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Eccola qua

stazione Fara

La stazione del paesetto da dove proveniva la nonna materna: Fara Novarese. La fotografia risale a… non so di preciso, direi un’ottantina di anni fa. E ne saranno passati una buona quarantina dall’ultima volta che sono andata lì. Così, preferisco ricordarmela com’era, con i suoi odori e la sua polvere, quando ci arrivavo da bambina per passare con la nonna il periodo della vendemmia.
E qui ce n’è un’altra. So che non interessa a nessuno, ma mi sento di fare un omaggio privato alla nonna Luigia, la figura femminile più importante della mia infanzia e ancora adesso il pensiero familiare che più mi dà sostegno nel bisogno. La nonna Luigia era un angelo.

stazione Fara

Vorrei

Quando ho aperto questo blog, l’intenzione era di pubblicare le cose che scrivo. Racconti, pensieri, a volte poesie, frammenti di varia scrittura. Perché per me la scrittura è la più importante passione, e avvicinarmi alla letteratura il più penato obbiettivo. Ma capitano periodi così, periodi di eclisse, in cui la testa non si lascia coinvolgere dalle sensazioni che stanno alla base dell’ispirazione. Capitano periodi in cui è come se le porte e le finestre fossero sbarrate dall’interno, e questo interno fosse una scatola vuota e buia dove non si muove niente, e niente nasce.
So per lunga esperienza che non è il caso di disperarsi, perché ogni eclisse prima o poi passa e si rischiara, e questa non è la prima né l’ultima. Ma mi guardo intorno con una certa desolazione, e faccio il mesto inventario dei lavori in corso che vorrei invece vedere in corsa: ho trascurato i Diari da Magdenbad che pure mi divertivo tanto a inventare giorno per giorno, ho interrotto anche la pubblicazione de Il secchio bucato, che in fondo è già scritto, già pronto, e basterebbe un clic. Soprattutto, da settimane non procede il romanzo, quello che ho covato per quasi due anni e che ero riuscita a portare alla stretta finale: mi manca l’ultima volata, mi manca l’epilogo, mi mancano le parole e la fiducia per chiuderlo.
In periodi così, tornano buone altre parole, che ho scritto tempo fa, durante un’eclisse come questa. Basterebbe che mi ricordassi che anche allora ne sono uscita, e dopo ho scritto tanto, ho scritto perfino cose buone, di cui essere soddisfatta io stessa. Basterebbe avere pazienza e fiducia, e anche (forse soprattutto) trovare quel po’ di egoismo necessario per liberarmi dai problemi altrui e dedicare almeno una piccola ma seria parte del mio tempo e delle mie energie mentali alla mia passione per la scrittura. In fondo, c’è chi ha vizi peggiori.

VORREI…

sedia…scrivere qualcosa, qualsiasi cosa, naturalmente che non sia di te, che non sia di me, che non sia di noi e di quelli che sono stati come noi; di quelli invece che magari fanno un bel viaggio, incontrano i cammelli nel deserto, nuotano accanto ai delfini nei mari grandi, visitano pagode e catacombe e trovano gli odori del Tempo, oppure quelli che prendono il treno l’auto il pullman ogni mattina e fiatano i loro sogni sui vetri sporchi e aspettano di arrivare perché prima non sono ancora svegli del tutto, e quelli che vedono le forme delle nuvole e subito ci scrivono canzoni che poi tutti le cantano, e quelli che gli basta un film alla tele e vanno a letto contenti come se avessero vinto loro, e poi si addormentano subito e lo risognano e lo cambiano in meglio, quegli altri che parlano ai bambini ai malati ai vecchi e agli animali e se ne vanno con le tasche piene di piccole gioie, che mangiano un sacco di cose dolci e sono felici, che corrono in autostrada per sentire che buon rumore fa la loro auto nuova, che prendono in braccio i loro figli piccoli e li fanno volare di perfetta beatitudine, gli preparano sorprese per natale mentre dormono ma ogni tanto non resistono e gli vien voglia di socchiudere la porta per vedere se sono davvero addormentati, che non li scoprano, che ci credano ai regali, alle storie, alle giornate speciali, ai fruscii di carta argentata, al profumo di pino nelle strade, ai cristalli di neve sui vetri, prima di spegnere la luce e lasciare che li incornici la luna.
Qualsiasi cosa, vorrei scrivere.
Meglio: una cosa qualsiasi.
L’ho sempre fatto; tornerò a farlo, ecco.
È così che farò, quando lo farò.
A questo no, non rinuncio.
Vedrai.

