I custodi

Non era così che volevo arrivare a Natale, non così affannata, insoddisfatta e in ritardo con tutto. Avevo programmato bambini docili, papà collaborativo, umori radiosi, estro in cucina e pace nel mondo, e invece il pomeriggio della Vigilia è stata l’ennesima prova di sopravvivenza. Il gatto si è appeso ai festoni dell’albero tirando giù tutto. Il papà ha imprecato così forte da farlo scappare a nascondersi chissà dove, e all’ora di andare a letto non si era ancora rivisto. La figlia di mezzo se l’è presa col papà per via del suo gatto amatissimo ed è corsa a chiudersi in camera sua a piangere istericamente. Il grande si è messo a tirare calci alla porta per farla smettere. I gemelli di un anno hanno cominciato a gridare a squarciagola anche loro, così la tosse gli è aumentata e quasi si strozzavano. Il papà seccatissimo è uscito a prendere un po’ d’aria lontano da questa gabbia di matti, e quando è tornato si è arrabbiato di nuovo perché non era cambiato niente e in più si era accorto di aver perso gli occhiali da riposo.
Io in cucina, tentando di portarmi avanti con i preparativi del pranzo di Natale, ho fatto impazzire la maionese per spalmare burro e marmellata sul pane della merenda, afflosciare il soufflé per pulire nasi colanti, lasciato bruciare la zucca per pacificare i turbolenti e dimenticato di scongelare l’arrosto per riordinare il macello in salotto.
Alle sette ho dovuto lasciare la cucina per fare il bagnetto ai gemelli, e sul più bello telefona la cognata per gli auguri in anticipo (domani vanno a pranzo al ristorante, loro!); il papà è stravaccato davanti al televisore e tocca rispondere a me, con il cordless incastrato tra guancia e spalla mentre strofino i piccoli con l’asciugamano. Il grande e la media adesso litigano per la doccia, e il gatto è sparito, forse per sempre, lui, l’unico in questa casa che mi riservava attimi di serenità e languide fusa. Lo sciroppo per la tosse dei gemelli finisce sui bavaglini, gli altri si lamentano perché la minestra scotta e mi sono dimenticata di preparare i crostini; il papà a cena brontola ancora per gli occhiali e incolpa il solito gatto, scatenando nuove crisi di pianto nella figlia gattofila, mentre a me è venuto finalmente il mal di testa tanto aspettato. Inoltre comincio a sentire freddo: l’acqua per lavare i piatti non si riscalda, e capiamo presto che la caldaia è andata in blocco. Che tempismo: ora per parlare con il tecnico dovremo aspettare al freddo tre giorni, e io ho due mocciosi con la tosse e sono freddolosa.
Dopo cena cerco di combinare ancora qualcosa in cucina ma mi sento impotente di fronte al programma in ritardo, e poi col mal di testa non ci ragiono più: meglio andare a letto e rimandare tutto a domattina presto, sperando in qualche miracolo. Del resto il papà a letto ci è già andato perché senza occhiali accidentaccio non riesce a guardare a lungo la tele e poi non c’è niente di interessante da vedere, sempre le solite fetecchie di Natale e uno intanto paga il canone ma perché dico io si può sapere perché.

