Cosimo e il Dinosauro – frammento

Qualche giorno fa ho diviso con voi la soddisfazione per aver finito il mio ultimo romanzo, e i vostri messaggi sono stati così affettuosi e incoraggianti che trovo giusto offrirvi, adesso, un (p)assaggio di questa storia, la storia di Cosimo e del suo Dinosauro.
In questi stessi giorni, fatalità o coincidenza o passaparola telepatico, con alcuni di voi si è parlato anche di fotografie e del loro potere evocativo.
Per questo ho scelto, dal romanzo, un brano che le riguarda: il sessantenne Cosimo, ospite di una vecchia parente nel paese natale della nonna amatissima, sfoglia l’album di famiglia alla ricerca di tracce del passato, e qui sotto ne trovate descritte alcune.

piazza Fara

Cosimo e il Dinosauro
(frammento)

Le foto, come temevo, non mi dicono granché, e dall’espressione un po’ convenzionale con cui la cugina Arduina me le porge intuisco che ne è consapevole anche lei. Sfoglio svogliatamente un album che racconta di gite a un lago o a un santuario, battesimi e matrimoni, perfino l’inaugurazione di una Fiat 1100 – dietro la quale riconosco il portone del vecchio cortile aperto sull’acciottolato dove transita una gallina – ma gli attori non appartengono alla galleria di ritratti che cercavo. Le più recenti e a colori, le scarto subito, per risalire indietro al bianco e nero sbiadito che porta date più significanti; ma anche qua, visi e casi fissati dall’obbiettivo mi risultano estranei, sebbene alcuni nomi che talvolta sono segnati accanto mi suonino lontanamente familiari. E’ evidente che sto passando in rassegna ricordi altrui, di un ramo familiare diverso da quello da cui discendo direttamente. L’Arduina, finendo di asciugarsi la mani con un canovaccio, mi fornisce spiegazioni, ma non abbastanza esaurienti per me e per il mio scopo; mi indica per esempio suo marito ritratto ai tempi del fidanzamento, oppure un gruppo di famiglia che allinea sotto una pergola sua madre, suo padre e altri congiunti in abiti domenicali e col sole in faccia, ma nessuno di loro sembra in grado di stabilire una comunicazione con me. Lei stessa, bambina il giorno della Comunione, radiosa come si conviene per il vestito sfarzoso e lo sfondo di lussuosa cartapesta del fotografo, ma proprio per questo artefatta, mi sembra la caricatura di una recita scolastica in costume. Non coincide con l’Arduina viva e vegeta di sessant’anni più tardi che ho davanti adesso, e che mi convince assai di più.
“Questa qua, fammi vedere: è lo zio Erminio quando è tornato dall’Argentina – non riesco a collocarlo nella mia memoria, quest’uomo alto, magro, molto segnato ma ridente sotto un cappello che gli sta largo, la giacca sformata ai gomiti, alcuni nipotini dall’aspetto monello e scalcagnato che gli si stringono intorno per fare smorfie al fotografo. Comprendo solo quanto devono aver atteso questo ritorno e le storie fiabesche che lo accompagnavano: è evidente dalla loro eccitazione.
“E questa è mia mamma giovane che sta entrando nel pollaio per dare il becchime – infagottata, fazzolettone in testa, calzerotti e zoccoli ai piedi circondati di pulcini, un secchio appeso in mano, cerca di evitare lo scatto inopportuno; uno scherzo, starà pensando, ma ride e se la gode, forse è arrossita, forse no. “Mio papà, te l’ho detto che è stato sindaco. Qua lo vedi che presiede un consiglio comunale – la voce narrante si è fatta più riverente davanti all’immagine imprecisa e presa da lontano di un’aula ornata solo da un crocefisso e un gonfalone, dove alcuni uomini attorno a una cattedra che pare di scuola svolgono una seduta municipale (e uno di essi, ma non capisco quale, è suo padre) in cui si discute certamente di confini, date di fiere, prezzi di granaglie.
In un’altra c’è di nuovo lei, l’Arduina, stavolta adulta e ben assestata con permanente stretta e catenina col cristo al collo: sta di fianco a un seggiolone sul quale è accomodata una vecchia di età visibilmente considerevole, occhietti quasi puntiformi in un dedalo di grinze, scialle di una certa finezza dall’aria di essere un dono appena ricevuto. Dall’altro lato, una donna di età intermedia fra le due e nei tratti simile a entrambe, così come nella piccola ricercatezza del vestire che sottolinea l’atmosfera di festa. E’ appunto il novantesimo o giù di lì compleanno della nonna, la ultralongeva nonna Romilda, che ricorre nella foto, e tre generazioni di donne vi vengono celebrate all’unisono, omaggio alla fertilità e alla continuità del sangue.
Di tutto l’album, in un’unica fotografia, tra le più antiche e particolarmente scolorite, conservate a parte in una tasca della sovracoperta, compare mia nonna, anzi compaiono le due nonne, le due sorelle Giraudi Gemma e Romilda: le ha colte il fotografo del paese che si deve essere piazzato in mezzo alla strada, sui ciottoli fra le carrarecce dove passava in due file una processione – primaverile, si direbbe dall’aspetto di certi mazzi di fiori che alcune donne stringono al petto. E sono infatti quasi tutte donne quelle che vedo e intravedo in questa stampa ingrigita e che immagino accodarsi dietro un Cristo, un baldacchino, una statua di madonna. Sembrano essersi disposte secondo una regia che prevede l’osservanza di un ordine in base all’età, poiché quelle più avanti hanno facce di ragazze e il loro velo è bianco, mentre in secondo piano avanzano altre figure dai toni più scuri e dalle sottane più lunghe; forse, o almeno è logico presumerlo, lo scatto è intervenuto quando era già transitata l’avanguardia delle bimbe e delle fanciulle, che mi piace evocare in panni bianchi e gioiosi, e qualcuna, le più piccole e bionde, con ali posticce da angelo. Gemma e Romilda, forse ventenni, appaiate nella colonna delle pie, reggono come un’offerta un cero ciascuna; la mia – la mia nonna, la mia Gemma – mi appare subito inconfondibile per l’altezza degli zigomi, la triangolarità del viso, il sorriso modesto e soprattutto quel suo sguardo schivo, che davanti alla frivolezza di una fotografia rubata si fa quasi sgomento. So che, delle due sorelle, è lei prima che me lo annunci l’Arduina, la quale forse non ha ben compreso a fondo che a me è bastata, per averne la certezza, la spiritualità sottile che emana, su tutti, il suo magro viso devoto, indistinto sull’orlo della nebbiosità che col tempo divora l’immagine.
“Ma tu Cosimo come te la ricordi, la nonna tua?”
Cosa vuoi che ti dica, Arduina. Buona, me la ricordo.
Buona.
Era buona.