Cape Cod morning

Hopper-Cape Cod

Passa a trovarmi.
Passa una sera di nevischio, e ti offrirò un tè bollente, e lo berremo a occhi socchiusi mentre farò asciugare il tuo cappotto vicino al fuoco.
Oppure un mezzogiorno d’aprile e di campane, e i panni stesi nell’orto profumeranno di marsiglia e rosmarino e metterò un quadrifoglio tra le pagine del tuo libro.
Non prepararmi discorsi d’amore, che è cosa fragile e potrebbe cadermi dalle mani, e poi non serve: se c’è, l’amore, lo riconoscerò ugualmente dalle pieghe del tuo viso e lo distillerò dal non detto.
Parlami invece di te, di dove sei stato; non per sapere il nome dei tuoi viaggi, ma cosa ne hai portato. Non curarti della mia curiosità: non sono avventure che aspetto di sentire, ma i colori delle città e i segni che ne hai raccolto. Citami, anche distrattamente, l’angolo di una strada o la panchina di un parco o il muro di una fabbrica o un molo nel porto; e io da questi indizi risognerò tutti i tuoi passi, e le distanze e le nostalgie e ogni colpo che ti ha battuto il cuore.
Passa a trovarmi, la mia casa ti è di strada su qualunque strada. La riconoscerai, è facile: fra tutte è la più appartata, il suo giardino è il più selvatico, ci cresce libera l’erba e folta la siepe, per nascondermi. Di giorno, ci sarà un gatto a dormire sullo zerbino; la sera, una finestra accesa. Quella, è casa mia.
Ma perché tu non ti perda, non la confonda con un’altra casa, una casa dove non ti aspettano, farò così: ti aspetterò io, sarò fuori sul portico quando passerai di qui, non mi stancherò di esserci, per te. Per quando verrai.

Nella stanza accanto

finestra

Oltre il muro grigio parlano, a volte molte voci insieme, altre sembrano solo in due o tre. Discutono in molti modi diversi, con acuti stridori o velenosi miagolii. Dal sottofondo c’è chi a tratti assume la dirigenza e conduce per un po’, fino a che altri si affiancano con toni crescenti e stonati e in breve ciascuno riprende vigore e prepotenza seguendo il proprio filone. Sono cocciuti, non abbandonano la presa. Ognuno di loro sembra sempre sul punto di cercare la rissa. E si azzuffano a parole, il vocio si alza in picchi acuti e sbraitanti nel tentativo di ciascuno di sopraffare gli altri, chiunque a caso. È un rumoreggiare a ondate, ogni tanto si solleva molesto come un gracchiare di gesso su una lavagna, oppure un’esplosione fuori misura accende a catena lo scoppio di reazioni e insulti. Per lunghi istanti imprevedibili tacciono tutti d’un colpo, perdono il mordente e la direzione, o una risata sarcastica li gela o ne suscita altre a cascata…

Non li ho mai visti.
Vanno e vengono, vivono una dimensione di rumori e acrimonia che non intendo, da qui, e del resto non esco mai, perché dovrei? Ho tele e colori a sufficienza per continuare il mio lavoro all’infinito.
Stendo strisce di blu di Prussia e terra di Siena e inclino la testa per guardarvi in profondità. Dalla finestra si infila dritto e lucido un moscone e ronza forte tracciando orbite concentriche sull’alto soffitto. Per la durata del suo volo di giugno, i rumori si ovattano nella vanità e nell’indifferenza dell’abitudine, si disperdono nella ripetitività, si liquefanno nell’aria di cicale.
E il mio pennello, ecco, proprio adesso si ferma senza gocciolare e carpisce a istinto una nuova immagine.
Ora cambio colore e dipingo un gabbiano.
Solo il profilo arcuato delle sue calme libere silenziose ali.

