Un mare d’erba

(Vincent Van Gogh: Campo di grano con cipressi, 1889)

Gli dissero di restare sulla soglia, ma era superfluo, perché Jacob conosceva le regole.
Un uomo alto accanto alla finestra dava le spalle alla stanza e guardava fuori, ma anche questo era superfluo dato che non c’era altro da vedere che il grigio del muro di fronte.
L’altro uomo prese un foglio dalla scrivania e lo diede a Jacob:
“Metti una croce qui”.
“So scrivere – mormorò Jacob, e firmò per esteso, lentamente, le dita troppo gonfie e indurite per condurre bene la penna.
Poi gli sbatterono sul petto un fagotto e un altro pezzo di carta:
“Le tue cose. E il lasciapassare”.
La porta si richiuse. Non ci furono saluti, e del resto nulla sarebbe stato più superfluo. Per tutto il tempo, l’uomo alto non si era mai girato e non aveva aperto bocca. Jacob si incamminò lungo il corridoio, nella direzione opposta a quella da cui era venuto.

La strada era una cicatrice di fanghiglia gelata nella vastità della neve. Tutt’intorno solo bianco e piatto a perdita d’occhio; e il colore del cielo era di un bianco solo un po’ più sporco. Il freddo non poteva nemmeno essere descritto, era il padrone di quel mondo, era l’unica condizione conosciuta, e in quanto tale, cioè ineluttabile, Jacob aveva imparato a domarla. Era lui stesso parte di quel gelo. Camminavano insieme.
Per verificare il contenuto del fagotto, attese di essere abbastanza inoltrato nel cammino da non rischiare di essere spiato da qualche torretta. La sua dignità glielo imponeva. Frugò tra gli stracci e vide subito che non era roba sua: forse era appartenuta a qualcun altro che era morto. Avvolto in un brandello di lana scoprì un frammento di sapone. Non c’erano né il suo orologio, né i soldi, né le scarpe foderate di pelo. Si chiese se avesse mai posseduto veramente tutto ciò, o se fosse solo un falso ricordo generato nelle notti insonni. Ripiegò gli stracci e decise di accettarli in memoria di quel morto senza nome cui non sarebbero più serviti.
Sul foglio c’era scritto che poteva viaggiare su un treno senza pagare il biglietto. Validità quindici giorni. C’erano anche altre cose scritte sul foglio, sigle e timbri rossi e blu. C’era il suo nome e la data del giorno. La fissò a lungo, perché era un mistero che solo ora gli si svelava. Ripiegò anche il foglio e lo seppellì in tasca.
La città distava forse una trentina di chilometri. Cominciò a intravederne il profilo irregolare verso metà giornata. Lungo la strada non aveva incontrato nessuno, non aveva avvertito alcun odore né veduto alcuna forma di vita. Entrò in città da un quartiere di stamberghe grigie, dove la neve si scioglieva in rigagnoli scuri. Incrociò gente taciturna e miserabile, che non si voltava a guardarlo. Di molti non avrebbe saputo dire se fossero uomini o donne, giovani o vecchi. Anche loro, come lui, erano coperti di pastrani dimessi, rattoppati, insufficienti; anche loro, come lui, probabilmente non li toglievano nemmeno per dormire. Il fumo che usciva da rari camini aveva uno strano odore, certo non buono, certo non di legna.
Si addentrò nella città cercando la stazione. Era una stanza puzzolente dal pavimento lurido; in un angolo, un gruppo di mendicanti attorniava un braciere avaro. Dietro il vetro giallastro dello sportello, un giovane rivoluzionario strava leggendo un librone. Jacob gli chiese quando sarebbe passato il prossimo treno.
“Dove devi andare? – gli chiese a sua volta il ragazzo.
Jacob glielo disse, ma l’altro non riconobbe il nome. Jacob citò altre località vicine, ma anche queste suonarono sconosciute al giovane. Erano i posti dove era nato e cresciuto, dove aveva prima studiato e poi insegnato a sua volta. Ora pareva non esistessero più, non fossero mai esistiti. O forse, semplicemente, avevano cambiato nome.
“Voglio andare a sud – decise Jacob.
“La linea va da est a ovest. Niente sud”.
“A est cosa c’è?”
“A est non c’è niente. C’è il confine”.
“Allora andrò a ovest. Quando passa il treno per andare a ovest?”
“Non lo sappiamo. Potrebbe essere domani, o fra una settimana. Tu prova a tornare qua ogni tanto. Hai un lasciapassare, suppongo”.
Jacob ripensò a quel foglio stropicciato con quelle sigle lugubri, quei timbri minacciosi, e rispose di no.
“Allora la prossima volta porta i soldi per il biglietto – lo ammonì il giovane, guardandolo con un ghigno cattivo. Aveva capito.

Tutte le mattine tornava a chiedere notizie. Non ne otteneva. Allora usciva nelle strade in cerca di cibo e denaro. Il primo giorno si accodò a una fila di diseredati che attendevano una ciotola di minestra davanti a una caserma diroccata. Jacob ebbe la sua razione; la allungò con un pugno di neve per farla durare più a lungo, e il tozzo di pane lo infilò sotto la maglia per conservarlo. Non mangiava da ventiquattr’ore. Si preparava a mangiare poco o nulla per chissà quanto, tutto il tempo che sarebbe durato il viaggio.
In un camposanto dalle antiche lapidi divelte c’erano dei morti da seppellire, ma il terreno era troppo ghiacciato. Jacob offrì le proprie braccia per un po’ di cibo, e in tre giorni scavò le fosse necessarie.
“Sei forte – gli disse il becchino.
Un vecchio con un braccio amputato non riusciva a riparare la porta della sua casupola. Jacob barattò mezza giornata di lavoro con due cipolle.
“Ci sai fare – gli disse il vecchio.
Appena fuori dall’abitato stavano lavorando a un ponte pericolante.
“Non assumiamo nessuno – lo avvertirono ringhiando.
“Non voglio soldi – disse lui – Mi basta qualcosa da mangiare”.
Sapeva fare tutto, spaccare pietre, costruire muri, trasportare pesi. Mangiava lentamente minestre allungate con la neve, e nascondeva il pane secco sotto gli stracci che lo coprivano. Faceva così provviste per il viaggio su quel treno che non arrivava mai. Gli mancava un acciarino, e questa divenne la sua principale ossessione. La notte dormiva nella stanza puzzolente della stazione insieme ai mendicanti, tutti nell’illusione che il braciere spento rilasciasse ancora un impercettibile tepore; dormiva con un occhio solo per non mancare l’eventuale passaggio di un treno, e intanto pensava a quell’acciarino che non aveva.
Lo ottenne in cambio delle strisce lise di pelo tarmato che staccò, con cupa pazienza, dal collo, dai polsi e dall’orlo del pastrano.

Scavava nei pressi della ferrovia in cerca di radici tra la neve sporca quando udì avvicinarsi un treno.
Lo scorse snodarsi in lontananza lungo una curva ampia, con la colonna di fumo ardesia contro il grigio appena più chiaro del cielo. Quando fu più vicino si accorse che era un convoglio merci dai carri sgangherati e coperti di ruggine e fuliggine. Procedeva lentamente, ma la direzione era quella giusta: ovest.
Jacob si nascose sotto il terrapieno e attese che l’ultimo vagone gli passasse accanto prima di saltarci sopra. Era vuoto, ma aveva trasportato bestiame, e negli angoli era ammonticchiata un po’ di paglia. Il portellone non chiudeva bene, ma perlomeno c’era un tetto sopra la testa. E in ogni caso lì dentro non poteva fare più freddo di fuori.
Dalle fessure Jacob scrutava il paesaggio, sempre uguale, a destra e a sinistra: un deserto plumbeo di neve, inabitato e inabitabile. Di giorno spiava se vi fossero cambiamenti, se apparisse qualche villaggio; di notte nel buio profondo non vide mai accendersi alcuna fiammella, neppure lontana.
La terza o quarta mattina apparvero delle ombre livide all’orizzonte, e l’arrancare del convoglio sembrò rallentare. Si cominciava a salire; laggiù doveva esserci qualche immensa foresta, forse un passo tra alti monti.
Folate di vento spietato insinuavano negli interstizi lame di neve. Con essa si dissetava, e una volta al giorno inghiottiva qualche morso di pane rinsecchito. Dosava le riserve, non conoscendo la durata del viaggio, né la destinazione.
Una notte attraversarono un gruppo di case. Sembravano abbandonate. Una visione fugace sotto una luna altrettanto fugace, poi il buio e le nuvole ripresero le une e l’altra.
Ora dalle fessure si vedeva una foresta intrappolata nella neve, i cui alberi avevano fusti così alti da nascondere il grigiore del cielo. Tra i rami o accanto alle radici non c’erano frulli d’uccello né fruscii di animali. Un bosco impietrito in un gelo arcaico, muto e sinistro.
Di notte accendeva qualche filo di paglia con l’acciarino, ma temeva di morire congelato nel sonno, e per non addormentarsi ripeteva caparbiamente versi di Ovidio, di Puškin.
Di giorno regolava il tempo sullo sferragliare delle lamiere, pensando che se quel rumore si fosse fermato avrebbe cessato di battere anche il suo cuore.
La foresta pareva interminabile. Jacob dovette arrendersi all’evidenza che le sue provviste stavano finendo, e che la fame lo avrebbe messo nelle mani del freddo entro poco tempo. Sarebbe morto così, passando dal torpore al coma e all’assideramento in fondo a un carro bestiame nelle Terre del Diavolo. Non avrebbe più bevuto una tazza di tè bollente sulla veranda davanti al giardino, non avrebbe più suonato il pianoforte nel salottino di sua madre, né terminato di tradurre i suoi amati poeti.
Smise di scrutare dalle fessure. Cercò una posizione protetta in un angolo. Mangiò qualche scaglia di sapone, la sola risorsa rimasta. Accese l’ultimo ciuffo di paglia, e con esso bruciò anche il lasciapassare. Un’unica fiamma vivace e ingannevole li consumò in pochi istanti. Non si accorse di aver permesso ai suoi occhi di chiudersi.

