Diari da Magdenbad, cap. 35

Picasso_Ritratto-di-Olga-in-poltrona-1917Ma indubbiamente da qualche giorno c’è, nell’aria, qualcosa di nuovo e di fastidiosamente falso. Sembra di vivere a passo ridotto, tutti un po’ intrappolati in una attesa priva di nome eppure densa di sussurri. La scarsità di notizie induce a sostenere una perenne finzione, con la quale si tengono a bada le domande alle quali non c’è modo di avere risposte certe; si finge che tutto vada bene come al solito, come prima, e che nessuno dia peso a qualche ritardo, qualche trascuratezza, qualche inadempienza.
Vediamo bene che giorno per giorno ogni cosa, dal servizio dell’albergo all’umore generale, ha perso il suo smalto; che il personale è disattento, le pulizie un po’ più carenti, i menu un po’ meno vari e fantasiosi; eppure ci passiamo sopra, come se facendo rilevare questi segni di decadenza rischiassimo di sentircene parte noi stessi, o di svelare la nostra apprensione, il nostro allarme, e dar corpo a quelle che vorremmo tanto fossero solo ombre passeggere.
Tuttavia non tutti sanno dominare dignitosamente il nervosismo; le Ottermann, ovviamente, non fanno alcuno sforzo per mascherare il loro disappunto, anzi i molteplici motivi dello stesso, iniziati quando gli ufficiali sono stati consegnati nella guarnigione e hanno perciò interrotto bruscamente la girandola di visite, inviti e corteggiamenti danzanti che sembravano rappresentare per le esuberanti sorelle il vero scopo del loro soggiorno. All’inizio della settimana avevano tentato di partire, ma a modo loro, di furia e senza programmare, convocando una carrozza e poi rimandandola in malo modo dopo aver constatato che era insufficiente a trasportare tutti i bagagli e soprattutto che il conducente pretendeva, per i rischi del viaggio, una cifra a loro avviso offensiva. Durante l’attesa e la trattativa, ossia per mezza giornata, le casse e le cappelliere già fatte chiudere improvvidamente hanno intralciato il passo a tutti lungo i ballatoi e le scale. Ieri a cena, stizzite più che mai, hanno alzato la voce con un cameriere per una pietanza giudicata scadente, ma con tali toni ineleganti che Dimitri, alle cui spalle si svolgeva la scena, ha piantato lì le sue posate e si è alzato di scatto, allontanandosi senza nemmeno scusarsi. L’ho solo sentito sibilare tra i denti “Intollerabile!“. Subito è accorso Rubin, ha preso in mano la situazione ed è riuscito a rabbonire le due capricciose clienti e a ripristinare in sala un minimo di decoro; anche io, che sono sempre stata incapace di far fronte agli scatti d’ira, mi sono imposta di terminare il pasto con gli occhi sul piatto e la gola stretta. Più tardi ho raggiunto il mio amico nel giardino, trovandolo seduto sulla panchina sotto il tiglio con accanto lo stesso Rubin intento, stavolta, a rabbonire lui in una sommessa conversazione tra uomini nella quale qualche buona tirata di pipa e alcune ironiche battute sulle nevrosi femminili hanno certamente avuto il loro peso e prodotto i loro effetti.
Stamane è toccato a me di avere una lamentela, ma ho preferito esporla con discrezione: al momento di cambiarmi per il pranzo di mezzogiorno, ho trovato la mia camera nello stesso disordine in cui la avevo lasciata uscendone la mattina. Ho informato subito Olga, che ne è rimasta assai mortificata e ha incolpato del disguido le nuove cameriere assunte da poco per la stagione; poco dopo è tornata a riferire che la manchevolezza era stata rimediata, e non ha mancato di reiterare le scuse della Casa e l’assicurazione che l’incresciosa inadempienza non si ripeterà. Ma io non posso fare a meno di sospettare che del riordino della stanza si sia occupata lei stessa.
E infine sì, c’è qualcosa che non mi torna, c’è un sospetto crescente di menzogna, la stessa forse di cui parla Gregorius; la flemma e la bonomia di Olga e Rubin anche di fronte alle sempre più frequenti lacune del servizio mi convincono sempre meno, perché in realtà non c’è nessuna nuova cameriera, nessuna faccia nuova tra il personale, e neppure sembra che ve ne sarebbe bisogno dal momento che nessun nuovo ospite è arrivato e le camere sono ancora in massima parte libere, al Nordsee come negli altri alberghi, che esibiscono troppe finestre chiuse e troppo poca animazione sulle verande. Non solo: da qualche giorno non vedo più due giovani inservienti, due ragazzi che erano addetti ai lavori più vari e umili, e ho notato che anche l’ortolano che accudiva le galline e tagliava la legna non si è più presentato al lavoro. Sono segni, tanti e non del tutto insignificanti, di un serpeggiante disordine, di una avanzante destabilizzazione.