Devono essere le sei, o almeno lo spero. Spero non sia più tardi, perché ho tantissimo da fare e contavo di approfittare di questi momenti in cui tutti dormono ancora. La prima sensazione è di tepore. Eh sì, i radiatori sono caldini, la caldaia si deve essere sbloccata da sola. Chissà, forse solo una bolla d’aria, Dio ti ringrazio. Dalla cameretta dei gemelli non sento gorgoglii preoccupanti: i loro respiri sono calmi e regolari, e mi rendo conto che hanno dormito tutta notte senza tossire. Il grande ha lasciato scivolare la coperta per terra: piano piano gliela rimbocco addosso, lui si gira con un sospirone felice e grazie a Cielo non si sveglia. La media dorme abbracciata a un peluche che la consola, almeno nel sonno, dalla perdita del gatto. Il papà russa, quindi va tutto bene e continuerà ad andare tutto bene almeno per un’altra oretta.
Io scendo in cucina.
Davanti ai fornelli c’è una vecchina con la crocchia, un vestituccio nero a fiorellini e un grembiule immacolato in vita. Sta mescolando religiosamente una pentola che fuma, e un’altra pentola coperta sobbolle sul fornello accanto sprigionando un soave profumo di ragù mentre, sui ripiani, dei canovacci puliti coprono amorosamente dei vassoi di qualcosa. Il gatto è ricomparso e dorme placido nel suo cestino attaccato al termosifone, come se nulla fosse successo.
“Nonna…” sussurro incantata.
La nonna si gira, mi sorride, posa il mestolo e mi viene ad abbracciare con infinita semplicità.
“Buon Natale, tesoro” mi dice, ed è proprio la sua voce, quella che si è spenta tanti anni fa.
“Nonna… ma non eri morta?”
La nonna è morta quand’ero appena ragazzina. Non sono cose che si possano equivocare o dimenticare. Gli ultimi giorni li aveva passati a casa nostra, i miei le avevano riservato la mia cameretta e il mio letto per farla stare più comoda con la flebo e l’ossigeno, e io dormivo nella stanzetta del guardaroba e ogni mattina salivo a salutarla prima di andare a scuola.
“Guarda, ti ho fatto la pasta fresca” mi dice, indicando i vassoi e i canovacci.
Mi ricordo il tavolone di cucina in casa dei nonni, le vigilie della grandi feste: la sfoglia tirata, le linee tracciate con una riga da disegno di legno, la ciotolona con il ripieno che imparavo a dosare tra pollice e indice per depositarlo nei quadrati, e quel gesto antico e preciso della nonna per chiudere i tortellini che invece non ho mai saputo riprodurre.
“E qui c’è il ragù, lo faccio andare pianino pianino. Intanto è pronta anche la besciamella, è venuta proprio vellutata come si deve” e me ne dà dimostrazione sollevando il mestolo dal quale cola un nastro bianco e cremoso esente dal benché minimo grumo.
“L’arrosto è pronto in forno, già farcito e legato con gli aromi. Il purè dovrai farlo tu all’ultimo momento, ma è facile”.
“Ma nonna, hai cucinato tutto…”
“Ti ho lasciato riposare, ne avevi proprio bisogno”.
Oh sì che ne avevo bisogno, ero così stanca ieri, e avevo tanto mal di testa… ma adesso è sparito, non ce l’ho più, non ho più mal di testa e non mi sento neanche più così stanca. E il gatto è tornato, sono proprio felice!
“Sai dov’era? Si era nascosto dietro la caldaia, qualcosa deve averlo spaventato” mi spiega sorridendo.
Le piacevano i gatti, amava tutti gli animali ma i gatti in modo speciale.
“Lo ha trovato il nonno quando è sceso a riparare la caldaia” aggiunge poi, come se fosse una cosa normale, semplice da capire.
“Il nonno?”
“Lo sai che è un bravo artigiano, un vero aggiustatutto. Ve l’ha sistemata in un attimo, sei contenta? Non potevate mica stare al freddo proprio a Natale, ti pare?”
“Il nonno, il nonno mio! Dov’è, dov’è, che voglio rivederlo!”
“Oh, il nonno, lo sai come è fatto: un po’ orso. Non voleva commuoversi e così ha fatto il lavoro e poi se ne è andato. Ė andato alla stazione a vedere i treni. Gli piacciono tanto, i treni”.
Oh sì, quanto gli piacevano i treni! Da piccola mi portava spesso a vederli, dopo i pranzi di famiglia a casa loro; i grandi restavano in salotto a chiacchierare e noi due uscivamo per fare due passi dopo l’abbondante mangiata, io appesa alla sua mano calda di falegname. Guardavamo i treni di lusso e i notturni, e poi le littorine e i merci, e io imparavo a leggere i cartelli con i nomi delle destinazioni. In tasca aveva sempre delle mentine o delle liquirizie.
“Avrei voluto che conoscesse i miei bambini…”
“Non ti preoccupare. Li ha visti. E gli sono piaciuti tantissimo. Ma loro hanno già i loro nonni”.
Hanno i loro nonni, è vero, ma sono nonni di oggi. Gran bravi nonni, ottimi nonni, moderni, sportivi, però non somigliano a quelli che ho avuto io. Quelli sì che erano nonni, avevano una specie di magia, sembravano personaggi delle fiabe, ed erano capaci di miracoli e incantesimi.
“Ah, guarda che ho spalmato un po’ di Viks Vaporub sul petto ai gemelli: hai sentito come respirano meglio? E gli occhiali di tuo marito erano al loro posto, sul tavolino del salotto ma sotto il giornale. Ora è tutto a posto. E io me ne devo andare”.
Non so se sia stata un’ultima magia, ma mi sono accorta che non mi veniva da piangere come mi sarei aspettata al momento dell’inevitabile congedo. Mi sentivo commossa, sì, ma non era di piangere che avevo voglia, bensì di sorridere e sentirmi straordinariamente felice, come poche altre volte nella mia vita adulta. Più come sapevo esserlo da bambina, direi.
E così l’ho salutata e l’ho lasciata andare, perché il campanile già suonava la prima Messa, e la nonna non avrebbe mai voluto perderla o arrivare in ritardo. Ma io credo che tornerà ancora. Se mi troverò proprio nei guai, io ci credo: tornerà.