I bambini, cinque o sei, tutti biondissimi, rincorrevano conigli selvatici lungo i binari, e ridevano gioiosi. Il lungo treno si era fermato sbuffando e alcuni uomini stavano caricando acqua e carbone dal serbatoio di rifornimento a lato della ferrovia.
Jacob emerse dal sopore avvertendo che qualcosa era cambiato nei rumori che lo avevano finora accompagnato. Ma non solo, anche nell’aria, e nel tipo di luce che entrava ora a fiotti dalle fessure. Si trascinò a quella più bassa, all’altezza dei suoi occhi, e restò abbagliato.
Fuori era un mare d’erba.
Un sole franco splendeva su una pianura ininterrotta e verdissima, punteggiata di ciliegi in fiore. Poco distante, alcune case basse con gonfi tetti di paglia. Jacob strizzò gli occhi offuscati e si lasciò scivolare lungo la breve scarpata, finendo tra i radi cespugli dove si era impigliato uno dei conigli. I loro occhi stupefatti si incrociarono. Jacob allungò le braccia e lo afferrò: era grasso, tiepido e mansueto. Si mise in piedi a fatica e mosse qualche passo verso i bambini, che si erano fermati e lo guardavano gentili e incuriositi.
“Grazie – disse la bambina più grande, prendendo il coniglio che Jacob le porgeva – Sai, scappano sempre”.
Jacob si guardò intorno, avvertì il tepore dell’aria e del sole sulla sua schiena, attraverso il pastrano incartapecorito e gli strati di stracci. Nella lunga notte della sua coscienza, il viaggio era proseguito e lo aveva traghettato dall’inferno di ghiacci alla vallata dei ciliegi. Si tolse le scarpe con gesti goffi e posò i piedi nudi su quella spiaggia neonata, violandone la verginità con un senso travolgente di stupore.
“Vieni da lontano? – gli chiese gentilmente la bambina.
“Molto lontano. Molto freddo – mormorò lui, riascoltando la propria voce dopo settimane.
“Allora sarai stanco. Vieni con noi – lo invitò lei tendendogli una manina.
Jacob la prese e si avviarono lungo un viottolo, verso le case. Ma le gambe cedettero molto presto, e lui rimase indietro: guardava i bimbi procedere a saltelli sui loro zoccoletti, mentre i suoi piedi scalzi si arrendevano. Cadde in ginocchio come un cavallo abbattuto.

Quando la bambina tornò insieme a due uomini e a una donna, lo trovarono accovacciato nell’erba.
Stava brucando.

*   *   *   *   *   *

Questo racconto contiene qualcosa di verde e qualcosa di inespresso, e pertanto partecipa all’eds della Donna Camèl insieme a:
Opera numero 1 di Angela
La sciarpa di Michele
O’ nipote mascalzone di Hombre
A proposito della Prinz verde di La Donna Camèl
Fili spezzati di Lillina
Consigli di Dario
Onda verde di Calikanto
Due distinti signori in completo elegante di Gabriele
Cambiamenti cromatici di Pendolante 
L’ego di Dio de Il Pendolo 
Il primo viaggio insieme di Gordon Comstock
La scatola verde di Singlemama 
Il dormiente di Pendolante 

La vita è una scatola di cioccolatini

E io ve ne offro un paio.

Qui c’è il resoconto della serata monotematica dedicata ad Alice Munro, che si è tenuta ieri in biblioteca. Un link vi porta alla lettura dell’interessante disamina che ne ha fatto la nostra instancabile Marisa. Vi consiglio di leggerla, è roba buona. E magari mettetevi nei preferiti il blog, dato che lo gestisco io, non so se mi spiego.

Quest’altro invece è il link a un blog collettivo, Galliziolab, sul quale sono finita seguendo le tracce di Speaker Muto. Non è che caratterialmente io sia molto portata per le cose collettive, però a volte mi lascio prendere dal vizietto di cliccare qua e là, e così ci ho lasciato un mio inedito scritto apposta. Si intitola “20 paralleli”, e scoprirete subito perché.

Ecco qua, fine dei cioccolatini!
(per oggi)

I salami della Beppina

La saga continua con questo episodio dedicato in particolare a Hombre che c’ha il cuore tenero per le storie ostetriche.

La Beppina quel giorno si era svegliata garibaldina, e di buonora si era messa a ribaltar casa, facendo il bucato, arieggiando i materassi, spazzando da cima a fondo, lustrando i vetri.
Dopo mangiato, poi, aveva attaccato coi salami a testa bassa, e l’Anselmo, chiamato a darle una mano, aveva parecchio brontolato:
“Cos’è tutta ‘sta smania, Beppina?”
Ma lei aveva una missione da compiere:
“Voglio che sia tutto a posto e in ordine per quando nasce la creatura. E poi alle donne incinte il movimento ci fa bene”.
Ora di cena, i salami belli paciocchi sono pronti da appendere in cantina a stagionare, e la Beppina ammette finalmente di avere un po’ di mal di schiena e se ne va a letto presto col suo pancione di otto mesi abbondanti.
Verso le due si sveglia infastidita da qualcosa, un crampo, una sensazione di bagnato. Prima se ne sta ferma ferma nel buio, pensando di tirare mattina senza svegliare il marito; ma i crampi sono forti e parlano chiaro.
“Anselmo, Anselmo… – lo scuote – Anselmo svegliati, c’ho le doglie!”
Anselmo salta su tutto spaventato, che è la prima volta e non se l’aspettava di notte.
“Corri a prendere la Pierina, fai presto, che a occhio si son già rotte le acque – lo spinge la Beppina, che adesso si tiene i fianchi e il dolore è sempre più forte.
L’Anselmo si butta giù dal letto goffo come un cinghiale in trappola, farfuglia frasi di raccomandazione, di conforto, si infila gli stivali e si butta il pastrano sopra il pigiama poi si precipita giù per la scala di legno e via di corsa in strada. È sceso tra l’altro un bel nebbione, che siamo quasi ai Santi.
La Pierina non c’è. Il marito si affaccia alla porta col berretto da notte in testa:
“L’è andata in frazione Borghetto per due gemelli, sarà una roba lunga… – annuncia desolato – Ti conviene provare dal dottore”.
Il campanello del dottore suona a vuoto. Due, tre, quattro volte. Non è in casa neanche lui, Madonna del Carmine. E adesso? La Beppina è lassù da sola, il bambino è un po’ in anticipo, bisogna cercare aiuto, presto!
Le strade sono deserte, le imposte sbarrate, chiusa da un pezzo anche l’osteria, i lampioni radi e scialbi nella nebbia bassa, il selciato brilla di umidità, neanche un cane in giro.
All’Anselmo gli viene in mente una cosa, e fa un tentativo. Non è mai stato lì, ma quand’era ragazzo suo cugino gli aveva raccontato tutto: la corsia rossa, le tende di velluto, i profumi dolciastri, il grammofono. La casetta è in fondo al paese, in una stradina appartata. Picchia alla porta, con la testa in fiamme.
Gli apre la Luisona in persona, imbellettata e stanca, con uno dei suoi abiti da sera un po’ sciupati da tante battaglie. Le fa strano, proprio strano, vedere lì l’Anselmo.
“Toh, chi si vede. Cos’è che vuoi a quest’ora?”
“L’è qua il dottore? – chiede lui tutto affannato.
La Luisona fa una risatina sprezzante:
“L’è qua, l’è qua. L’è di sopra ubriaco patocco che vomita in un catino”.
All’Anselmo ci scappa un’imprecazione, subito redarguita dalla Luisona, che in casa sua non vuol sentire bestemmie.
“E adesso cosa faccio? La Beppina sta per sgravare e non trovo nessuno che ci aiuti!”
“La levatrice?”
“In frazione Borghetto con due gemelli”.
La Luisona non si perde d’animo:
“Stai calmo, vengo io – e si infila il cappottino rosso e anche il cappellino dello stesso colore con una piumetta civettuola. Già sulla porta, dà ordini alle ragazze:
“Virginia, Cesira, una secchiata di acqua fredda e tanto caffè forte, di corsa. Rimettetemi in sesto il dottore e speditemelo dalla Beppina. Ma veloci, eh”.
La Beppina quando si vede entrare in camera la donna del peccato si imbestia subito col marito:
“Mo’ come ti sei permesso? Io quella là non la voglio! – ma subito dopo un crampo fortissimo le toglie il fiato e ricade sui cuscini smaniando.
“Non far la difficile, Beppina, che son qua per aiutarti. Fidati, c’ho una certa pratica – le dice la Luisona, che già prende in mano la situazione.
Tra le gambe della Beppina si affaccia qualcosa.
“Qua ci siamo, la testa sta uscendo – annuncia la Luisona, calmissima e professionale. Poi si rivolge all’Anselmo:
“Portami asciugamani, lenzuola, qualcosa insomma. Puliti, eh. E metti a scaldare un po’ d’acqua – gli ordina.
L’Anselmo va, esegue e torna. La Beppina ormai è in un mondo tutto suo, di dolore e paura, e lui si sente un estraneo impotente e un po’ grullo.
“Metti qua, bravo – dice la Luisona, che intanto sta trafficando tra le gambe della Beppina, le tira su la camicia, le tasta la pancia.
Un altro crampo, un urlo seguito da un lamento lungo che si spegne in un ansito.
La Luisona si alza, va dall’Anselmo, gli mette le mani sulle spalle e lo spinge via:
“Te, fuori. Queste son cose da donne. Resta sul pianerottolo e vieni solo se ti chiamo – gli ordina perentoria.
Da dietro la porta l’Anselmo sente ancora quelle urla, quei guaiti, a intervalli vicinissimi, e la voce roca e rassicurante della Luisona che dirige le fasi misteriose dell’avvenimento.
“Dai che questa è l’ultima, spingi forte, di più, spingi spingi… eccoci! – la sente a un certo punto, e allora non aspetta di essere chiamato, ma entra di botto come il vento, giusto per vedere qualcosa di viscido sgusciare dal corpo di sua moglie nelle braccia della Luisona. Ha il cordone attorcigliato intorno al collo, e per lunghi istanti ansimanti la Luisona lotta furiosamente per sgrovigliarlo. Finalmente ce la fa, ma la creatura è grigiastra e non respira.
“Dammi una forbice, un coltello, qualcosa!”
“Cosa gli vuoi fare? – chiede agghiacciato l’Anselmo.
“Gli taglio il cordone, asino. Ecco fatto”.
La creatura non reagisce. La Luisona massaggia, massaggia, assesta colpetti sulla schiena, si sporca di sangue e siero il vestito rosso, e intanto la Beppina si riprende e mugola chiedendo del suo bambino.
“Ė una femmina – comunica la Luisona senza smettere di rianimare, ma la piccola ancora non respira.
“Acqua calda e acqua fredda. Due catini. Di corsa! – ordina a questo punto.
Poi, ispirata da qualche dio, immerge il corpicino alternativamente nell’uno e nell’altro, freddo, caldo, freddo, caldo, tre, quattro, più volte, sperando di scatenare qualcosa.
“Sentite, io per sicurezza direi di battezzarla subito – dice schietta a un certo punto – Com’è che la chiamate?”
“E chi è che la battezza? Dovrò mica andare a chiamare anche il prete? – sgrana gli occhi l’Anselmo, impietrito.
“In caso di pericolo di vita, può battezzare chiunque, asino – la voce della Beppina, dal letto, è esausta ma ferma e ragionevole.
“Luisona, battezzamela tu. Si chiamerà Flora – aggiunge, e alla Luisona le vengono le lacrime agli occhi.
“Nel nome del Padre, Figlio e Spirito Santo amen”.
“Amen”.
“Amen”.
E ecco, la neonata getta il primo vagito, e poi attacca un pianto urlato a pieni polmoni e stringe i pugnetti e protesta vivamente contro i metodi empirici e poco riguardosi che hanno permesso la sua venuta al mondo.