Diari da Magdenbad, cap. 28

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La Real Civica Biblioteca di Magdenbad è un bizzarro edificio alto e stretto incastrato fra gli splendenti palazzi patrizi della piazza, dei quali sembra il più antico e il più malconcio. La facciata, tutta sviluppata in verticale, riporta una disposizione alquanto irregolare di finestre di forme e dimensioni diverse, quasi scompagnate a bella posta o in seguito a un progetto bislacco, come se la costruzione fosse cresciuta un po’ per volta e secondo l’estro del giorno di una squadra di carpentieri ognuno col proprio disegno in mente.
Al pianterreno ci sono solo due stanze: una riservata all’ufficio del bibliotecario e l’altra per la lettura, arredate in modo essenziale con scaffali, tavoli e sedie che ricordano la severa scomodità di un convento. I libri sono numerosissimi, alcuni sembrano molto antichi, tutti disposti in ordine da una mano protettiva. C’era una sola persona, un giovane pallidino e impacciato con le dita macchiate di inchiostro; stava copiando titoli su un registro, e la mia venuta lo ha messo in crisi come se le visite alla biblioteca fossero di regola assai rare. Quando ho cominciato a esporgli la mia richiesta, è entrato nella massima confusione e si è professato troppo inesperto per aiutarmi, raccomandandomi piuttosto di rivolgermi al suo superiore, l’unico con facoltà di decretare prestiti. Innervosita, poiché non mi sembrava di aver chiesto qualcosa di tanto delicato, ho domandato dove avrei potuto trovarlo, e sono stata indirizzata di sopra.
“Salite tutte le scale, fino in cima. A quest’ora è sul tetto. Mi perdonerete se non vi accompagno, ma non posso lasciare la porta incustodita – mi ha detto lo studentino; eppure mi era parso di capire che da quella porta non entra quasi mai nessuno, e in ogni caso sarebbe bastato chiuderla da dentro per il tempo necessario a farmi da guida.
La scala è stretta, lunga, di pietra; ad ognuno dei tre piani, una porta vetrata si apre su un unico locale, uno stanzone spartano illuminato da grandi finestre solo sulla facciata che dà sulla piazza; le pareti sono interamente rivestite da librerie dove non c’è un solo spazio vuoto; al centro, un tavolo lungo e alcune sedie, null’altro. Tre piani uguali, e dentro non c’era anima viva; persisteva però un blando odore di fumo di legna, vecchio, sbiadito, che ho trovato assai gradevole, come se mi ricordasse un’atmosfera familiare, quella di un tinello, di una cucina forse, in una casa vissuta.
L’ultima rampa, più stretta e disadorna, in pietra viva e senza corrimano, sale ripida al tetto, da cui piove luce azzurra e fresca brezza di mare: sono salita fin lassù, titubante ma obbligata dato che il giovane al pianterreno mi aveva informato che era proprio lì che avrei trovato chi cercavo, anche se non riuscivo a supporre cosa mai potesse fare un bibliotecario sopra un tetto. Varcato l’ultimo gradino, mi sono affacciata su un locale sorprendente, a pianta circolare e luminosissimo in quanto completamente aperto sul cielo tramite vetrate ininterrotte, lungo le quali corre una panca di legno. Al centro, seduto su una poltroncina che non sfigurerebbe in un salotto e intento a osservare dentro un massiccio telescopio, un uomo di cui per prima cosa ho notato il candore dei capelli, e subito dopo, quando si è alzato per farmisi incontro, la serietà dello sguardo e l’armoniosa fattura di un corpo giovanilmente atletico malgrado l’età denunciata dalle profonde rughe del volto. Mi ha salutata con voce grave, mostrando di conoscere il mio nome:
“Baronessa Angelopulos. Ben arrivata, vi aspettavo”.

