio, come
Dario con [condomini emiliani] Bitols
Hombre
con Ritratto in ocra e carboncino 1 e 2 e 3
Angela con Giallo canarino
Michelarosa
con Il cane bianco
Lillina con Giallo di provincia
Dario con Carmelo Sapienza
Marco con Assassinio sull’Agreste Express
Pendolante con Dolce come la morte 1 e 2
La Donna Camèl con Ah, look at the lonely people 1 e 2 

Kate G.

(dedicato a Kate Gompert, per chi la letto Infinite jest)

Quando riapro gli occhi c’è mia madre seduta in fondo al letto.
Ė tanto che non ci vediamo. Non mi sembra cambiata: è sempre la stessa, anche quando è seduta su una sedia scomoda in fondo a un letto in ospedale pare appena uscita dal parrucchiere e in procinto di raggiungere le amiche in centro.
“Ti sei svegliata, finalmente – dice.
Quello che non dice è:
“Era ora, così adesso posso andarmene”.
E quello che invece avrebbe dovuto dire è:
“Come stai?”
Ma non posso aspettarmelo da lei, e quindi con gran fatica (ho le labbra secchissime) lo chiedo io:
“Come sto?”
“Come stai tu? Come sto io! – esplode durissima, e si alza dalla sedia e invece di venirmi vicina si mette a fare su e giù nella stanza, stringendo i pugni e scuotendo la testa.
“Hai ragione. Come stai, mamma? – chiedo debolmente.
Si ferma a capo del letto e inizia a pontificare agitando le braccia:
“Come sto? Come sto? Sto come una che ogni volta che squilla il telefono pensa ecco è la polizia, ecco è l’ospedale, ecco è l’obitorio… ecco come sto. Sto come una che… non so più neanche io come sto, ecco come sto!”
Chiudo gli occhi ma lacrime ne scivolano fuori lo stesso.
“Mamma, non è come credi, ti posso spiegare… ti posso spiegare? – mormoro.
“Non c’è niente da spiegare. Non mi prendi più in giro, tu. L’hai rifatto, e anche stavolta te la sei cavata. Non c’è altro da aggiungere. Cosa vuoi spiegare? Tu, a me? Ma per favore, lascia stare”.
Raccoglie la borsetta, si rimette il cappottino distinto e si avvia decisa alla porta.
“Ti mando l’infermiera. Spiegalo a lei” – e così se ne va.