(dedicato a it.arti.scrivere. dove una volta c’era il ronzio della passione e adesso lo schiamazzo assordante del vuoto)

Le donne

le donne

Le donne ficcano le tazzine della colazione nella lavastoviglie, si tirano una riga di rimmel sugli occhi attenti, si specchiano il rossetto nel retrovisore, rovistano un cellulare in borsa e mandano sms ai semafori.
Aprono porte con sorrisi seri e gambe decise, accavallano collant nerofumo sotto le scrivanie, appoggiano piccoli stretti occhiali in fondo al naso, giocano con le dita e i braccialetti.
Portano a casa sacchetti di lattine e insalata, stappano le bottiglie con cautela poi fanno scorrere molta acqua fredda sulle mani e ci mettono su un cerotto.
Raddrizzano i quadri e gli angoli del copriletto, e intanto gli si smaglia una calza e camminano a piedi nudi.
Accarezzano irresistibili oggetti di poco conto e fiori quasi aperti, ma con la punta delle dita come sanno fare loro.
Si riscaldano con una tazza in mano appoggiate al termosifone e aspettano pensando vago.
Con le amiche si raccontano bugie molto belle da inventare e da ascoltare, storie di uomini che le hanno lasciate e di molti altri venuti dopo. Si baciano con le guance, si tengono sotto braccio se piove, si aspettano davanti alle vetrine, poi non sempre entrano.
Con i bambini stanno attente, vorrebbero toccarli e prenderli in braccio, ma le madri non sono d’accordo perché poi piangono.
Comprano giornali da buttare sul sedile posteriore e più avanti nel cestino, sospirando di noia, ed esosi gioielli falsi agli ambulanti perché hanno un senso materno da esprimere, e come sovrapprezzo un sorriso di amicizia.
Inciampano in tacchi da sera con bocche splendenti per far contento chi le guarda, che si ricordi di loro per un attimo, anche se molto in là nel tempo.
Mentono innocenti o sviano le parole, ansiose di non far troppo male se non vengono comprese.
Ingoiano di nascosto pasticche per dormire o per dimagrire, vergognandosi un po’ di essere fatte così, diverse da quegli uomini che le vorrebbero diverse.
A quelli, agli uomini che attraversano le loro strade piene di sole e di voglie aggrovigliate, promettono di mantenere promesse non loro, e ci mettono il cuore; poi cade una stella e gli scivola di mano un piatto da asciugare e raccolgono cocci dimenticando di desiderare.

Gli uomini guardano come camminano e non sanno dove vanno. O gli contano gli anni negli occhi e poi si chiedono se c’è tempo. Oppure non vedono niente e si infilano in un bar a bere qualcosa da soli.

Compleanno

Questa è vecchia, ma ci sono affezionata e la tiro fuori ogni anno

11 FEBBRAIO

Mme Matisse
Poi mi diranno
che è un regalo di compleanno,
un dono che fa il tempo,
quest’altra ruga qui,
nuova accanto alla bocca.
Così diranno,
facendomi gli auguri,
e lo accarezzeranno,
certi lo baceranno.
Ma lo so io cos’è, lo so,
quel segno:
è solo un solco lungo il viso
come una specie di sorriso.

 