Flora, nata, rinata, battezzata, lavata e avvolta in panni caldi, è adesso in braccio alla mamma, a sua volta cambiata, ripettinata e raddolcita.
L’Anselmo, ancora stravolto ma adesso per la felicità, accompagna giù la Luisona.
“Come posso… – inizia a chiedere, ma lei lo ferma subito.
“A posto così, non ti preoccupare – e se ne va nelle sue scarpe rosse da maitresse, scontrandosi nel viottolo col dottore che arriva solo ora, i capelli bagnati e il passo un po’ rigido.
“Le manderò dei bei salami – pensa l’Anselmo – I salami della Beppina”.
Poi gli viene in mente che mandare salami alla tenutaria di un bordello non è mica tanto di buon gusto, e ripiega su una dozzina di bottiglie di vino novello.

* * *

Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
Dario con Lisa Borletti
Dario con Turi Pappalardo
Dario con Lucevan li occhi suoi più che la stella
Gordon Comstock con Il peccato più grande
Fulvia con Biancaneve
Hombre con Present continuous
Gabriele con Cave cave Deus videt
Angela con Pensiero stupendo
Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi
Pendolante con Generazioni
Michela con Apple
Cielo con Il pantone. Altro che rosso
Lillina con Iago
Hombre con I primi nove venerdì del mese
Calikanto con Tabarin
La Donna Camèl con La casa rossa
Leuconoe con Sogno di un pomeriggio di mezz’autunno
Marco con Il treno rivelatore
Kermit con Aspettando Geova
Singlemama con La Messa della domenica

Mille papaveri rossi

Se avete letto il post precedente e vi siete chiesti mo’ chi è sta Gisa, qui sotto ve lo racconto.

La Gisa era una brava ragazza, in paese lo sapevano tutti. Una seria, onesta, che andava dritta per la sua strada senza grilli per la testa né debolezze. E queste doti nel suo caso erano ancora più luminose perché, oltre al resto, la Gisa era anche bella, bella proprio come un’attrice del cinema. Con quei capelli mossi naturali, gli occhi profondi, la bocca rossa, il corpo morbido sopra e sotto una vita stretta da ragazza, le gambe belle da guardare anche se portava zoccolacci o scarponi. Due vestiti solo, aveva: quello a fiori per l’estate e quello nero per l’inverno, e li teneva per la domenica. Per i lavori nei campi si metteva un paio di pantaloni frusti e una camicia vecchia di suo papà, e vangava e trasportava fascine come un uomo. La domenica lavava tutto nel mastello e stendeva nell’orto. Gli uomini le riservavano sguardi eloquenti e bisbigliavano tra loro, ma nessuno aveva il coraggio di mancarle di rispetto, anzi tutto il paese provava nei suoi confronti un sentimento di ammirazione e protezione.
La Gisa era una brava ragazza e portava addosso un’espressione ardita e severa, soprattutto per nascondere la disperazione. Suo marito glielo avevano ammazzato i tedeschi che era sposata da tre mesi, neanche il tempo di restare incinta. E lei, dal gran dolore, aveva deciso di mettersi con i partigiani. Gli portava notizie e rifornimenti su per la montagna, arrampicandosi per la mulattiera con gli scarponi e lo zaino. Quel che le chiedevano di fare, lo faceva senza batter ciglio, come se non le importasse rischiare, o magari come se non avesse il minimo dubbio sulla necessità di farlo. C’aveva paura di niente, la Gisa.

Nella baracca c’erano tutti: il Gufo, il Ciuca, il Manassa, l’Anselmo… tutti. Era buio, notte di luna nuova e nuvole strappate che lasciavano intravedere solo due o tre stelle nebbiose.
Di fuori grida una civetta, due volte, poi altre due.
“La Gisa! – avverte l’Anselmo, e gli uomini si alzano e prudentemente impugnano le armi, casomai sia una trappola.
Invece eccola, è la Gisa che si fa riconoscere e sguscia dentro, col respiro ancora accelerato dall’ultimo pendio. Tutti  la guardano, e sono tesi perché se lo aspettano quello che deve dire, se lo aspettano da giorni.
“Un camion e due jeep, dieci uomini in tutto, partono dalla Certosa a mezzanotte”.
È questo il messaggio stringato e drammatico della Gisa.
Poi si avvicina al tavolo e svuota lo zaino, mentre gli uomini cominciano a parlare tra loro, a fare conti.
“A mezzanotte dalla Certosa, vuol dire che scollineranno alla Forcola verso le due – ragiona l’Anselmo.
“Tagliando per la Pratona, di buon passo siamo là in un’ora – assicura il Gufo.
Gli uomini si guardano cercando ognuno nello sguardo dell’altro una conferma alla propria determinazione.
E intanto la Gisa rovescia sul tavolo sigarette e salami, e dallo zaino estrae con cura due fiaschi.
“Il vino da parte dell’arciprete – annuncia seria – Le sigarette invece ve le mandano le ragazze della Luisona”.
“Ragazzi – dice l’Anselmo con voce grave – se volete scrivere due righe alle famiglie e darcele alla Gisa vi do un quarto d’ora, che poi si parte”.
In silenzio, con gli occhi stretti, tutti si appartano negli angoli con un pezzo di carta, passandosi un mozzicone di matita dopo aver scritto gli ultimi saluti. Cara mamma, cara moglie, mia bella Ninetta.
Solo uno, il più giovane, prende la porta e esce nel buio. L’Anselmo e la Gisa si guardano.
“Cosa l’ha il Muccino?”
“È la prima volta. Avrà paura”.
Il Muccino è la recluta, sedici anni, lo chiamano così perché i bambocci hanno sempre il moccio al naso. Ma anche gli uomini fatti hanno paura prima di andare in azione.
La Gisa le si stringe il cuore, ma vuol far vedere che è una di loro, una combattente, e mantiene in faccia un’espressione dura:
“Vado a parlarci io – dice.
Fuori è buio e fresco. Il Muccino è solo un’ombra più nera accoccolata su un masso sotto un cielo immenso e invisibile.
Parlano un po’, poche parole strette, la laconicità dei soldati.
“Non ho paura. Solo che non ho voglia di morire troppo presto – chiarisce il Muccino, e in effetti sembra più arrabbiato che spaventato.
La Gisa si stringe sulle spalle la giacchetta di suo marito, pensando che nessuno può capire meglio di lei quello che sta succedendo al ragazzo. Dovrebbe essere a casa, nel suo letto, con i genitori che parlottano serenamente in cucina, con i libri di scuola ancora aperti sul tavolo, con il pallone da calcio dentro l’armadio, la canna da pesca appoggiata al muro nell’angolo.
“Vieni un po’ qua – gli dice, e lo prende per mano, lo conduce fra i cespugli, lo attira a terra, se lo fa stendere accanto. È col suo corpo che gli impartisce il battesimo del fuoco.