(dedicato a nonna Luigia e nonno Giacinto, i veri Custodi della mia lontana infanzia)

A me mi

A me mi vorrei chiedere scusa per tutte quelle cose che avevo promesso e non ho fatto.
Perché volevo danzare Lo Schiaccianoci, correre i 100 metri alle Olimpiadi, scavare nella valle del Serengeti, fare il cardiochirurgo, diplomarmi al Conservatorio in pianoforte e direzione d’orchestra, imbarcarmi come mozzo sulla Vespucci, soprattutto diventare una scrittrice, e invece non ho proprio avuto tempo.
A me mi vorrei però anche ringraziare per la pazienza, a volte il fatalismo, più spesso la tenacia e facciamo anche per l’impulsività che qualche volta mi ha pagato e per il resto mi ha dannato, ma pure insegnato. E per l’ottimismo e per il realismo, che insieme formano il pragmatismo che io dico che è la cosa più utile che ho. Senza dimenticare la voglia di fare e un tot di immaginazione che bene o male dà un senso a tante cose che ne avrebbero poco o niente.
A me mi vorrei suggerire di prendermela più comoda, di volermi un po’ più di bene, di dedicarmi un po’ più di tempo tipo per oziare con un gatto addosso o farmi una lunga manicure o cazzeggiare su word come adesso, senza scopo né di lucro né di altro. Soprattutto quando è novembre e piove. E di fissare quanto prima un alberghetto da poco ma affacciato sulla spiaggia per il prossimo giugno senza provare il minimo senso di colpa, che è poi – il senso di colpa – la rogna più brutta di cui soffro e che è ora di mandarla al diavolo una volta per tutte (sapendo come si fa, se qualcuno me lo insegna).
E infine a me mi darei una pacca sulla spalla (la sinistra, ché la destra è fottuta), vecchia mia che cadi eppure sei sempre in piedi, che di cose ne hai fatte comunque, di buone e di cattive, tante inutili, qualcuna speciale, come le mie figlie, come l’inventario della biblioteca e altre due o tre che adesso non ricordo. Avanti così, che ormai di cambiare più di tanto non c’è rimasto granché di tempo, pure se la voglia ci sarebbe.

E smettila di stirare anche gli stracci della polvere.

E curati quella spalla.

Hai capito? Ci sei? Mi ascolti?

A me non mi ascolta mai nessuno.

*    *    *

campagna (anomala) di sostegno a A TE TI, di Sonupueti, votabile qua
(votabile nel senso DA VOTARE ASSOLUTAMENTE E SUBITO ! ! !)

aderiscono alla campagna:
A noi ci di La Donna Camèl
A egli gli di Hombre
A voi vi di Lillina 

Io per voi

Mi vedo tra qualche anno, invecchiata quanto basta per avere ormai vinto la paura di invecchiare, libera da ogni seppur fisiologico residuo di vanità, in sereno accordo con le rughe e i capelli bianchi, deliziata dal diritto di indossare vestitini neri a fiorellini come quelli di mia nonna e magari la sua crocchia così femminile, le scarpe morbide per passi piccoli e silenziosi, le vene sulle mani che ispirano tenerezza, una fragilità da rispettare.
Mi vedo tranquilla, compiuta, su una poltroncina di vimini sotto una pergola di bignonia che confina con la spiaggia. Perché per allora mi sarò guadagnata la casetta bianca direttamente sulla sabbia, fresca dentro e con i papaveri, i girasoli e il basilico tutt’intorno.
Sarò più vecchia ma non per questo amerò meno il sole, e lo prenderò fin dal mattino presto, curando un orto minuscolo e un susino che gronderà di frutti. Non per l’età temerò di nuotare nel mare, immergendomi a picco fino a raccogliere nubecole di sabbia fine sul fondale.
Riemergerò forse con il cuore un po’ veloce e lo riposerò stesa sotto il cielo pulito finché avrà ripreso il suo ritmo, ma quella botta di vita avrà ridato la carica alle arterie un po’ annaspanti, ai muscoli delle gambe un po’ in declino.
Per allora, i miei cari staranno tutti bene, saranno chi guarito chi sistemato, tutti al sicuro e in grado di farcela. Così potrò occuparmi solo di me stessa, della casetta bianca, dell’orto e della bignonia, dei libri che non ho finito di leggere e di quelli che non ho finito di scrivere. Mi prenderò un po’ di riposo dalla vita, riscuoterò tutte le ferie maturate e non godute, e i crediti in sospeso – beninteso dopo che avrò saldato tutti i debiti. Sarò come una gatta placida e saggia che non contempla nel suo universo (lo disconosce geneticamente) anche il solo significato astratto della parola “problemi”.
Comunque, niente panico: lascerò un recapito e il telefono acceso. Al bisogno, chiamatemi.
Io per voi ci sarò sempre.