Il Lido a febbraio

Alle dieci papà ci aspetta in fondo al binario 8. La parola d’ordine, oggi, è farlo contento in tutto e per tutto, mettergli a disposizione la giornata perché se ne ricordi a lungo, dopo a lungo averla sperata: siamo qua tutti e tre, i figli sparsi e divisi, ex-bambini in perenne infelice soggezione, ora cinquantenni ancora parzialmente infelici e ancora sufficientemente succubi, ma ormai più che altro della compassionevole tenerezza verso un padre che ci ha messo troppo ad accorgersi di noi e adesso ha pochi mezzi per recuperare gli anni perduti. Ma basta la salute, e se poi ci aggiungiamo un tanto di superiore ironia la cosa si può fare: si può fingere che vada tutto bene e che nulla di ciò che è successo nelle nostre vite abbia lasciato i segni irrimediabili che solo noi sappiamo, nel silenzio sincero dei ricordi spietati.
Con sorrisi leggeri – leggeri come la luce azzurra di questa mattina di incerto febbraio – ci avviamo in una Venezia smobilitata dai turisti e non ancora aggredita dal carnevale; le donne ben coperte portano sacchetti di spesa, gli uomini escono dai caffè col giornale sotto braccio, i vecchi si fanno guidare da cagnetti remissivi, ragazzi niente – sono a scuola – ma bimbi piccoli sepolti da sciarpe nei passeggini trasportati a braccia su e giù dai ponti. La pietra d’Istria rimanda echi di passi, i fornai profumano gli angoli di pane fresco e vaniglia di frittelle. Ho voglia di caffè, un caffè perfetto, di quelli che non si dimenticano, ma sono sola contro tre e rinuncio precipitosamente per non doverlo precipitosamente inghiottire sotto occhi impazienti.
Si passa un attimo da casa (in fondo a un campiello, alcuni gatti di una colonia felina riconoscono in nostro padre un loro quotidiano benefattore e mi concedono uno scatto)

gattiVE

per lasciare giù dei piccoli pacchi e dare a papà un giudizio collegiale sulla sistemazione a muro di alcuni quadretti che gli stanno a cuore: la mozione è presto approvata all’unanimità e con unanime soddisfazione. L’appartamento è una delizia di luce e serenità su tetti frequentati da gabbiani saggi e sedentari; ogni cosa è in ordine e splende come se quella casa fosse il paradiso finalmente raggiunto, e so che per mio padre lo è. Un po’ tardi, ma finché dura.

gabbiano

Il programma, azzardato lì per lì, ma proprio per questo destinato a esito felice, è una gita al Lido, per rivederlo com’è in inverno e come ce lo ricordiamo dal nostro passato, da altri inverni isolani senza il chiasso dei turisti che si appropria dei silenziosi viali e giardini, degli stridi dei gabbiani fra le terrazze, della quiete delle villette liberty ombreggiate da magnolie. Il vaporetto della linea 1 impiega un buon tre quarti d’ora, percorrendo prima tutto il canal grande dove si incrociano rare gondole con famiglie asiatiche, e poi il bacino che si allarga scintillando fino all’approdo di santa Maria Elisabetta; come giapponesi, mio fratello e io scattiamo foto convenzionali di palazzi, di gomene, di pontili, quasi per riscattare le nostre proprietà perdute.

Imbocchiamo il Gran Viale degli alberghi chiusi e dei negozi in ferie; il poco passeggio è quello delle famiglie del sabato, e anche qui cani al guinzaglio e bimbi in carrozzine impellicciate, ma il sole è più franco e batte sulle palazzine bianche, sui vetri degli abbaini, sulle aiole di sempreverdi che spartiscono un traffico di poche auto. Al posto del circolo degli scacchi in cui nostro padre ci tradiva con la sua meticolosa passione, un grande magazzino; al posto del raffinato negozietto di sciarpe e cappelli, videogiochi e gadget; proliferano agenzie bancarie e bar mordi e fuggi, e all’angolo con la nostra vecchia strada lo storico negozio di ferramenta, ristrutturato a vetri e cromature, espone cellulari e nient’altro. E’ invece rimasta tale e quale, ossia si è lasciata dolcemente contagiare dal degrado carezzante del tempo, la villa del dottore, a due passi da dove abbiamo abitato noi: cancellata verde ormai vocata a una quieta ruggine, stratificazioni felpate di foglie secche sui vialetti, l’ocra della facciata, fra le imposte sbucciate, stinta a tiepido rosa dal sole che le sorge di fronte. Di casa nostra, al contrario, non resta più niente. Era una palazzina liberty di grande sobrietà, con linee irregolari che cingevano un giardino di palme e cedri; cigolava, il cancello, e chiudeva male. Dall’altana dove raramente si saliva – per una scaletta di legno e di fortuna – si vedeva da un lato la laguna e dall’altro il mare.