È mattina presto quando il Tobia sfreccia in bicicletta davanti alla casa della Gisa che sta dando il mangime alle galline e le fa un gesto vittorioso, che significa “Missione compiuta, tutti salvi!”
La Gisa stringe le labbra e si sente il cuore ballare in petto. Stanotte poi non ha mica dormito, è stata sveglia a girarsi nel letto aspettando mattina per sapere qualcosa. Ora che la notizia è arrivata, può fare il resto.
Si mette il vestito della domenica e prende la strada del camposanto.
“Faustino non so neanch’io cosa dirti. Lì sul momento ho sentito che era la cosa giusta e l’ho fatto. E ancora adesso non sono mica pentita. Poi se per qualcuno è peccato, pazienza”.
Il viottolo sassoso è in lieve pendio, la Gisa si sente leggera e salta da un ciottolo all’altro come se guadasse un torrente. A quell’ora la campagna ha un odore buonissimo, la vita un sapore di pane appena sfornato.
Il tedesco intrappolato dietro le linee sbuca fuori da un fosso come un topo incarognito. Ha un’arma in mano e una faccia feroce da affamato.
La Gisa si blocca, intercetta lo sguardo allucinato che le fruga il corpo e capisce tutto. Ma come il Muccino non ha paura, è solo molto, molto arrabbiata.
L’uomo si avvicina col respiro grosso e gli occhi arrossati.
“Ah no, eh, a te non te la do! – esclama la Gisa con forza, esasperata, sprezzante. Non ne può più, è sempre la stessa storia. E mo’ basta, eh.
Improvviso, un mazzo di fiori rossi le fiorisce sul petto: uno, due, dieci, un’unica chiazza, un macabro bouquet da sposa.
Cade sul ciglio, gli occhi rivolti alla chioma dei pioppi, al cielo intrecciato fra i rami più alti. Sempre più bianco, sempre più bianco.

L’han sepolta nel suo abito da sposa, han gettato sulla tomba mille papaveri rossi.

*   *   *

Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
Dario con Lisa Borletti
Dario con Turi Pappalardo
Dario con Lucevan li occhi suoi più che la stella
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Angela con Pensiero stupendo
Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi
Pendolante con Generazioni
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Cielo con Il pantone. Altro che rosso
Lillina con Iago
Hombre con I primi nove venerdì del mese
Calikanto con Tabarin 
La Donna Camèl con La casa rossa
Leuconoe con Sogno di un pomeriggio di mezz’autunno
Marco con Il treno rivelatore
Kermit con Aspettando Geova
Singlemama con La Messa della domenica

L’amore ai tempi dei nonni

Mio nonno Anselmo era una bella sagoma. Rosso di capelli, rosso in faccia, rosso il fazzoletto che portava sempre al collo. Rossa e ardente la sua fede comunista, che lo spingeva spesso a manifestazioni esuberanti non solo verbali.
La nonna Beppina, cattolica strettamente praticante, non era però da meno quanto a carattere, e quando diceva NO era NO. E quella sera il NO era assoluto e scandalizzato davanti alla richiesta, peraltro legittima, del suo sposo.
“Mo’ cosa ti salta in mente, proprio oggi che siamo stati a un funerale? – trasecola, interrompendo un attimo il suo rituale riordino dei vestiti prima di coricarsi. In camicia, lunga fino alle caviglie, le maniche con lo sbuffo tirate sui polsi, i bottoni ben chiusi fino al mento, le calze di cotone grosso ancora addosso; le avrebbe tolte solo una volta spenta la luce e recitato le preghiere, mezz’oretta di preghiere che Anselmo sopporta con paziente abitudine.
Il funerale – di quelli in grande, con la fanfara, i cavalli neri coi pennacchi, il gonfalone e la messa solenne – era quello del Venanzi, decrepito maestro elementare di più generazioni. Un sant’uomo, per quanto scorbutico, e a volte – si diceva – intemperante quanto a punizioni fisiche sui suoi scolari.
“Adesso mo’ cosa c’entra il Venanzi, aveva duecento anni e non era mica uno di famiglia! – protesta il nonno, che, ricordiamocelo, all’epoca avrà avuto sì e no un quarantacinque anni ed era uomo di grande vigore e sanissimi appetiti.
“E allora? Merita rispetto. Te non lo sai che è peccato fare certe cose il giorno di un funerale?”
“Certe cose, certe cose… fare all’amore col proprio marito non è mica certe cose, non è mica peccato, non è mica scritto sul catechismo!”
Alt, il catechismo. Su questo terreno minato, la nonna non accetta provocazioni. In piedi, con le mani bellicosamente sui fianchi, accanto al comò con le foto di famiglia e il Sacro Cuore di Gesù, sbotta con veemenza:
“Cosa parli di catechismo te che sei comunista? Dovresti vergognarti, dovresti!”
Il nonno su questo si scalda:
“Sarò anche comunista ma sono un buon cristiano. Ti ho sposata in chiesa, ho fatto battezzare i nostri figli, non bestemmio, non mi ubriaco,  a Natale e Pasqua vengo a messa, all’arciprete ci ho pure riparato il tetto della canonica a gratis, cos’altro devo fare, eh? Mo’ dimmelo te che sai tutto, sai! – e giù a dare pugni sulle lenzuola, a agitare le braccia verso il soffitto.
La Beppina mica molla, eh no.
“Sì, un buon cristiano… senti un po’, da quanto è che non ti confessi? – attacca.
“Mi sono confessato per il matrimonio. Mi sono messo in regola quella volta là, e da allora ho sempre rigato dritto. Peccati nuovi non ne ho da confessare, io. C’ho mica tempo per fare peccato, io, tutto il giorno a lavorare nei campi per mantenere la famiglia!”
Su questo ha ragione, la Beppina lo sa. Diciotto anni di matrimonio, la miseria in tempo di guerra, quattro figli da crescere, e lui, l’Anselmo, sempre a spaccarsi la schiena per loro, per lei, che la portava in palmo di mano.
Ma stasera ha un genio maligno che la pizzica sotto pelle, una voglia di litigare che non se la ricordava da anni, da quando erano giovani e lui la faceva arrabbiare perché le entrava in cucina con gli stivali della stalla.
“E i pensieracci, li hai confessati anche quelli?”
È un colpo basso, tirare in ballo le tentazioni della carne. Ma la Beppina ben conosce il temperamento sanguigno degli uomini del paese, e non resiste a giocarsi quest’ultima carta.
L’Anselmo reagisce strano, quasi perdendo il fiato. La sua voce è più sommessa, ora, e piena di dolore:
“Beppina, cosa dici. Io a te ti voglio bene, non ti ho mai mancato di rispetto, non ti ho mai tradito. Questa cosa qua te la potevi proprio risparmiare… – è improvvisamente smontato, la collera è passata in delusione, la frecciata lo coglie innocente, indifeso, incompreso. È lui a sentirsi tradito, in questa strana scaramuccia che sta prendendo una piega squallida.
“Beh, non dico tradito, ma non venirmi neanche a dire che le belle tose non le guardi quando passano, eh – cerca di rimediare la Beppina, con una voce scontrosa. E, malauguratamente, aggiunge:
“La Gisa, tanto per dire…”
All’Anselmo gli si riaccende in un attimo tutto il fuoco:
“Ah no, la Gisa no, non la devi neanche nominare la Gisa! La Gisa era una brava ragazza”.
E la Beppina, che si è già pentita, si morde le labbra e si scusa:
“Hai ragione, non dovevo, m’è scappata…”
Ma ormai la frittata è fatta. L’Anselmo la chiude lì:
“Basta, mi hai fatto passare la voglia – e si gira sul fianco tirandosi le lenzuola fin sulle spalle e lasciando la moglie contrita e imbarazzata a cercare con lo sguardo un po’ di indulgenza nell’immagine dell’Assunta sopra il letto. Ma l’Assunta la rimanda al Sacro Cuore di Gesù sopra il comò, e quello la rimbalza alla foto in cornice del loro matrimonio, con quel vestito goffo e accollato che somiglia tanto alla camiciona da notte di oggi. Forse è quella la risposta.
“Oltretutto – riprende l’Anselmo guardando il muro – secondo me sul catechismo c’è scritta un’altra cosa. C’è scritto “saranno una carne sola”. E allora sai cosa ti dico: che sei te a fare peccato. Bon, buonanotte”.
La Beppina non sa cosa fare. Quello che vede del marito è la nuca sopra il colletto liso del pigiama, quella striscia di pelle scottata dal sole e quei primi capelli grigi fra i ricci rossi che le fanno tanta tenerezza.
Le vien da pensare alle creature, i miei zii e zie fra i quattro e i quindici anni che dormono nello stanzone di fianco, due per letto, uno da testa e uno da piedi. All’Anselmo quando era sui monti con i partigiani e ogni tanto scendeva giù a notte fonda rischiando la vita solo per salutarla e spiare i bambini addormentati.
Smorza la luce e si infila a letto attenta a non smuovere troppo le lenzuola. A occhi chiusi, nel buio pieno di lucine che pulsano al ritmo del suo sangue, prova a dire un Pateravegloria più sentito del solito, si fa tre volte il segno della croce, bacia il rosario, lo mette sul comodino.
“Peccato per peccato… – pensa.
E la sua mano, leggera come quella di una timida sposa, cerca la spalla del marito.

Nove mesi dopo è nata mia madre, ed è stata lei a raccontarmi questa storia quando sono diventata grandicella e ho cominciato a farle certe domande su come nascono i bambini. Lei dice di aver sentito tutto dall’ovetto dove stava, in attesa di due genitori che la venissero a prendere. E io, adesso che sono incinta, non credo che se lo sia solo immaginato.