Virus

Spoiler: se ne sconsiglia la lettura a un pubblico emotivamente suggestionabile
(poi non dite che non ve lo avevo detto, eh)

La sento arrivare, sì.
Per ora è solo un sospetto, ma l’esperienza sembra riconoscerla ugualmente. Un sospetto, un alito sotterraneo che sa di freddo e umido, di tanfo di topo, di muffa. A tratti sembra soffiare più forte, più insinuante, e sempre alle spalle, nel bel mezzo del prato sotto il sole; ma se mi giro per sorprenderla gira anche lei, e mi sta sempre dietro, come un sicario. Ne parlo al femminile perché è subdola e traditrice, e il suo bersaglio è l’inerme, quello già perdente in partenza.
Come avversaria è sleale e camaleontica, una femmina  senza scrupoli, un’avvelenatrice. Non fa rumore. Non ronza, non sibila, non ruggisce; è silenziosa come una cantina, di un silenzio assordante come le pulsazioni nelle orecchie in una stanza anecoica. Il suo piano è identificare un pertugio poco presidiato, una vecchia cicatrice mal rimarginata – e ne trova, ah se ne trova – in cui iniettare il suo contagio, e poi, una volta dentro, dilagare ovunque, svegliare le spore dormienti lasciate qui l’ultima volta, colonizzarmi tutta. Vuole la mia vita, la mia giornata proficua, il fiato con cui parlo e spesso rido, le mani che non starebbero mai ferme, se lei non le incatenasse con i suoi lucchetti. Vuole staccare la luce, vuole il tutto grigio, il tutto piatto, il tutto senza forma né alcun calore, un tutto così uguale che è come essere già morti. Ma prima vuole succhiarmi fuori la mente e la volontà e tutti i sensi, la vista e l’udito e il tatto, e naturalmente al loro posto mi lascerà un vuoto smarrito, rassegnato, assolutamente inutilizzabile, come quello dei pazzi.
Mi odia, e io ricambio il suo odio con le uniche energie che riesco a difendere mentre mi prosciuga tutte le altre. A volte vorrei parlarle, spiegarmi, avviare un confronto e una trattativa. A volte invece vorrei ignorarla, lasciarla a bocca asciutta, che si fotta da sola. Meglio di tutto sarebbe non nominarla nemmeno, mai e a nessuno: distruggerla con il silenzio e con il disprezzo. Ma quando ci provo vince lei lo stesso. Perché quando azzanna non posso fare a meno di urlare, di dibattermi, di chiedere aiuto (portatemi via, non lasciatemi qui sola con lei!), e a chi intorno a me si allarma o si addolora non so come spiegare che sono di nuovo in trincea, in un cunicolo fangoso e senza appigli, a vedermela con la mia Nemica che non ho mai visto in faccia, che mi vuole a tutti i costi, che ha il solo implacabile obiettivo di svuotarmi il pensiero e venirlo a occupare lei, che si ritira ogni tanto solo per sorprendermi dopo ancora più indifesa di prima, e che conosce tutti i miei trucchi infantili – nascondermi, abbracciarmi le ginocchia, chiudere gli occhi forte forte gridando dentro – per tenerla non dico a bada ma almeno un minimo più distante, lo spazio per tentare un’ultima rincorsa e scappare più lontano possibile dalla Paura di lei.

Tornare a Itaca

Ogni tanto ci torno, a Itaca.
Più che altro torno per vedere come stanno, se stanno tutti bene, se c’è qualcosa da cambiare, aggiustare, rinnovare.
Finché va tutto bene, sto bene anche io, perché posso dirmi “Allora, anche se parto di nuovo, qui lascio tutto in ordine, e potrò tornare un’altra volta, magari fermarmi un po’ di più, o per sempre, se ci riesco”.
Finché la mattina si aprono le imposte e i traghetti lasciano gli attracchi e il caffè si scalda sul fornello e qualcuno lava via il piscio di gatto della notte; finché i bambini vanno a scuola e le donne al mercato e i pensionati a vedere i treni alla stazione e i bottegai mettono fuori la merce e spazzano la soglia; e i preti dicono messa per le vecchiette che si alzano presto e osservano il digiuno e quando tornano a casa danno da bere ai fiori e al canarino e rassettano il letto e accendono la radio; finché i morti vanno a San Michele in pompa magna, in corteo attraverso la laguna, traslocando solo temporaneamente in un’isola ancora più bella, più silenziosa e placida; finché tutto continua così, finché stanno a galla loro malgrado e malgrado il peso dei marmi e dei mosaici e della pietra e della Storia; fino ad allora ci tornerò. Ogni tanto, quando posso. Il più spesso col pensiero, o con la musica. Violoncello e clavicembalo insieme fanno miracoli.