Passiamo il ponte che non rimbomba più, da quando lastroni di pietra hanno sostituito le assi di legno che facevamo risuonare coi passi. Più avanti, il fornaio che ci forniva spartane merendine sulla strada per la scuola, poi un altro ponte su un canale quietissimo dove il sole entra d’infilata e scalda vecchi legni di barche a riposo. L’istituto delle suore dove ho imparato a leggere e a scrivere è invecchiato signorilmente e soprattutto non è più una scuola, ma un pensionato intristito: mancano le nostre voci bambine tra quei rosai e l’impeccabilità del cortile ben spazzato, mancano i disegni alle finestre e i paltoncini buttati in un angolo per giocare.
Di là dalla strada, però, c’è il mare, le spiagge recintate per l’inverno. Troviamo un varco giù da una scalinata di cemento che poi permette anche di accedere a una terrazza sopraelevata, ma la meta sicura per tutti – anche per un padre sbigottito che teme di sporcarsi le scarpe sulla sabbia – è la spiaggia libera e possibilmente – anzi, per quel che mi riguarda, irrinunciabilmente – la battigia. Li lascio indietro e prendo il mio passo, quello ventoso e esaltato che sempre mi porta verso l’acqua, qui e ovunque.
Marea bassissima e moria di granchi e conchiglie; i moli deserti, la spiaggia estesa dove si contano poche figure in passeggio meditativo, come in certi dipinti di Boudin e come fuori dal tempo. Due petroliere sfumano all’orizzonte; il faro è lontanissimo, meta di coraggiose camminate da cui si tornava con le spalle scottate e l’urgenza di un tuffo nelle acque sicure sotto riva. Alle spalle, dorme nel suo biancore primo novecento il grand hotel Des Bains, l’albergo fiabesco delle nostre fantasticherie di bambini, l’albergo del professor Aschenbach e del suo Tadzio.

DesBains

Ma è l’acqua, è l’acqua che cerco, e mentre i miei fratelli raccolgono conchiglie come mai li ho visti fare da piccoli, io è l’acqua che raccolgo, tra le mani non osando togliermi scarpe e calze per non turbare un padre tardivamente apprensivo per la salute della progenie, ma lo farei, oh se lo farei, non sarebbe la prima volta che mi arrotolo i jeans per entrare in acqua a piedi scalzi in pieno inverno, e per trovarla più tiepida, più dolce, più materna e affine a me dell’aria fredda che mi taglia il viso.

Tra me e l’acqua c’è qualcosa di infinitamente saldo, un patto naturale che mi accompagna dalla nascita, io che son nata in una stanza affacciata sul canal grande, e quella sera anche il cielo pioveva, ed è perciò che è nell’acqua che sono venuta al mondo e che per sempre poi l’acqua mi è stata madre.

All’una si torna nel mondo, nelle strade, sui marciapiedi lastricati fra vetrine semideserte e rari locali in attività; in uno offrono pizze e primi piatti, quel che manca del tutto è qualsiasi traccia di pesce, ma dei quattro sono l’unica a prediligerlo, e mi adeguo a una margherita su una cerata verde e gialla, dove i nostri bicchieri di vino lasciano cerchi rossastri. I vicini di tavolo, ce ne sono di slavi e di giapponesi, pasteggiano a lasagne e cappuccino, Dio li perdoni. Papà riesce a mangiare la sua pizza dall’interno, lasciando la crosta intatta come una corona circolare; mio fratello la divora tutta, mia sorella e io a tre quarti ci sentiamo spacciate e rinunciamo alla crostata, rinviando il dolce a una buona pasticceria dove anche il caffè abbia un aspetto e un aroma più convincente. Progetto che poi cade nel nulla, perché è ora di tornare a Venezia, e il motoscafo – stavolta la linea 52 che gira dietro l’Arsenale – è già al pontile. Mio padre fa strada col suo famoso berretto da Corto Maltese che lo fa sentire tanto uomo di marineria.

Il tragitto è frequentato quasi solo da indigeni, perché offre delle suggestioni che i non veneziani non saprebbero cogliere, abbacinati da quelle convenzionali e a buon mercato dei percorsi classici; per questo lo preferiamo, e ci lasciamo alle spalle l’isola della nostra infanzia dove sembra – sembra solo – tanto facile tornare quando si voglia, un treno, un vaporetto, che ci vuole? ma che invece è così lontana, così fuggita via da essere ormai per noi irraggiungibile e aliena. Anche se sono certa che certi angoli, certi cancelli, certi vecchi muri, qualche albero e qualche ponte ci sapranno riconoscere sempre, almeno loro, e ci chiamerebbero per nome con tenero stupore.