*   *   *

Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
Dario con Lisa Borletti
Dario con Turi Pappalardo
Dario con Lucevan li occhi suoi più che la stella
Gordon Comstock con Il peccato più grande
Fulvia con Biancaneve
Hombre con Present continuous
Gabriele con Cave cave Deus videt
Angela con Pensiero stupendo
Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi 
Pendolante con Generazioni 
Michela con Apple
Cielo con Il pantone. Altro che rosso
Lillina con Iago
Hombre con I primi nove venerdì del mese
Calikanto con Tabarin 
La Donna Camèl con La casa rossa
Leuconoe con Sogno di un pomeriggio di mezz’autunno
Marco con Il treno rivelatore
Kermit con Aspettando Geova
Singlemama con La Messa della domenica

Red velvet

Quinta ginnasio, quest’autunno sono passata dai calzettoni alle calze di nylon, ma per il resto poco è cambiato: cerchietto fra i capelli, gonna scozzese a pieghe e si esce solo il sabato pomeriggio, ma entro le sette a casa.
Con i compagni si va al cinema: il biglietto si porta via quasi tutta la paghetta, ne resta sì e no per un astuccio di caramelle. Sono sempre i maschi, vocianti e sguaiati, a decidere cosa si va a vedere, e sono sempre film western o d’azione quelli che scelgono. Noi femmine ancora non conosciamo il potere innato di influenzarli, e li seguiamo un po’ passive. Col nostro pezzettino di carta in mano passiamo sotto il controllo dell’addetto, che finalmente scosta la cortina di velluto rosso che per noi rappresenta una specie di frontiera iniziatica da varcare col batticuore, e ci lascia entrare nella sala. Occupiamo un’intera fila tra le ultime, sparpagliando cappotti e ombrelli e spintonandoci come a ricreazione. I maschi cominciano subito a mimare le scene, simulando sparatorie e scazzottate e disturbando tutti mentre noi ragazze, annoiate, sbucciamo caramelle fino a riempirci la bocca di un sapore di saponetta che se ne andrà via solo l’indomani.
Per tutto l’inverno va così, il sabato a fare gli spacconi al cinema e la domenica a studiare greco e latino.
Verso primavera si sono formate alcune maldestre simpatie, e la fila si sgrana: un paio di coppiette si siedono più in là e guardano il film le mani nelle mani, gli occhi lucidi di emozione nel buio della sala.
Quando esce Il dottor Zivago, noi femmine ci coalizziamo e per una volta riusciamo a imporci. Il film è corposo, le balalaike spezzano il cuore, i paesaggi ipnotizzano. Quando Yuri, sotto una tormenta di neve, scorge da lontano tre figure e le raggiunge, stremato, per scoprire che non sono i suoi cari ma tre estranei, i maschi hanno un bel ridacchiare, ma sono commossi anche loro.
Stella si è appartata due file dietro, nell’angolo più oscuro, con Sergio della 1A. Quando usciamo è molto tardi perché il film è lungo, e abbiamo tutti i volti in fiamme, ma i suoi occhi sono i più lucidi, sul suo viso le chiazze rosse sono le più rosse. Mi prende per il braccio e mi chiede di accompagnarla alla fermata.
“Se ti dico una cosa, mi prometti di tenere il segreto?”
“Certo”.
E lei, mentre ci affrettiamo verso la fermata dell’autobus, continua:
“Sai, io e Sergio…”
“Sì?”
“Io e Sergio…”
“Vi siete baciati? È questo che volevi dirmi?”
Ho ancora uno strano calore alla nuca al ricordo dei baci di Yuri e Lara, immagini così vivide e in primissimo piano da mettere in imbarazzo.
“No, di più”.
“Di più cosa?”
Lei non risponde, e io sento il cuore che parte in una tachicardia molesta.
“Avete fatto l’amore? – chiedo, con una voce che non riconosco come mia perché ha pronunciato per la prima volta una frase proibita, da adulti, nebulosa nel contenuto ma intimamente perversa. L’amore che conosco è quello di Giacomo per Silvia o di Didone per Enea, incorporeo, pudico, fatto di parole sublimi che si fermano sull’orlo di un abisso recondito. E le ragazzine per bene si fermano anche loro, perché è ancora troppo presto per saperne di più.
“Non proprio, ma quasi. Gli ho fatto quella cosa che sai – rivela Stella, che sembra non vedere l’ora di vuotare il sacco.
Solo che io non lo so proprio, non immagino nemmeno lontanamente cosa possa essere quella cosa di cui parla.
“Ma sì che lo sai, quella cosa che piace tanto ai ragazzi… Dai, non puoi non saperlo, non puoi essere così ingenua! – e ridacchia, ma male.
Arriva l’autobus, lei mi stacca e lo prende al volo, raccomandandomi ancora il segreto.
Torno a casa frastornata e febbricitante, con la sensazione di aver offerto un’inetta, inconsapevole complicità a qualcosa di orribile, una colpa abbietta, un peccato immondo.
Ma il segreto, che con me è al sicuro perché non l’ho capito, è anche nelle mani di quel bastardo di Sergio, che non ha perso tempo a vantarsene con mezzo mondo, così finalmente ci arrivo anche io, da mezze frasi, battute spinte e disegnini osceni che girano tra i banchi il lunedì alla prima ora.
Stella, come al solito in ritardo, fa il suo ingresso in classe con una nuova spavalderia, guardando dalla parte dei maschi con un’aria provocante e da quella di noi femmine con un sorriso di superiorità. Io sono rossa come il fuoco e provo un odioso formicolio su tutto il corpo. Quando mi si siede vicina mi scosto e evito ogni contatto. Presto si rende conto che anche le altre l’hanno giudicata ed esiliata, e il suo trionfo si smonta in un bagno di vergogna che la consegna, del tutto indifesa e indifendibile, al dileggio volgare dei maschi.
La compagnia si disgrega, il sabato non ci si incontra più sotto i portici. Ognuno trova altri giri, altri legami, e la breve stagione dell’innocenza si stempera altrove, cercando di dimenticare il modo increscioso con cui si è conclusa.

Ho diciotto anni, porto i collant di Mary Quant e ho un ragazzo a posto, terz’anno di lettere, che il sabato pomeriggio fa il catechista. Mia madre lo approva perché è serio e di buona famiglia.
Usciamo la domenica e passeggiamo, passeggiamo tanto. Lui mi bacia su una panchina al parco e mi scalda le mani. Al cinema non andiamo mai.
“Perdonami, ma soffro un po’ di claustrofobia – mi ha spiegato tutto spiacente e confuso.
E io l’ho abbracciato forte rispondendogli:
“Anch’io, anch’io!”

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Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
Dario con Lisa Borletti
Dario con Turi Pappalardo
Dario con Lucevan li occhi suoi più che la stella
Gordon Comstock con Il peccato più grande
Fulvia con Biancaneve
Hombre con Present continuous
Gabriele con Cave cave Deus videt
Angela con Pensiero stupendo
Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi 
Pendolante con Generazioni 
Michela con Apple
Cielo con Il pantone. Altro che rosso
Lillina con Iago
Hombre con I primi nove venerdì del mese
Calikanto con Tabarin 
La Donna Camèl con La casa rossa
Leuconoe con Sogno di un pomeriggio di mezz’autunno
Marco con Il treno rivelatore
Kermit con Aspettando Geova
Singlemama con La Messa della domenica

Gloria mundi

“Eminenza, mi ha fatto chiamare?”
Il cardinal Bottazzi, ben contenuto nella poltroncina di velluto cremisi dietro l’ampia scrivania, giocherella con un sigaro e accoglie sogghignando il giovane segretario.
“Vieni vieni, don Venceslao, ti volevo giusto parlare”.
Don Venceslao è un bellissimo prete, giovane, atletico, impeccabile, con un’espressione maschia eppure spirituale sul volto ottimamente rasato. Dalla sua famiglia, gli Ubaldini di Sant’Ubaldo, sono usciti nei secoli prelati, diplomatici, pianisti. Da quella del cardinal Bottazzi, funzionari del catasto e produttori di celebri insaccati. Solidità economica, buone conoscenze, corporature poderose e facilità a rapporti conviviali calorosi e ben unti.
“Allora, ci siamo, domani si va a Roma – introduce il cardinale, inserendo una nota di golosa aspettativa. Il sigaro rotola fra le dita grassocce, in attesa del momento più azzeccato per essere tranciato e religiosamente acceso.
“È tutto pronto, Eminenza – lo rassicura il segretario in tono neutro e professionale. Gli sembrerebbe fuori luogo condividere palesemente la gioiosa impazienza che il suo superiore, invece, non cerca nemmeno di nascondere.
“Con i discorsi a che punto sei?”
“Li ho qui, se li vuole vedere – e Venceslao posa sulla scrivania una distinta cartellina di Bristol color crema.
“Mi fido, mi fido, li leggerò domani in aereo. E cosa ci hai messo dentro?”
“Di tutto, Eminenza, come mi ha detto lei”.
“La pace nel mondo? La giustizia, la solidarietà, i diritti umani? L’infanzia abbandonata? Il terzo mondo, il terrorismo, la perdita dei valori?”
“Tutto, Eminenza, tutto. Tutto quello che può servire per discorsi, dichiarazioni, interviste. A seconda del bisogno e del contesto, basterà mettere insieme i punti più opportuni”.
“E ci penserai tu, vero? Sei bravissimo in queste cose. Da quanto tempo è che sei il mio segretario?”
“Saranno cinque anni a settembre, Eminenza. Bontà vostra”.
“Il miglior segretario che abbia mai avuto – decreta il cardinale, con grassa soddisfazione. E avverte che è arrivato il momento di gustarsi quel profumatissimo sigaro.
“Ti dispiace, Venceslao? – l’Eminenza porge il sigaro e osserva pregustando il gesto esperto con cui l’impareggiabile segretario lo libera dall’involucro e lo decapita con precisione chirurgica.
“Tu non fumi, vero? – gli chiede con amichevole complicità.
“Occasionalmente qualche sigaretta, se devo essere sincero – risponde Venceslao badando a non tradire l’imbarazzo che quella ammissione sempre gli procura. Il fatto è che una sigaretta è l’unica tentazione cui si permette di cedere ogni tanto, quando lo stress del suo difficile ministero sale oltre i livelli di guardia. In quei momenti, sente urgente il bisogno di uscire dal suo studio – moderno, cablato, tecnologico, un ufficio attrezzatissimo e alienante – e correre fuori, nel giardino interno del Palazzo, per respirare l’aria di tutti e annusare gli odori delle piante e della vita normale. Spesso c’è un giardiniere che ramazza foglie dai vialetti, e se si tratta del vecchio Procopio si siedono vicini su un muretto e fumano insieme una sigaretta liberatoria, scambiando poche frasi che non tengono conto della differenza di rango fra loro, e nemmeno di età.
Il gran cardinale tira la prima boccata con gli occhi socchiusi dal piacere e si assesta meglio sullo schienale della poltrona. Poi, con un sorriso vagamente canagliesco, si rivolge di nuovo al giovane:
“Me lo voglio proprio godere, perché, sai, questo potrebbe essere l’ultimo”.
“Ha deciso di smettere, Eminenza? – si informa premuroso Venceslao.
“No, no, cosa dici, (piccola pausa strategica), è che se mi fanno Papa non potrò più farlo – e quasi ammicca – Perché, tu non pensi che io abbia buone probabilità? – chiede con aria innocente.
Venceslao si è irrigidito: “Non saprei, Eminenza. Queste sono cose che riguardano lo Spirito Santo, noi possiamo solo pregare”.
“Giusto, giusto, preghiamo, pregheremo. Lei mi raccomando preghi molto. E se tutto va bene, se da questo Conclave esco Papa, per lei ci sarà molto presto il cardinalato. Se lo merita!”