L’infermiera arriva subito con i suoi zoccoletti silenziosi, la linda casacca verde, un sorriso umano. Mi dà un buongiorno radioso come se fosse venuta ad alzarmi per andare a scuola in un qualsiasi, soleggiato mattino di primavera. Mi fa delle domande familiari mentre mi controlla la flebo al braccio e la medicazione alla testa; ha mani leggere e tiepide, la sua presa sul mio polso è rassicurante.
“Bene, direi che ora dovresti avere fame. Che ne dici di una bella tazza di tè con qualche biscotto? E più tardi ti aiuterò a sedere in poltrona. Non provarci da sola, mi raccomando: potrebbe girarti la testa”.
Com’è premurosa, com’è normale.
“Aspetti – la fermo – Volevo dire qualcosa, Beh però adesso non mi ricordo più cosa… no no, aspetti, ecco. Volevo sapere come sto”.
E lei (non mi sembra vero) mi risponde:
“Adesso stai bene, è tutto a posto. Ci stiamo prendendo cura di te e tu non devi pensare a niente altro”.
“Ma io volevo spiegare – insisto puerilmente, e cerco di sollevarmi sul cuscino ma la testa sembra troppo pesante.
“Non l’ho fatto apposta, deve credermi. Mi sono trovata nelle circostanze, e ho dovuto farlo. Ho dovuto, capisce? Ė stata legittima difesa. O io o lei. Non ce la facevo più, provi a mettersi nei miei panni, con una che mi capita in casa a ogni ora, quando le pare, e ci fa i suoi comodi per tutto il tempo che vuole. Anni che la sopporto, che la subisco…”
“Stai parlando di tua madre? – mi chiede addolorata.
“No, mia madre non c’entra, mia madre non viene neanche mai a trovarmi. Sto parlando di Kate. Non la sopportavo più. Mi toglieva la libertà, l’aria, tutto. Mi entra in casa, si siede in salotto, oppure mi segue in cucina, in giardino, perfino in bagno, e parla, parla, parla. Parla così tanto e di cose così assurde che mi fa venire la nausea, mi gira la testa, mi si stringe il petto e dopo un po’ vedo tutto nero. Mi manca l’ossigeno. Sento il pavimento diventare molle sotto i piedi come se si stesse aprendo una voragine, e intanto il soffitto si abbassa e le pareti si accartocciano, e io resto asfissiata. Ma lei queste cose non le capisce. Gliele ho dette tante volte, o perlomeno ogni volta che mi ha lasciato parlare. Non mi ascolta, parla sempre lei. Oppure il contrario: viene ma sta zitta tutto il tempo. Mi guarda e sta zitta. Mi guarda dall’angolo dello studio, dalla portafinestra, dall’armadio, dall’oblò della lavatrice, dal pianerottolo delle scale. Ho imparato che per togliermela dai piedi devo inventare una scusa, e così fingo di addormentarmi. Ma non ci riesco, non ci riesco! Lo sa da quanti mesi non dormo?”
L’infermiera si è seduta sul bordo del letto, e mentre farnetico mi liscia piano i capelli dietro le orecchie.
“E non potevo nemmeno denunciarla, capisce, perché con la polizia ho un conto in sospeso, una piccola cosa di droga. Ma adesso le giuro, sono pulita da due anni, due interi anni senza, due anni duri e puri, e nessun rimpianto. Non fumo più, non mi faccio più, non bevo nemmeno alcolici. Rigo dritto.”
“Lo so, cara, lo so: i tuoi esami del sangue parlano chiaro, sei una brava ragazza – mi rassicura, carezzandomi maternamente.
“E allora ieri non ce l’ho fatta più, capisce. Perché mi hanno licenziata per colpa sua, e adesso è veramente troppo. Mi hanno licenziata perché Kate ormai veniva a trovarmi anche sul lavoro e mi costringeva a chiudermi in bagno con lei per discutere, ma i colleghi sentivano la mia voce agitata, a volte gridavo, o singhiozzavo, e si sono spaventati, e hanno cominciato a tenermi d’occhio e qualcuno si è accorto che non facevo bene il mio lavoro, che certi giorni scappavo via prima dell’orario o non mi presentavo per niente. Perché se non dormo non ho neanche più la forza per lavorare, capisce? Capisce cosa mi ha fatto? Mi ha rovinato la vita. E io cosa dovevo fare? Ieri ero sfinita. Ero agli sgoccioli. Non avevo neanche aperto le finestre, né mi ero fatta la doccia, e non avevo mangiato da almeno tre giorni. Lei è venuta lo stesso. Una lite furibonda con l’ultimo fiato che avevo in corpo. Niente, lei rideva, mi prendeva in giro, faceva apposta a restare lì per tormentarmi. Allora l’ho afferrata per i capelli (la sua bocca rideva, rideva!) e ho cercato di sbatterle la testa contro il muro per farla tacere. Forse volevo ucciderla, chi può dirlo. Non ero nelle condizioni di sapere nemmeno io cosa stavo facendo. Ma lei è più forte, lei è agile, lei è piena di salute e di energie, e si è divincolata facilmente, così è stata la mia testa quella che ha sbattuto sul muro. E mentre stavo svenendo nel mio sangue, Kate ancora rideva”.
Ora taccio, chiudo gli occhi, ho detto tutto, ho rivissuto l’incubo. E non so se mi ha fatto bene o male.
“Povera piccola – mi sussurra l’infermiera, avvicinando il suo viso al mio per asciugarmi le lacrime con una garza.
Sento il calore del suo corpo vicinissimo, è un corpo morbido, materno, addestrato al dolore e alla consolazione. Mi sento morire e poi rinascere quando mi abbraccia, stringendo la mia testa malata contro il suo grembo vestito di verde. Lì dentro c’è un utero accogliente e sicuro, un’incubatrice ovattata, il guscio della vita. Mi anniento in questa illusione.

“Dottore, la ragazza della stanza 8, Kate, si è svegliata. Parametri tutti a posto. Se vuole andarla a vedere, c’è un bel po’ da fare”.

*   *   *   *   *   *

Questo racconto contiene qualcosa di verde e qualcosa di inespresso, e pertanto partecipa all’eds della Donna Camèl insieme a:
Opera numero 1 di Angela
La sciarpa di Michele
O’ nipote mascalzone di Hombre
A proposito della Prinz verde di La Donna Camèl
Fili spezzati di Lillina
Consigli di Dario
Onda verde di Calikanto
Due distinti signori in completo elegante di Gabriele
Cambiamenti cromatici di Pendolante
L’ego di Dio de Il Pendolo
Il primo viaggio insieme di Gordon Comstock
La scatola verde di Singlemama
Il dormiente di Pendolante 