L’ultima immagine del Lido a febbraio è un controluce, un controluce d’amore. Si torna all’asfalto e ai fumi plebei della terraferma. Ma nostro padre, che ci saluta dal terrazzino dei gabbiani, lui è felice. L’ultima impressione che mi segue al treno è che lui oggi sia ringiovanito, mentre io mi sento di colpo più vecchia.

Ma non è colpa sua. È Venezia che mi frega sempre.

Che senso ha?

M.Marieschi - Ss. Giovanni e Paolo

Festeggiare un anno che finisce, dico. Da pochi minuti, un 5 è diventato un 6, e con ciò? Sono convenzioni, niente di più; come i buoni propositi e gli auguri. Convenzioni. Non atti di fede né certezze né conquiste.
Poche ore fa, ieri, ultimo giorno dell’ultima settimana dell’ultimo mese di questo anno, sono stata a un funerale. Scusatemi l’argomento, so che potrà dar fastidio metterlo in tavola accanto a ostriche o zamponi, ma poi tanto finiscono anche quelli: finiscono mangiati, divorati, ingozzati, e le tracce che lasciano non sono ‘sto granché.
Un funerale a Venezia. Bisogna averne visto uno per capire il senso. La chiesa è tra le maggiori della città, ospita tombe di Dogi, mica cazzi. Poca gente, e in età. Fiori, no. Non so perché. Solo un mazzo sulla cassa, chiara. Neanche organo o canti, niente. Un celebrante svogliato, quattro frasi fatte, lesinato perfino l’incenso. Poco impegno, mi è parso; nessuna intensità.
Solo dopo, fuori, in campo, è successo ciò che sempre succede nei funerali a Venezia e che sempre attanaglia il cuore di chi assiste, anche dei passanti; e ce n’erano, turisti invernali, ce n’erano, e sbigottivano nel vedere le manovre complesse per issare la bara su una motolancia e poi farvi salire i pochi familiari. La vita in campo si è fermata per qualche minuto intorno a quei gesti, fino al disormeggio, quando l’imbarcazione si è staccata dalla riva del canale e ha puntato verso la laguna, sparendo sotto l’arco del ponte. Io, rimasta a terra, congelata dentro e fuori, ho cercato di trattenerla negli occhi fino all’ultimo, e anche dopo ho immaginato ogni metro compiuto nelle acque freddissime della laguna, nel tratto da percorrere verso l’isola del cimitero, San Michele dalle mura rosate. Non c’è niente che renda meglio il senso del definitivo distacco che un funerale a Venezia: i nostri morti vengono portati laggiù, su un’altra isola, lontani dalla vita della città. Andarli a trovare è un viaggio, un vero viaggio, il più malinconico che si possa immaginare.
Ecco una cosa che, ieri, è finita davvero.
E la nevicata che è cominciata proprio quando stava iniziando anche l’ultima notte dell’anno ora avrà coperto, più che non potrebbe una lastra di marmo, quella poca terra smossa la mattina, a dare il segno più struggente di una vera fine.

Haiti nel cuore

Haiti

Do spazio a un racconto non mio, ma di una persona che di storie come queste ne ha raccolte a centinaia, nel corso della sua lunga e appassionata vicenda umana come Missionaria Salesiana nel lontano e poverissimo paese di Haiti. Suor Anna, friulana di nascita e di cuore, da quasi cinquant’anni vi svolge un durissimo lavoro di assistenza umanitaria nei confronti di una popolazione tra le più sfortunate al mondo. Conoscerla ha cambiato la mia vita. Grazie a lei, sedici anni fa ho adottato la mia seconda figlia, che oggi si sta serenamente avviando alla laurea e a un futuro pieno di speranze. Il racconto di Suor Anna è scritto col cuore, senza letteratura, ma è una storia vera. Una Storia di Natale. Tutti noi possiamo scriverne altre come questa, entrando a far parte dell’associazione che, dall’Italia, da anni sostiene i suoi sforzi. Io l’ho fatto, e sono cresciuta.