Finito!

fuochi artificiali

Oggi, primo maggio e festa del Lavoro, intorno alle nove del mattino, ho messo la parola fine in calce al romanzo. Si chiamerà Cosimo e il Dinosauro, come era stabilito fin dall’inizio.
Ora, lo so, come ogni altra volta ci sarà ancora molto da fare: rileggere, rivedere, aggiungere e limare. Non sarò contenta tanto facilmente, ma alla fine lo sarò. Lo sono già, a dire il vero. L’idea di questa storia mi ha ossessionato per oltre un anno prima che trovassi l’incipit giusto per partire, e la stesura si è più volte interrotta, facendomi temere ogni tanto di non saperla più riprendere.
Poi, non so cosa sia successo. Forse la primavera, la voglia di sgranchirmi e rinnovarmi. Il senso di disagio che sempre mi prende quando lascio qualcosa di incompiuto. E anche il bisogno di fare un viaggio almeno con la mente, se non posso farlo nella realtà.
Così ora sono arrivata. Ho preso il treno, quel treno, e spero sia quello giusto. Altrimenti, fa niente: ne prenderò un altro, ricominciando immediatamente a scrivere una storia nuova, perché di storie ne ho, in testa e nel cuore, e mi si affollano sui tasti facendo festa e spingendo per uscire. Non è bello? È magnifico, e dà un senso alla vita.
Allora, alleluia, e festa sia!