In giardino è sceso l’imbrunire e le foglie sul vialetto sono fradice di umidità. Il vecchio Procopio le sta raccogliendo con la scopa e le deposita sulla carriola. Si siedono accanto sulla panca di pietra vicino alla statua della Madonna, estraggono ciascuno dalla tasca il proprio pacchetto di sigarette e accendono da un unico cerino..
“Dice che diventerà Papa – sospira Venceslao pensieroso, guardando lontano.
“Reverendo, con tutto il rispetto quello lì l’è matto – sentenzia francamente il saggio Procopio.
Venceslao pensa agli enormi armadi di rovere che custodiscono il ricco guardaroba cardinalizio: le mantelline rosse, gli zucchetti, i piviali ricamati, le cotte con altissimi pizzi. Quella mattina ha passato tutto in rassegna per allestire i bagagli, e si è dilungato a sfiorare la nobiltà dei tessuti e la regalità del porpora. Il cardinale sogna invece di vestire tutto di bianco, e in quel caso che ne sarà di tutti quei costosi paramenti firmati? Venceslao chiude gli occhi e si immagina allo specchio, vestito di rosso, maestoso, ammantato di potere. Si vede un po’ più vecchio, appesantito, col viso arrotondato e roseo come quello di un neonato pasciuto, con gioielli d’oro da far luccicare alla folla, con le mani grassocce e molli da porgere al bacio di ambasciatori e potenti.
Poi in un altro specchio rivede se stesso ragazzo, seminarista in vacanza nella tenuta di famiglia, intento a studiare su antichi volumi nella biblioteca del padre, sordo ai richiami delle cugine che lo vorrebbero sul campo di tennis. E ancora la pieve del trecento dove canta la sua prima messa, e dove più avanti celebra il matrimonio di suo fratello e le esequie di sua madre. Castità, povertà, obbedienza. Domine non sum dignus.
Si scuote, cancella tutto, quello che prova è una specie di brivido ma non è febbre; casomai consapevolezza.
“Forse dovrei andare a confessarmi – annuncia a Procopio, spegnendo la sigaretta. Si affretta verso la cappella, sorridendo al pensiero che in Vaticano probabilmente è vietato fumare.

*   *   *

Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
Dario con Lisa Borletti
Dario con Turi Pappalardo
Dario con Lucevan li occhi suoi più che la stella
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Hombre con Present continuous
Gabriele con Cave cave Deus videt
Angela con Pensiero stupendo
Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi 
Pendolante con Generazioni 
Michela con Apple
Cielo con Il pantone. Altro che rosso
Lillina con Iago
Hombre con I primi nove venerdì del mese
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Marco con Il treno rivelatore
Kermit con Aspettando Geova
Singlemama con La Messa della domenica

Le buonanime

Io fino a due anni fa facevo la postina. Che portare la posta a Venezia non è mica un scherso come in teraferma. Prima di tuto in teraferma hanno i motorini, e qua no; qua tuto a piedi, su e giù dai ponti, dentro e fuori le calli, e l’acqua alta e i numeri civici balordi che se non conosci a memoria tuto il labirinto ti trovi a girare in tondo come un imbriago. A noi a un certo punto ci hano dato un carello tipo per la spesa, almeno quelo, no come una volta che avevamo la borsa a tracolla che pesava un acidente. Ma anche col carello non è per gnente un scherso fare i gradini, provate voi di teraferma.
Poi un giorno mentre tiravo su il carello in retromarcia sul ponte dei Ferri un ebete di un garzone che spingeva in giù il carello suo di frutta e verdura ci è scapato di mano e mi è finito adosso tuto belo pesante sul calcagno destro, un male dell’ostrega che sono quasi svenuta.
Sei mesi avanti e indietro dall’ospedale ho fato, per via che il tendine si è belo che roto, e dàgli di operassioni e gessi e fisioterapie, gnente da fare, sono rimasta zoppa, orcocàn.
E sicome che sono come si dice categoria proteta per via di quele due o tre rotelline difetose che ho in testa dala nassita, il Comune mi ha trovato un altro lavoro da far meno fatica, quatro ore al giorno la matina presto, a pulire i musei.
Mi va anche bene perché c’è i assensori e poi non è gnanche tanto dificcile, basta passare con calma una bela scopa e un straccio bagnato, non c’è gnanche mobili da spostare.
L’altro giorno c’era un nebione della malora e dai finestroni del museo Corèr si vedeva tuto bianco, che i vetri non sembravano gnanche sporchi. Ero là che tiravo il straccio su un pavimento quando sento qualcuno fare il mio nome.
“Vardé vardé siora mare, la Ceschina!”
Guardo di qua, guardo di là, nesuno. Saranno le mie rotelline, ho pensato, e ho ripreso a lavorare.
Ma quella là insisteva, con una vocetta da maestrina, tuta smorfiosa:
“Ceschina, sei proprio tu! E non ci saluti?”
Salutare chi, che intorno non c’era nesuno, solo quadri da spolverare.
“Guarda qua, Ceschina, siamo le tue buonanime – mi sento dire.
E infati erano delle buonanime ma di qualcun altro, non certo mie, dentro un quadro tacato sul muro, un quadro anche belo devo dire, con ste belle figurine tute in ghingheri sedute in salotto, che guardavano proprio dala mia parte. Ho piantato lì il spassolone e ci ho risposto educatamente:
“Sì sono la Ceschina ma voi chi sareste che non vi ho mai visto?”
“Eh, tu non ci conosci ma noi sappiamo tutto di te, vero siora mare? – dice la donna giovane, quela col vestito bianco e il ventaglio.
Siora mare è quela di sinistra, con la scuffia in testa e un gato in braccio.
“Ceschina, ti presento le tue bisavole: mia figlia Ortensia e i miei nipoti Zanetta, Carlina, Eleonora e Maffeo. Io sono la bisavola Eugenia e questo è il gatto Momi. Ti piacciono i gatti, vero?”
“Eccome che mi piacciono, ho un gato anch’io e guarda che combinassione si chiama Momi anche lui!”
“A Venezia i gatti si chiamano quasi tutti Momi – dice la figlia, l’Ortensia, con l’aria di una che i gati ci fano un po’ senso, sta smorfiosa.
Il fantolino vestito da bambolotto ataca a ridachiare, e sua mama ci fa:
“Tasi ti, buratìn!”
La fiola granda, la Zanetta, vuol far la sua figura e dice:
“Certo che la Ceschina ha proprio un’aria di famiglia: è zoppa anche lei come l’avo Bartolomeo”.
E qua tute cominciano a contarsela, guardandomi come se fussi una casseta di sardèle sul banco del pessivendolo, e io capisco e no capisco, parlano di certa gente che davero non ho mai sentito prima.
“Non dire stupidessi, l’avo Bartolomeo era zoppo perché a Lepanto si era preso delle schegge di cannone in una gamba. Piuttosto come l’ava Prosdocima, che era badessa a Santa Maria delle Grazie e aveva la gotta”.
“Le mani però sono quelle dell’avo Barba Frutariòl, che aveva banco e bottega a Rialto”.
“Gran lavoratore anche lui!”
“Sì ma gli occhi? Precisi a quelli dell’ava Dolfina, che abitava giusto di fronte alla Veronica, la Veronica Franco”.
“Stessi capelli dell’ava Lucinda, che aveva sposato quel tessitore alla Giudecca. E il naso mi ricorda tanto quello dell’avo Pompeo che dirigeva il coro a San Marco. Dico bene?”
“Senti però, Ceschina – mi fa la vecchia con un modino tuto afetuoso – scusa se te lo dico, ma quel camiciotto celestino non ti sta mica bene, sai. Ti sbatte. Ah, se potessi andare di là, ho una cassapanca piena di damaschi e merletti, ti regalerei volentieri qualche braccio di stoffa per farti un bell’abito come si deve!”
“E io – si mete in mezo il magiordomo sull’angolo della porta – offrirei ben volentieri alle Vostre Signorie una cioccolata, un rosolio, ma purtroppo il Maestro mi ha messo qua in piedi, né dentro né fuori, e non posso servire nessuno…”
Io sono là tuta esterefata che li ascolto, le bele cose che dicono, le maniere da signoroni, tuta quela bela creanza, e un poco mi vergogno col mio camisoto celeste e il spassolone.
“Ma voi come fate a sapere tute queste cose della famiglia?”
“Eh, mia cara, noi siamo qua da tanto di quel tempo, vediamo tanta di quella gente, ascoltiamo tante di quelle storie…”
“E giriamo il mondo, anche. Parigi, Londra, Madrid, San Pietroburgo… All’estero i musei sono pieni di italiani, qua invece vengono quasi solo i foresti. Mah.”
“Ma siamo proprio sicuri che siamo parenti? Perché a me mi par tanto strano…”
“Sicuri, sicuri. Venezia è piccola e siamo tutti un po’ parenti. Avevi sì o no un bisnonno orologiaio a San Marcuola? Ecco, quello era pronipote di un pronipote di questo fantolino qua, Maffeo, che adesso se la ride come un macaco”.
“Ma senti che notissia… Se ce la raconto ala Sonia sicuro che non ci crede…”
La Sonia è la mia compagna di pulissie; al momento è due salette più in là che finisce di lavare per tera, ma fra due minuti verà a chiamarmi perché è ora di andar via.
Bisogna salutarsi, perché a le buonanime non ci piace che i estranei ascoltano i fati nostri, e fra i complimenti mi fano tante racomandassioni:
“Ceschina, i capelli: fatteli più vaporosi!”
“Ceschina, un bell’impacco di glicerina sulle mani tutte le sere!”
“Ceschina, la cipria!!!”
“E stai bella dritta con la schiena!”
Poi ariva la Sonia e quelli si fano tuti muti, mi sembrano anche un po’ più pallidi, sono tornati fissi imobili dentro il quadro, là in posa come prima più di prima.
“Cafè? – mi fa la Sonia davanti al distributore.
E io: “Macché cafè, oggi ti ofro io la ciocolatta al Florian, qua in Piassa!”
“Ciò, e da quando ti xé deventada ‘na Signora? – la Sonia spalanca i ochi.
Mi meto a ridare:
“Sempre stada, vecia mia, sempre stada”.