STORIA D’UNA BAMBINA

È la vigilia di Natale. Sto preparando dei regalini, regali piccoli, ma preparati con tanto cuore, avvolti in carta a colori “Pappagallo” e con sopra dei nastrini rossi e verdi.
Oh! Arriva la posta.
Apro subito l’abituale lettera-circolare di Monsignor Alfredo Battisti, destinata (o indirizzata) ai Missionari, in occasione delle feste natalizie. Una frase mi colpisce fortemente e va dritta al cuore:
“Fratelli e Sorelle Missionari, cercate di vedere negli occhi del Bambino Gesù lo sguardo supplichevole di tanti bambini bisognosi! Non distoglietevi; date loro una mano”.
Allora due grosse lacrime spuntano dai miei occhi! E non per niente. Da due settimane Suor Claire mi chiede con insistenza di prendere una bambina di alcuni giorni, abbandonata nell’Ospedale di Cap-Haitien, di cui è responsabile, non avendo mezzi per sostenerla! Difatti i neonati necessitano di tante cure e devono essere nutriti con un latte speciale, molto caro. Ma la mia risposta è sempre:
“Non posso, non posso! Non abbiamo posto; ciò mi fa pena, Suor Claire…”
Benché stravolta, ancora una volta mi sottraggo al problema; depongo la lettera del Vescovo, prendo i regalini di Natale e vado a portarli a Marcello – italiano – perché li consegni a sua suocera (nostra benefattrice ed amica). Lui però non risponde al mio saluto! Con una faccia del genere, dovevo avere qualche cosa che non andava.
“Cos’hai?”
“Niente, niente! Ho solo premura”.
“No, non parti da qui fin quando non mi dici cosa ti è successo!”
Ed insiste tanto finché gli dico ciò che mi fa male nel cuore.
E Marcello:
“Come Suor Anna, tu? Proprio tu osi lasciare quella creatura all’ospedale nelle condizioni che conosciamo? No, non è possibile! Vai subito a prenderla, io pagherò tutte le spese fin quando troverai una famiglia per lei!”
“Non è per i soldi, Marcello! Non abbiamo posto”
“Dalla a Martha!”
“Martha ne ha già 5 in quella capanna col pavimento di terra, ciò non va bene per un bebè di pochi giorni”.
“Ah!… Martha accetterà e saprà come aggiustarsi”.
Non c’è più via di scampo; prendo la jeep, con uno scatolone ed un asciugamano per deporvi la bambina, e parto. Al ritorno tutte le Suore sono in festa! Finalmente la bambina è al sicuro.
Più tardi, una telefonata dal Friuli:
“Buon Natale! Auguro tante belle cose anche alle Suore e ai bambini!”
“Grazie! Che piacere sentirti; Buone feste pure a te e a tutta la tua famiglia”.
“Senti, non hai bisogno di qualche cosa?”
“Veramente sì! Vedi se puoi trovare una famiglia che desidera adottare una bambina; ha 15 giorni, è stata abbandonata all’ospedale e l’ho appena portata a casa! E’ bellissima e si chiama Giulia”.
Due ore dopo:
“Sono ancora io! Pensa che ho già trovato la famiglia disposta ad adottare la bambina!”
“Come?”
“Sono uscita subito, senza sapere dove andavo, e già suonavano le campane per la Messa di Mezzanotte. Per caso ho incontrato un’amica, alla quale ho esposto il problema; e lei mi ha parlato di questa coppia che detiene l’idoneità del Tribunale dei Minori. Sono tanto contenta. Mandi! Ci parleremo”.
L’emozione che provo non mi permette neppure di dirle grazie, anche se sono abituata a questi interventi del Signore.
E’ quasi Mezzanotte e Martha, che abita vicino a noi e che non vuol perdere la Messa, arriva con i 6 bambini – metà addormentati. Li corichiamo per terra, su delle coperte, in una stanza vicina alla Chiesa. Giulia però la mettiamo sopra il tavolo, visto che non si muove.