Telefono casa

E, insomma, io mi sarei rotta.
Questo posto è troppo grande per me sola, e poi è troppo isolato. Per carità, è comodo, con tutti i ritrovati più moderni, tipo che per alzare o abbassare le tapparelle basta premere un tasto, idem per regolare la luce. Coibentazione perfetta, climatizzazione regolabile al millesimo di grado, arredo minimale grazie a armadi e armadietti incassati, un posto per ogni cosa, ordine assoluto e niente impicci in giro. Filodiffusione e televisori in ogni locale; perfino una piccola palestra e un solarium. La vista poi è impagabile, panoramica a 360 gradi, e la zona è tranquillissima, un paradiso.
Però anche il panorama a lungo andare stucca, e fare cyclette da sola mi fa uscire pazza, e questa cosa che non posso neanche svagarmi spolverando perché degli efficientissimi aspiratori nascosti lo fanno al posto mio mi sta facendo sentire inutile.
Certo, con tutta questa tecnologia un guasto è sempre in agguato, e allora sono cazzi, perché hai voglia a trovare un elettricista da queste parti. Per fortuna ho studiato ingegneria elettronica, come voleva mio papà che era un umile meccanico ma bravissimo, e con schede e circuiti me la cavo abbastanza. Per esempio, quando la cyclette è impazzita o il termostato della dispensa è andato in corto.
Qua ce ne sono spesso, di piccoli guasti da riparare. Adesso per esempio tocca alla parabola: ultimamente fa qualche scherzo, gli schermi si riempiono di neve, l’audio impazzisce. Inutile, devo pensarci io.
Prendo la mia cassetta degli attrezzi superfornita, mi copro bene e esco, perché la centralina è sul tetto.
Svito, smanetto precisa e delicata, collego il tester, correggo di qualche mezzo grado, eseguo una seconda diagnosi, aspetto qualche istante… ed ecco, la lucetta verde si accende, bella brillante e sicura. Evvai Molly, mi dico, anche stavolta hai fatto tutto da sola. Sei la migliore, sei.
Peccato che al momento di rientrare la manopola non gira. Provo, riprovo, è sempre stato un movimento semplice, ma stavolta non vuole saperne. No, dai, vuoi vedere che si è incastrata una linguetta e sono chiusa fuori? E ora chi chiamo, che non ho vicini di casa e per di qua non passa mai anima viva?
Provo con la chiave W8.3, la più robusta del mio equipaggiamento, ma so già che per girarla ci vuole una forza che non ho. La forza di un uomo, ci vorrebbe. E infatti non si smuove di un pelo, i polsi mi fanno male e comincio a sudare.
Mi viene da piangere. Mi viene da arrabbiarmi. Mi viene da pensare che col cavolo che rinnovo il contratto alla scadenza, ma mancano ancora sei mesi, accidenti a me. Sei mesi, e dopo chiudo bottega, cambio vita, mi cerco una casetta su misura, vecchiotta, con un giardinetto, un gatto, delle belle tendine alle finestre, una collezione di caffettiere sulla mensola del camino. Mi immagino la mattina in accappatoio aprire la porta per raccogliere il giornale e il latte e salutare la mia vicina che fa altrettanto in vestaglia. Mi immagino uno steccato verde, un droghiere in fondo alla strada, una biblioteca a due isolati, un caffè dove trovarmi con le amiche, il mercatino dell’usato ogni prima domenica del mese, le riunioni del circolo dell’uncinetto il giovedì pomeriggio. Un letto con una trapunta patchwork, una radio in sordina mentre inforno biscotti per Natale, le campane la domenica mattina. Mi immagino una vita di provincia deliziosa e un po’ pettegola, tra parrucchiera e supermercato. Sei mesi, dannazione, sei mesi. E intanto io qua fuori comincio ad ansimare.

Toh, guarda guarda guarda… e chi se lo sarebbe mai aspettato?
Un veicolo passa, rallenta, si ferma.
Oddio, veicolo: più che altro un trabiccolo, un po’ come il triciclo del gelataio che passava d’estate al villaggio.
Il tipo alla guida si affaccia, intuisce che c’è un problema e mi chiede se c’è bisogno di una mano.
Oddio, chiede: non l’ho visto parlare, direi più che altro che gli ho letto nel pensiero.
“Anche due! – esclamo riconoscente.
Allora meglio quattro – gli leggo nel pensiero, mentre ammicca simpaticamente.
Dà un’occhiata competente, annuisce, concorda con me che si tratta della linguetta e in men che non si dica riesce a ruotare la manopola bloccata solo le mani e senza sforzo apparente. La porta si apre liscia come l’olio, e con un fruscio rassicurante.
Lo invito a entrare, vorrei offrirgli qualcosa, ma lui si schermisce (“Come accettato, non si preoccupi“) e intanto si guarda intorno e scopre un groppo di fili che penzolano da un quadro elettrico, poi un pannello del riscaldamento che vibra, una guarnizione della doccia logora e altre due o tre magagnette che ho sempre rimandato di sistemare.
Le sistema lui, tutte quante una dopo l’altra, senza attrezzi, con la massima semplicità, fischiettando.
Non so come sdebitarmi, davvero – gli dico imbarazzata al momento del congedo.
E di che? Se non ci si aiuta tra noi… – mi sorride e se ne va.
Oddio, sorride: la bocca non ce l’ha.
Ma ha due mani d’oro.
Oddio, d’oro: verdi.
E non due: quattro.

*   *   *   *   *   *

Questo racconto contiene qualcosa di verde e qualcosa di inespresso, e pertanto partecipa all’eds della Donna Camèl insieme a:
Opera numero 1 di Angela
La sciarpa di Michele
O’ nipote mascalzone di Hombre
A proposito della Prinz verde di La Donna Camèl
Fili spezzati di Lillina
Consigli di Dario
Onda verde di Calikanto
Due distinti signori in completo elegante di Gabriele
Cambiamenti cromatici di Pendolante
L’ego di Dio de Il Pendolo
Il primo viaggio insieme di Gordon Comstock
La scatola verde di Singlemama 
Il dormiente di Pendolante