(nell’immagine, Pietro Longhi: La famiglia Sagredo, 1752)

E ai libri, chi ci pensa?

Visto che siete tutti lettori e scrittori, vi ricordo il blog Matti per leggere, da me medesima creato e curato, dell’Associazione Amici della Biblioteca dove faccio la sguattera di pomeriggio.
Oggi c’è anche un raccontino di Natale, sempre di me medesima, in omaggio ai cari compagni con i quali condivido l’impegno per la divulgazione della lettura e il sostegno alle attività della biblioteca rivolte agli adulti.

Laggiù nel Bronx

Questo racconto (che, vi avviso, è lunghetto) l’ho scritto perché nel mio precedente eds Kermitilrospo aveva notato l’assenza di mortammazzati, e ci si era messa poi anche mia sorella a storcere il naso per l’eccessivo buonismo ottocentesco.
Stavolta, come vedrete se avrete la pazienza di leggerlo tutto (è lunghetto, vi avviso), i mortammazzati non si contano, e spunta anche – forse, spero, mi auguro, ci ho provato – un non so che di sano cinismo post-moderno, nel quale in effetti mi riconosco di più.

Me ne stavo seduta sul mio gradino preferito, il penultimo, perché da lì potevo occhieggiare il marciapiede da un angolo all’altro della strada e verificare, dall’affollamento di cartacce e lattine, il grado di efficienza del servizio municipale di nettezza urbana nel nostro quartiere, e intanto facevo quella cosa stupida che faccio sempre quando sono assorta e/o triste: mi grattavo le ginocchia. Con una specie di affetto, senza graffiare, più che altro un surrogato di carezze e pacche sulle spalle come quelle di cui era carente la mia vita di dodicenne. I gatti risaliti dai seminterrati o scesi dai cornicioni sezionavano scientificamente i sacchi dell’immondizia, riportando alla luce i vassoi di cartone stagnato in cui mia madre e io avevamo cenato con la robaccia unta del cinese all’angolo. Lei aveva smesso di cucinare molti anni prima, il giorno in cui era scomparso mio padre. Molte cose aveva smesso di fare, da quel giorno, e dal momento che già prima ne faceva assai poche si può dire che fu da allora che avevo dovuto farle tutte io. Lei del resto non era in grado. All’inizio, per quasi un anno intero si era dedicata alla ricerca di papà. Era diventata una habituée dell’obitorio, ci andava non meno di due volte al mese, e in certi periodi anche quattro, se aveva fortuna. Ogni volta che ripescavano nella baia il cadavere violaceo e gonfio di un ubriaco, oppure raccoglievano quello stecchito e brinato di un barbone congelato sotto un viadotto della metro, o ancora recuperavano quello raggomitolato nel vomito secco di un tossico in un edificio in demolizione, ogni volta, purché di sesso maschile e privo di documenti – cioè in almeno metà dei casi – facevano un giro di telefonate per invitare le persone che avevano fatto denuncia di scomparsa di un familiare a presentarsi per l’eventuale riconoscimento, e mia madre fra queste.
Per mesi se li andò a vedere tutti, con cura e accanimento, non trascurando nemmeno i cadaveri di razza asiatica e gli afroamericani. Riceveva la chiamata e subito si emozionava come per un appuntamento in centro: indossava un vestito appropriato, dei pochi che aveva, e prendeva un certo numero di autobus per andare fin laggiù. Stava fuori anche diverse ore, perché prendeva la cosa molto sul serio; talmente sul serio che, lungo la strada del ritorno, sentiva il bisogno di fermarsi in qualche bar e concedersi una colazione abbondante, e poi magari un giretto per negozi dove provava vestiti che non poteva permettersi di pagare.
“Come è andata oggi? – le chiedevo educatamente.
“Niente. Era un cinese. Gli somigliava molto, non mi sarebbe dispiaciuto che fosse proprio lui, ma non c’è stato niente da fare: era proprio un cinese – riferiva, delusa.
Oppure:
“Quello di oggi non so proprio come abbiano potuto propormelo. Tuo padre aveva tanti difetti ma, diamine, non certo un occhio di vetro!”
Le piaceva così tanto che a volte andava all’obitorio di sua iniziativa, si affacciava chiedendo garrula “C’è niente per me?” e poi si tratteneva a prendere caffè e ciambelle con gli inservienti fino a mezzogiorno, per tornare a casa se non altro di buon umore per aver passato del tempo con amici.
Per la frustrazione, mia madre si era buttata sul cibo. In forma non era mai stata, era più il tipo tendente al tondeggiante, un tondeggiante sodo e qua e là bozzuto, ma ora si sentiva autorizzata dalle circostanze a introdurre nel suo corpo, senza il minimo riguardo, calorie sufficienti a riempire il vuoto lasciato da mio padre, sotto forma di cibi tra i peggiori, più grassi e malsani potesse trovare al supermercato o nelle rosticcerie più malfamate. Casa nostra si riempì di involucri, cartocci, scatole di pizza, incarti di dolciumi, bicchieroni di plastica di gelato; ingeriva 4 hot-dog e 2 stecche di cioccolato già per colazione, a pranzo scartocciava un vassoio formato famiglia di ali di pollo e patatine fritte, poi per cena diceva di volersi tenere un po’ più leggera e si faceva bastare un paio di pizze e una scatola di gelato. I cioccolatini se li portava a letto, erano quelli della buonanotte, diceva, e presi uno alla volta e così piccoli non potevano farle male. Di tutto questo posso riferire, ma alla mia osservazione sfuggivano gli spuntini che certamente faceva durante la giornata mentre io ero a scuola, e di cui restavano testimonianze nei rifiuti che scovavo sotto il letto quando andavo alla caccia di quei topi che, a un certo punto, cominciai a sospettare coabitassero l’appartamento.
In pochi mesi, mia madre era ingrassata ben oltre il limite dell’obesità media di cui soffre, pare, un’altissima percentuale di americani. Le sue dimensioni avevano qualcosa di sciamanico; il suo corpo non aveva più una forma, ma molteplici forme, e sotto le smisurate vestaglie con cui lo copriva assumeva aspetti sempre nuovi e sempre in movimento, come di materiali ammucchiati maldestramente che tendessero a scivolare uno sull’altro alla ricerca di un assetto meno pericolante, come ondate straripanti che si snodavano e smottavano e si riaccomodavano in balia della forza di gravità, affacciandosi flaccidamente ora all’altezza dell’addome (ormai tutt’uno con le mammelle), ora a quella dei fianchi (ormai tutt’uno con le natiche). Era tutto un ballonzolare, uno spenzolare, uno sgusciare molle, un contorcersi greve come di serpente obeso e moribondo.
Ormai pilotare nello spazio angusto del nostro appartamento quel gigantesco ammasso di carne senza controllo che era diventato il suo corpo era per lei un’impresa che la costringeva a passare di fianco attraverso le porte e a ricorrere a me per qualunque incombenza. Negli ultimi tempi usciva di casa solo per andare, soffiando come un tricheco, all’obitorio, e poiché non era più in grado di salire e scendere dall’autobus si era rassegnata a prendere un taxi, la cui spesa si aggiungeva dolorosamente alle altre più essenziali e contribuiva ad assottigliare i pochi risparmi rimasti. Io avevo cominciato a saltare giorni di scuola perché ero troppo impegnata a occuparmi di lei, della sua interminabile toilette che faceva seduta su uno sgabello rinforzato nella doccia sollevando una dopo l’altra le mammellature davanti, dietro, sopra e sotto affinché ci passassi un asciugamano insaponato e la pasta allo zinco per dare sollievo alle piaghe fetide e melmose ospitate nel fondo di ogni piega.