Spari a festa annunciano la Mezzanotte! I ritardatari si affrettano ad entrare in Chiesa, già piena di fedeli provenienti da zone poverissime! Pure sono vestiti a festa: uomini con pantaloni bianchissimi, stirati con amido; le donne portano abiti e foulards a vivacissimi colori. Ciò che aumenta l’intimità di questa bella festa, è che la S. Messa si celebra alla luce d’una lampada a petrolio, non essendoci la corrente elettrica.
Io vado e venga tra la chiesa e la stanza dove sono i bambini. I più grandetti dormono profondamente; Giulia, invece, ha gli occhi aperti: mi guarda e sorride che è una meraviglia, benché abbia un po’ di febbre, tosse e diarrea… è una bambina straordinaria!
Finita la Messa, tutti ritornano nelle loro casette e in alcuni istanti il quartiere è avvolto in una grande oscurità e silenzio assoluto! Anche Martha, aiutata da sua nipote, parte con i bambini. Prima, però ricevono tutti i loro regalini e tante affettuose carezze! Giulia guarda e sorride.
Finalmente la comunità può ritirarsi e passare assieme un momento di fraterna intimità e scambiarsi alcuni regalini. Poi tutti vanno a dormire.
Chiudo l’ultima porta e con la lampada rimasta accesa mi dirigo verso l’attigua Cappellina della Comunità. La giornata è stata lunga e piena di tante emozioni! Ora sento il bisogno di rimanere un momento sola, come per “fare il punto”. Mi avvicino al Presepio e mi accorgo che anche Gesù, benché appena nato, ha gli occhi aperti e che mi guarda – mi guarda! Dio creatore dell’universo e padrone della vita, si fa bambino bisognoso di tutto e di tutti. Io, misera creatura, mi tengo ben dritta in piedi, con la testa alta, con arroganza dispongo, decido sicura di me stessa, anche sulla sorte (di vita o di morte) d’una bambina abbandonata da tutti. Che orrore!
Allora cado in ginocchio e gli chiedo perdono. Sì, la fede si accoglie e si pratica in ginocchio, senza pretese di capire… Ci si abbandona nelle mani di Dio Padre, semplicemente – con piena fiducia. I troppi calcoli sono figli dell’orgoglio.
Tutti questi pensieri mi convincono che ho bisogno di conversione e mi danno tanta serenità; sento di essere perdonata. Ora sembra che Gesù mi dica:
“Bene, tra tutti avete risolto il problema di Giulia! Tanto che lei adesso sta meglio di me!”
“No Gesù, non dire questo! Non sarai mica geloso? Tu c’hai la mamma vicino che ti coccola e ti scalda (come l’ho avuta anch’io) mentre lei non ha nessuno; capirai che dobbiamo essere molto attenti con lei e volerle bene. Ora stai buono, chiudi gli occhi e dormi”.
Gli do un bacino ed anch’io salgo la scala per andare a riposo con tanta gioia nel cuore.

Tutta questa storia è vera. Ho inventato solo il nome della bambina. Ora è una grande ragazza; sempre bella, buona ed intelligente e procura tante soddisfazioni ai suoi genitori adottivi.
SuorAnna
Cap Haitien
HAITI

Solstizio d’inverno

munch

Con questo buio alzarsi è lo strappo di una fucilata dentro la mente che non è mai pronta, mai abbastanza, per sapere cosa fare di sé, dove mettersi per non dare nell’occhio, per non finire scelti fra tanti. Toglietemi di dosso quella luce, quell’occhio di bue che mi inchioda sulla soglia dell’ombra; datemi che possa scavarmi un maledetto buco nella terra e starci, con le ginocchia abbracciate e la testa giù, a ripararmi dai calcinacci. Dopo, tra un po’, quando mi sarà passata, vengo da voi, vi guardo in faccia, magari mi viene un sorriso obbligato, magari anche domande e premure imparate a memoria, tutta una rete di belle maniere e accoglienza e grandi gesti come abbracci. Farò tutto quello che va fatto, e suderò per voi.
Ma non chiedetemi che sia volentieri.