Affresco

Non ho mai mentito sulla mia età, anzi ne vado fiera. Perché non conosco nessun altro che possa vantare una vita varia e longeva come la mia.
Sono nata a Venezia nel 1735, lo stesso giorno dell’incoronazione di Alvise Pisani a Doge. Mio padre era tipografo, aveva una stamperia in Barbarìa dele Tole, vicino a Campo Ss. Giovanni e Paolo; era molto apprezzato in città, e fra i suoi clienti vi erano diversi artisti, che gli portavano a bottega poesie, libretti d’opera e spartiti musicali. Noi la sera, a casa, facevamo musica prima di cena, soprattutto d’inverno quando fuori la notte e le nebbie ingoiavano il canale della fondamenta Brian. Mi accadde di conoscere di striscio Antonio Vivaldi, che doveva dei soldi a mio padre ma era stretto di manica come di petto e tirava sempre sul prezzo. Giacomo Casanova lo conobbi l’inverno in cui gelò la laguna e tutti andammo a vedere dalla riva i buontemponi che ci pattinavano sopra. Ero al tempo bella come tutte le veneziane del settecento, e non nascondo di aver ricevuto da lui delle avances piuttosto pressanti, che però respinsi con fermezza perché mi ero segretamente innamorata di Giambattista Tiepolo, allora cinquantenne, per averlo visto lavorare all’Incoronazione di Maria Immacolata sulla volta della navata della chiesa della Pietà.
Andavamo anche a teatro, per lo più di carnevale (ma ricordiamoci a Venezia, nel settecento, il carnevale andava da ottobre a primavera inoltrata), e fu così che conoscemmo Carlo Goldoni. Fu ospite ai nostri salotti musicali almeno due o tre volte, ma la musica lo annoiava un po’ e preferiva fare quattro chiacchiere davanti a un bricco di cioccolata fumante. Prima di lasciare Venezia per Parigi, passò a salutarci e promise di tornare entro un paio d’anni; invece sappiamo come è andata, che lui a Venezia non ci tornò più.
Una primavera mi incantai, con tutta la città, ammirando l’ascesa di un pallone aerostatico nel cielo sopra piazza San Marco; era l’aprile del 1784, e l’ammiraglio Angelo Emo aveva cominciato le sue azioni militari contro i pirati barbareschi. In città arrivavano, e suscitavano tripudio, le notizie dei suoi bombardamenti contro i porti di Tunisi e Biserta.
Vidi Goethe estatico su una gondola mentre si riempiva gli occhi di immagini che in patria non avrebbe mai dimenticato. Tornai a vedere la laguna gelata durante il carnevale del 1788, e pochi anni dopo ci capitò di passare la notte di Natale in cima alle scale per salvarci da un’eccezionale acqua alta. Ma ci attendevano prove ben peggiori. Dovetti udire i cannoneggiamenti del porto del Lido contro una nave napoleonica che veniva a prendere prigioniera la città, e in capo a poche settimane cademmo in mano francese. Quei ladri. Ci derubavano dei nostri tesori più sacri con la più empia arroganza. Poi vendettero anche noi, tutti noi, agli odiati austriaci, che oltre al resto fecero la loro parte di razzie. Giacomo Casanova era lontano, vecchio e piegato; seppi solo dopo mesi che era morto oscuramente in Boemia.
Gli austriaci rimasero un bel pezzo. Non che ci trattassero male, anzi erano innamorati di noi e di Venezia, non avendo, a casa loro, niente di così bello. Tuttavia erano stranieri, e noi non abbiamo mai sopportato padroni: nemmeno i nostri dogi lo sono mai stati, erano anzi uomini come noi al servizio del popolo e del Maggior Consiglio. Fastosi ornamenti ma senza potere. Siamo stati sempre, e sottolineo sempre, una Repubblica, e per di più laica, sganciata dalla Chiesa e spesso, perciò, in odore di eresia.
Ecco perché c’ero anche io, in Piazza, nei giorni della liberazione di Manin e Tommaseo e della proclamazione della Repubblica Veneta Democratica (e non leghista), in mezzo alla folla esultante e piena di orgogliose speranze. E per il motivo opposto, l’umiliazione e lo sconforto, scesi in calle ad assistere alla caduta dell’anno successivo, tra la fame e il colera che ci assediavano peggio degli austriaci e che ci sconfissero vigliaccamente. Ma c’ero, e commossa, anche il giorno in cui le ceneri di Manin, morto esule a Parigi, tornarono a Venezia dopo l’unificazione al Regno d’Italia, che alla fin fine non si rivelò poi tanto migliore dell’impero astro-ungarico, va detto.
Nel 1902 accorsi affranta a contemplare le macerie del crollo del campanile di San Marco. Con gli altri giurai a me stessa e alla città e all’intero mondo che sarebbe rinato com’era e dov’era, e così fu.
Gli austriaci, poi, non se l’erano messa via del tutto. Tornarono a desiderarci e portarono nuovi cannoni fino al Piave. Una notte ci bombardarono per otto ore di fila, che io passai in cantina tra odor di salmastro e spolverio di calcinacci ma nessuna preghiera nel cuore, a nessun Dio, tutt’al più a San Marco e al suo Leone.
Dopo la guerra, la Grande Guerra, credetti di incontrare D’Annunzio un pomeriggio lungo le Zattere. Aveva i suoi stessi baffi, il suo stesso charme, il suo stesso naso altezzoso e una bella donna sognante appesa al braccio. C’era un sacco di bella gente, ricca e famosa, che girava per Venezia in quegli anni; scrittori, musicisti, celebri amanti, teste coronate, attrici di teatro. Anche oggi, verrebbe da dire, ma di tutt’altra qualità, molto più modesta; più che altro una mise en scène da dilettanti.
Di guerra ce ne fu un’altra, come si sa. Di notte si vedevano i traccianti sopra il cielo nero della terraferma, e si udivano gli schianti delle bombe su Treviso. Noi, ci risparmiavano, perché volevano la città intatta come trofeo. Ma si presero comunque qualche martire, come i sette i cui cadaveri restarono legati per giorni ai lampioni sulla Riva che poi avrebbe preso il loro nome; io li vidi mentre li fucilavano per motivi futili, vi fui portata a viva forza con gli abitanti della zona per assistere a uno dei fin troppi atti esecrabili di rappresaglia. Ora a quella riva attraccano navi da crociera, e ne sbarcano i discendenti di quello straniero e di molti altri; poi scusate se qualche ristoratore o qualche gondoliere gli rifila conti da capogiro. E scusate anche se, quando ogni anno quegli scalmanati della lega vengono a piantare lì le loro tende, sono io quella donna che si affaccia alla finestra e espone il tricolore. Non perché mi senta particolarmente italiana, in quanto veneziana non ne ho bisogno; ma perché di invasori invasati e barbari di campagna ne abbiamo già avuti abbastanza, ora poi che stiamo combattendo all’ultimo sangue contro i cinesi.