Un giorno, dopo quasi un anno, tornando a casa da scuola la trovai seduta in cucina in compagnia di due tipe dei Servizi Sociali. Una di esse si alzò per venirmi incontro e con un certo garbo compunto molto professionale mi annunciò che quella mattina mia madre aveva riconosciuto papà nel cadavere di un uomo rinvenuto in un vagone merci in disuso abbandonato da anni su un binario morto. Mia madre guardava nel vuoto e non mi parve sconvolta, aveva le labbra strette come stesse riflettendo e ogni tanto annuiva a se stessa. Quando restammo sole, non mi disse molto: solo che ora dovevamo pensare a noi stesse e che quelle due brave signore ci avrebbero aiutate. Io ero così abituata a pensare mio padre come morto che averne avuto la conferma non cambiò molto le cose.
Invece le cose cambiarono. I Servizi Sociali ci riconobbero un assegno di sostentamento e controllarono che non mancassi più alle lezioni. Una volta ogni tanto passava qualcuno a chiedere se avessimo bisogno di qualcosa, ci portavano bende e pomate per la mamma, abitucci usati per me. Ma la più grande novità fu che mia madre si mise a fare progetti. Un giorno mi disse che si era trovata un lavoro, un lavoro da svolgere in casa. Mi disse che la sua lunga frequentazione dell’obitorio l’aveva illuminata, le aveva fatto scoprire di possedere una dote che ci avrebbe fatte ricche: la dote di saper parlare con i morti. Nel quartiere la notizia non stupì, e la clientela, fatta per lo più di vedove superstiziose, non tardò a raccogliersi numerosa.
Mia madre per l’occasione evocò lontane origini pellerossa e si impadronì dello spirito di una bisnonna Cherokee, prendendone a prestito il nome, Esmeralda, e l’acconciatura, una parrucca con lunghe trecce corvine con la quale nascondeva i capelli stopposi e rarefatti vittime di decenni di sciagurate tinture nonché degli squilibri nutrizionali. Riceveva nella saletta da pranzo, sacrificata a studio esoterico e addobbata di drappi neri alle pareti e di un’oggettistica dissennatamente ibrida che comprendeva simboli indiani, zampe di conigli, teschi di gatti, campanellini buddhisti, candele da catacomba, fotografie di ectoplasmi. Aromi di incensi di poco prezzo coprivano la puzza dei cibi e dello zinco rancido. I clienti arrivavano riverenti, in soggezione, e li accoglievo io, conciata con una tunichetta di pizzo tinto di nero che cominciò presto a starmi stretta ma che mi conferiva dignità e mistero. Li introducevo al cospetto della sciamana Esmeralda e poi mi ritiravo, per ricomparire solo al termine della seduta e incassare la tariffa, che non era esosa ma nemmeno modesta. Mia madre non voleva che assistessi, e da dietro la porta sentivo solo qualche mormorio e un tintinnare di sonagli che significavano l’arrivo dell’anima richiesta. Le anime rispondevano sempre alla chiamata. Ogni vedova, ogni orfano ultrasessantenne, ogni decrepito reduce di Corea ansioso di ricollegarsi a un vecchio commilitone caduto, tutti avevano il loro momento magico e misterioso, il loro contatto dall’aldilà, risposte alle loro domande, conforto alle loro nostalgie. Mia madre non so come facesse, ma dispensava del bene a tutti. E di quell’attività campavamo.

Me ne stavo, insomma, sul penultimo gradino e mi grattavo sconsolatamente le ginocchia, quando dall’angolo della strada vidi avanzare, col suo inconfondibile passo danzante, mio padre morto da cinque anni.
La sua andatura era quella delle persone molto alte e smilze, di un giocoliere, o forse di un giocatore di basket sul parquet: dondolante, rilassata e piacevolmente controllata. Il gesto gli partiva dalle spalle, come si apprestasse a cingere una donna per un giro di valzer, e si trasmetteva alle lunghe gambe leggermente arcuate, poi ai piedi che sembravano accarezzare il suolo con la leggerezza di un Fred Astaire.
Avanzava lungo il marciapiede sorridendo fra sé come un fanciullo in vacanza, le mani nelle tasche dei pantaloni color verde stagno, una giacca di velluto assai frusto color melanzana, scalciando affettuosamente le cartacce che i suoi piedi incontravano e puntando verso casa nostra. Quando mi fu vicino, si inclinò un po’ per scrutarmi attentamente e mormorò cantilenando:
“Guarda guarda Betty Lou come si è fatta grande…”
Io, dico la verità, non feci quello che sarebbe stato ovvio per chiunque: non mi alzai di colpo, non mi impressionai, non tentai di ritrarmi per lo spavento né feci domande con voce strozzata. E lui non fece niente di quello che ci si sarebbe potuto aspettare: non mi sfiorò, non mi accarezzò i capelli, non fece il gesto di abbracciarmi. Ci guardammo per qualche istante, forse rimandando tutto a un altro momento.
Poi lui disse, educatamente:
“Beh, io salgo un attimo”.
E io rimasi lì su quel gradino, senza pensare a niente, perché qualunque cosa avessi pensato certamente era troppo grande per me. I gatti selezionavano gli avanzi, raspando fino all’ultima molecola le carte oleate della rosticceria e lasciando ai cani, che sarebbero sopraggiunti più tardi e che notoriamente mangiano di tutto, la stagnola del cioccolato del resto già meticolosamente leccata da mia madre.
Non rimase di sopra a lungo, diciamo un quarto d’ora secondo la mia incerta percezione di dodicenne. Io non mi ero mossa, e lo sentii alle mie spalle lasciar ricadere il portoncino e saltellare giù dai gradini con lo stesso lieve atteggiamento fanciullesco e malandrino di quando era salito.
Ora mi aspettavo, che ne so, una frase, qualcosa, qualcuna di quelle cose che prima ritenevo avessimo solo lasciato in sospeso, e dentro di me pensavo che non ne avevo poi un gran desiderio, perché poteva saltar fuori una situazione ben più che bizzarra o imbarazzante. E io di situazioni bizzarre e imbarazzanti ero, a dir la verità, anche abbastanza stufa.
“Dice tua madre di salire per aiutarla a mettersi a letto – mi informò con gentilezza, e in quel momento sentii il suo odore, che era di elefante, e vidi che aveva i capelli raccolti in un codino e ai polsi portava due braccialetti di misere perline.
Poi se ne andò, verso l’angolo di strada da dove era svoltato, ma a metà si fermò un attimo, mi chiamò:
“Ehi!”
E mi lanciò qualcosa, che io fui svelta ad afferrare tra le mani.
Poi un ultimo gesto di saluto, e fu tutto.
Mi aveva donato un pacchetto di sigarette, ciancicato e mezzo vuoto. Lo guardavo chiedendomi se un padre che regala sigarette a sua figlia di dodici anni è un padre molto moderno, oppure nessun padre.
Mia madre mi aspettava sulla sua poltrona sfiancata. Senza una parola le sfilai le calze dalle gambe pachidermiche e l’immensa tuta di ciniglia di un fragoroso color fragola, le rinnovai gli strati di garze intrise di pomate puzzolenti, raccolsi da terra i resti di un paio di scatole di cioccolatini e la scortai nella penosa navigazione verso il letto.
Fu solo quando si fu sistemata con molti ansiti e gemiti e il suo immane corpo ebbe finito di spargersi, dilagare e invadere il materasso, che mi parlò. Era provata ma durissima, determinata.
“Nessuno deve saperlo. Giura che non lo dirai a nessuno. A nessuno, capito?”
“Ma allora non era morto davvero?”
“A nessuno, ti dico, a nessuno – ribadì con forza.
Poi aggiunse:
“Non piangere. Pensa solo a questo: se qualcuno lo viene a sapere, noi perderemo il sussidio, e io perderò la mia reputazione. Ho un lavoro onorato, la gente crede in me. Non vuoi rovinare tutto, vero? Dimmi che non vuoi”.
Io non è che stessi piangendo, né ne avevo l’intenzione. Trovavo solo ingiusto che certe cose succedessero un metro sopra la mia testa.
“No che non voglio, ma se lui tornasse? – tentai, per farla ragionare.
“Ah no che non torna, puoi star sicura. Gli ho detto che se torna lo ammazzo con le mie mani – mi assicurò, e la sua voce era colma di desiderio di vendetta. Capii che parlava seriamente, e del resto disponeva di un’arma letale: il suo stesso peso, con il quale avrebbe potuto mantenere la minaccia col solo accasciarglisi addosso e schiantarlo come un qualunque sgabellino di bambù.
“Ma tu lo sapevi, però – protestai debolmente.
Lei non rispose. Un giorno, cinque anni prima, aveva fatto la sua scelta, e oggi non le restava che ribadirla.

Quella notte mi svegliai di soprassalto perché mi ero dimenticata di controllare una cosa. Tirai fuori dal comodino il pacchetto di sigarette e lo esaminai per bene: ne conteneva cinque, storte, mezze morte, mezze sbriciolate. Cercai dentro e fuori se vi fosse un biglietto, un messaggio, un indirizzo.
Ma era solo un pacchetto cincischiato e mezzo vuoto, giusto con un fondo di odore di elefante.

*    *    *

E anche con questo partecipo all’eds Nero di Natale della solita stregonessa Donna Camèl, in ottima e abbondante compagnia con:
Hombre con Ti prego, non chiamarmi Barbie
Dario con Zebre e savane
Leuconoe con Placida come il fiume
Pendolante
con Natale con soffritto
Kermitilrospo
con Pedalata nera
Fulvia
con Il quadro capovolto – 2a parte
Lillina
con Una vita segnata
Calikanto
con Nero livido
La Donna Camèl
con Se tu mi amassi
Singlemama
con Dissolvenza in nero
Angela con Chi è di scena
Angela
(ancora) con Taccido