Ultimamente incontro spesso il sindaco Orsoni in vaporetto. Come stiamo, sindaco? gli chiedo. Come va la guerra contro i cinesi? Mah, risponde lui col suo sorriso placido da piccolo orefice vagamente pronipote di Dogi e Capitani del Mare. Poi mi offre uno spritz, mentre da San Marco arriva e si scioglie sopra i tetti il mezzogiorno largo, solenne e inconfondibile della Marangona.

Chi mi ha visto?

Mi sono persa.
E l’ho fatto così bene da insinuare forti dubbi perfino sul fatto che sia mai veramente esistita.
È ridicolo portare delle prove, possono essere tutte confutate facilmente. Già il solo fatto che io sia nata è riportato solamente su un pezzo di carta che si riferisce a un luogo che non esiste più. Se andate a cercare lì delle tracce, non troverete una casa di cura sul Canal Grande ma un condominio ristrutturato e diviso in appartamentini con affaccio sulla Ca’ d’oro. E i testimoni oculari dell’evento sono comunque morti tutti e non possono più parlare.
Il primo indirizzo conosciuto porta anche quello a una casa non più esistente. Qualcuno ricorda perfino le note esatte su cui cigolava il vecchio cancello, e giurerebbe sul numero di gradini che portavano all’ultimo piano, o saprebbe descrivere l’odore di arance e laguna che abitava i corridoi, ma la casa è stata abbattuta e quindi sono parole al vento anche queste.
Il vento è stato visto, dicono, ingaggiare con me una sfida di resistenza in fondo a un molo in certi giorni di inverno spietato e pulito che costringevano le coppie di innamorati ad aggrapparsi ai lampioni per baciarsi. Un paio di ragazzi di allora, ora uomini grigi e distratti, potrebbero vagamente ammettere di essere stati presenti, in tempi diversi ovviamente, ma tacciono per discrezione o forse per dimenticanza.
Scarsamente attendibile è la segnalazione di chi mi avrebbe vista con dei fiori bianchi in mano sul sagrato di una chiesetta romanica. Non credo in Dio né nel matrimonio, dunque come potevo essere io?
Fantasioso alimentare la leggenda che mi vede eroina fra i sofferenti. A chi non piacerebbe fare il medico come nei telefilm, salvare le vite, sconfiggere il cancro? Ma non esistono prove che lo abbia fatto anche io, non esiste ospedale in cui il mio nome compaia nell’organigramma, o paziente in grado di documentare un miracolo compiuto da me.
I più sentimentali si ricorderebbero di me nel cortile di una scuola con due bambine speciali, speciali perché così diverse, una bianca e una nera. Ma se gli chiedi di rintracciarle, non sanno più cosa dire. Trovatele, quelle due bambine, e magari nei paraggi troverete anche me.
E c’è chi è sicurissimo di conoscere il mio indirizzo attuale, e vi porta fin sul cancello, vi mostra trionfante il giardino: “Vedete, le sue rose! Vedete, i suoi gatti! È qui che abita, la vedo sempre con la tazzina del caffè alle sei di mattina”. Ma il giardino è incolto, le rose piene di afidi, i gatti poi lo sanno tutti che si arrangiano da soli. E guardate bene: il nome sul campanello è illeggibile, il sole lo ha stinto tanto tempo fa. E poi sarebbe davvero paradossale che, dopo essere nata di fronte alla Ca’ d’oro, ora vivessi in un paesello di campagna così banale e asfittico. Una delle due ipotesi contraddice l’altra, vistosamente.

Vorrei aiutarvi, darvi un indizio, ma non so nemmeno io dove sono finita. Anche le vecchie foto in bianco e nero mentono. Come quella lassù in alto, quella ragazza che legge in sottoveste nel vano di una finestra: ma è lì solo per sostituire un punto interrogativo. Le mie poesie che qualcuno avrebbe letto sono una fola: le ho bruciate tutte, e quelle che dovessero essermi sfuggite le rinnego ora, in blocco, per sicurezza.
Forse l’ultimo posto dove cercarmi è sotto una barca capovolta su una spiaggia, ma se davvero fossi là farei di tutto per non farmi trovare.
Chi mi ha visto, non ero io.

Era bello, eravamo belli

Beati noi che abbiamo avuto questa canzone come colonna sonora di un amore breve, intenso e insoluto come succede a quell’età. Studiavamo insieme un esame grosso ma non era per la paura che ci venivano le extrasistoli. Ci venivano perché sapevamo cosa ci era successo e non potevamo, oh no, dircelo. Quando ce lo siamo detto, la realtà è precipitata in mezzo a noi due, ai nostri libri, alle nostre tazze di caffè, e non c’era spazio abbastanza, né ossigeno. Così è morta di asfissia, e un po’ asfittici siamo rimasti anche noi, ma non per molto, come succede a quell’età.

All’esame presi un buon voto, non ricordo quale. E anche tu.
Tu che poi sei diventato cardiochirurgo, mentre io, beh, lo vedi.

Mentre mi mantro un mantra

Il giorno in cui, fresca di laurea, ho timbrato il mio primo cartellino, ho ricevuto anche un dono, del cui valore mi sarei capacitata solo più avanti. Indossavo un camice nuovo, il fonendoscopio era il mio ottimo Littmann dalla membrana sensibilissima, e lo tenevo – come l’ho sempre tenuto – in tasca, non a scialle sul collo come si sono inventati di fare, scomodissimamente, gli americani. In tasca anche il martelletto e un laccio emostatico; nel taschino una biro omaggio di casa farmaceutica. In testa, esaltazione e panico. Qualcosa di simile a “chi me lo ha fatto fare” oppure “Domine non sum digna”.
In quell’ospedale di campagna, eppure o proprio per questo d’eccellenza, la lingua ufficiale era il dialetto. Lo parlavano tutti, tranne il primario che non era di quelle parti e io che non sono abituata a farlo. Così fu in dialetto che mi venne rivolta forse la più solida e illuminante frase-chiave della mia vita, a opera di un collega giovane, un ragazzotto bonario, dinamico e preparatissimo, il quale mi precedette nella prima delle stanze a me assegnate e me ne consegnò la giurisdizione con un largo gesto sorridente e queste parole incoraggianti: Ciapa in man la situassion.
Come dire: “mettiti al lavoro e fai vedere chi sei”, più che “da oggi questi son cazzi tuoi”. Un’investitura, ma più pacca che spada, sulla spalla.
Strano che mi ci sia voluto del tempo per rendermi conto che quella formula non mi era nuova, perché era esattamente la formula programmatica di tutta la mia vita. Quel giorno, semplicemente, l’ho sentita pronunciare ad alta voce in un momento topico. E ha funzionato. Ha funzionato nella professione, soprattutto nelle ore di guardia in cui l’emergenza richiede decisioni rapide e non concertate con altri che ne sanno più di te. Funziona comunque ogni santo giorno, di fronte a decisioni anche spicciole della routine. Funziona come mantra della mattina, quando scendo in cucina alle sei e rotti e mi guardo intorno e mi chiedo da dove devo cominciare a reinventare me stessa. È la coscienza delle responsabilità che si sveglia prima di me e mi butta giù dal letto quando è ancora buio, per indossare l’armatura e montare a cavallo. Mi armo e parto. E non delego, ma prendo in mano la situassion. 

Il mantra della sera, quello che concilia il sonno ai giusti, suona come l’appagato (a volte rassegnato) epilogo di una giornata vissuta nel segno di quella formula esortativa: Anche questa è fatta.
Come sto bene quando posso dirlo a me stessa in tutta sincerità! Quando posso voltarmi indietro e constatare che, seppure annaspando o brontolando, anche per oggi ho pulito, cucinato, ascoltato, rabberciato qualche problema, messo del mio, fatto il possibile, il massimo o tutto del poco che so fare. Pur se resta sempre qualcosa, o tanto, in sospeso; pur se a troppi guasti ho potuto mettere solo un cerotto; pur se al posto delle macerie spazzate oggi ne troverò sempre di nuove domani; pur se domani sarà probabilmente (su base statistica) scontato e irrisolvibile esattamente come oggi. Ma ci saranno comunque altre ventiquattro ore nuove di zecca per riprovarci a far succedere le cose giuste: così pensa chi non vuole arrendersi al pessimismo, perché il pessimismo è un facile alibi per non fare niente, non provarci neanche, e in fondo per essere lugubremente soddisfatti quando si perde, perché almeno non si saranno sbagliate le previsioni.
Invece a me piace sfidarle, le Cassandre, guarda un po’.
E mi piace andare a letto la sera stanca per aver tentato di scalare a mani nude la Montagna del Fato, saltando crepacci e scansando slavine, perché mi hanno detto che da lassù in cima si vede il mare. 

La fotografia è di Robert Doisneau e mi ritrae all’alba mentre esco a conquistare il mondo.

Madeleines

E insomma, c’era quella poesiola delle elementari che stava sempre lì, ai primi posti della classifica dei ricordi fissi, impressa parola per parola e intonazione per intonazione nell’anfratto più blindato dei ricordi remoti. Più stabile e immutabile di tanti altri ricordi remoti, che invece escono a fatica e solo dopo numerosi tentativi di decifrazione. La tiravamo sempre fuori come prova di fedeltà quando ci trovavamo insieme tutti e tre, il che accade solo una volta l’anno in occasione della visita di nostro fratello da Parigi. Quando ci troviamo insieme tutti e tre, torniamo bambini. Ma bambini cretini. E il nostro gioco preferito, lontano da orecchie estranee, è il piccolo archeologo. Archeologia familiare, riesumazione del lessico e della mitologia delle nostre infanzie. Immagino lo facciano tutti. A noi è sempre riuscito benissimo, uno comincia con un “Vi ricordate questo?” e gli altri si illuminano e inizia la gara a chi riesce a recuperare più particolari. “Vi ricordate quest’altro?” Come no, e tutti giù a spararle grosse, arricchendo il ricordo di risvolti umoristici. A volte vengono in soccorso le vecchie foto, nelle quali ci riconosciamo impacciati e ingenui nei nostri cappottini anni ’50, dei quali ricordiamo i colori anche se è tutto rigorosamente in bianco e grigio (il nero si è già stinto).
La poesia delle elementari è un must di queste riunioni. C’è sempre qualcuno che la mette sul tavolo, e allora la recitiamo all’unisono, sovrapponendo le nostre voci nel ritmo e nella pronuncia indelebilmente imparati allora. Imparati dai nostri cuginetti, che dovevano studiarla per scuola, ma noi l’avevamo memorizzata meglio e la ripassavamo con loro. Sotto la brina il pioppo è di cristallo, intona uno, e gli altri subito dietro, come in chiesa per il rosario: Se lo tocchi l’infrangi, e piomba al suolo con tinitinnio di frantumate lastre. Una poesia sull’inverno, sulla natura, triste, accorata, antiquata. Eppure ci divertiva declamarla con intonazione teatrale, era una specie di infantile esorcismo.
L’ultima volta, a febbraio, non abbiamo resistito: l’abbiamo cercata su google. E l’abbiamo trovata al primo colpo. Abbiamo finalmente riportato alla luce il testo completo e anche l’autrice, nientemeno che Ada Negri (magari a questo ci saremmo potuti arrivare anche da soli). Era esattamente come lo ricordavamo noi dopo tutti questi anni. Ma non ce ne siamo rallegrati. No, perché era come un enigma svelato, che ha perso tutto il suo sapore. Prima era un tesoro esclusivo della nostra memoria, ora è un bene comune alla portata di tutti e perciò svilito, banalizzato.
Google è onnisciente: basta digitare qualcosa, un’esca, un brandello, e lui ti spiattella tutto quello che c’è da sapere. È stato un colpo vederlo apparire senza sforzo e tutto intero, il testo de Il pioppo.
Quello che google non sa, però, è molto altro. Non sa quanto ci divertivamo ad andare a trovare i cuginetti. Non sa che lo zio, un buontempone che recitava dai preti, ci raccontava un sacco di storielle e imitava in modo spassoso il parroco di San Giovanni Grisostomo. Non sa che la casa dei cuginetti era per noi l’antro delle meraviglie, perché in cucina c’era un cassetto che conteneva solo carta e matite per farci disegnare, e che in bagno, davanti alla tazza, c’era un armadietto con un giacimento di giornalini (un lusso che a casa nostra era visto come un’abitudine volgare). Né che la mattina ci svegliavamo nel profumo del pane tostato, e gli zii ci davano a credere che fosse appena arrivato a bordo di un elicottero dei Servizi Segreti. E che, staccando il letto dalla parete, ci ricavavamo un nascondiglio dove simulavamo di pilotare una nave spaziale ben prima dell’allunaggio del ’69.

Queste cose google non le sa.
Anzi sì, mannaggia, ora che ve le ho raccontate le sa anche lui.