Diari da Magdenbad, cap. 10

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La scenetta cui ho assistito stamattina mi ha confermato il giudizio negativo espresso da Dimitri su quel Milos Jarov, il sedicente poeta. Si era sistemato a cavalcioni su una panca nei pressi del cancello e aveva davanti a sé una scacchiera sulla quale, più che svagarsi, pareva accanirsi con maligno piacere; i pezzi caduti li spingeva via con gesti di trionfo, ed erano tutti bianchi, uno dopo l’altro, soverchiati dal nero che pareva destinato a una vittoria schiacciante. Vlad stava passando in quel momento col suo passo pacato, diretto alla scuderia e con dei finimenti in mano; si è soffermato giusto un attimo – e con la sua solita discrezione – per buttare uno sguardo al campo di battaglia, ma Jarov ha avvertito la sua ombra e si è girato verso di lui alquanto indispettito, aggredendolo con un tono rabbioso del tutto fuori luogo.
“Cosa c’è da guardare? Sto giocando da solo, e il nero vince!”
Vlad si è scusato con un cenno del capo e si è subito allontanato, ma gli ho colto in faccia un’espressione di lievissimo compatimento: avevo osservato anche io che il bianco stava giocando malissimo e in pratica dava partita vinta all’avversario. E’ evidente che quell’uomo non è solo un cialtrone, ma un disonesto, se è capace di barare anche quando gioca a scacchi contro se stesso. Deve essersi sentito smascherato, perché ha buttato all’aria i pezzi senza finire la carneficina e se ne è andato sbuffando e imprecando. Non ho potuto fare a meno di notare la sciatteria del suo abbigliamento, che sembra non aver visto una spazzola da mesi: scarpe inzaccherate e macchie di sugo sul gilet, ornato da un cipollone molto vistoso ma probabilmente falso come il suo padrone. L’ho visto poco dopo allontanarsi dall’albergo in compagnia di un uomo venuto a cercarlo, un personaggio in barba e pesante tabarro, dallo sguardo sfuggente come quello di un topo; nell’avviarsi parlavano fitto gesticolando entrambi. Vlad ha raccolto e riportato dentro la scacchiera senza un commento, e non ce n’era bisogno: ormai mi conosce abbastanza da sapere quanto io disapprovi i modi arroganti, soprattutto verso chi non è in posizione di potersi difendere, come un servitore.
Per fortuna, questo Jarov si vede poco, in albergo; ai pasti è spesso fuori, e passa quasi tutto il suo tempo in compagnia di certe conoscenze che si deve essere fatto qua in città, presso un paio di circoli privati dove si chiacchiera di politica e si gioca a biliardo, o così ho sentito dire. Dimitri è convinto che si tratti di ritrovi per perditempo, e che la cultura c’entri assai poco; comunque, l’importante è che non siamo costretti a subire la sua presenza invadente, perché c’è indubbiamente qualcosa, in quell’uomo, che mi respinge, e un po’ forse mi intimorisce. Deve essere il sospetto che sia fondamentalmente un millantatore, e le persone bugiarde mi inquietano.
Intanto abbiamo saputo che è imminente l’arrivo di nuovi ospiti: nell’altra ala della locanda, la servitù ha arieggiato alcune stanze, trasportandovi del mobilio e dei bauli. Speriamo si tratti di persone a modo, stavolta, che non ci facciano rimpiangere la tranquillità dei primi giorni.
E comunque, oggi pomeriggio andrò a conoscere la famiglia del dottor Berg e ad ascoltare la musica che si fa in casa sua. Mi rallegra, questo invito, il solo guaio è che non ho ancora deciso cosa mettermi, ma mi affiderò al parere estetico di Dimitri, se si decide a salire per prepararsi: ormai manca poco, eppure lui è ancora in giardino, nella sua palandrana prediletta, quella viola che ama indossare quando è in vena di dipingere, e sta ritraendo un gallo del pollaio. I suoi pennelli lo hanno rivestito di un piumaggio fiero e variopinto  e lo hanno collocato sopra una tettoia splendente di sole, mentre in realtà è un uccellaccio vecchiotto dai colori terrosi come il cortile in cui razzola, ma è straordinario che Dimitri lo veda così, bello, altero e combattivo come il re che dovrebbe essere.

Diari da Magdenbad, cap. 9

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È passato a presentarsi e a offrire i suoi servigi il dottor Berg.
Di lui sapevo solo che è stato allievo del professor Leittner, il quale lo considera brillante medico e persona squisita, e gli ha affidato il compito di sorvegliare dal punto di vista clinico l’andamento del nostro soggiorno. Ora so anche che si chiama Stefan, che è un uomo giovane e piuttosto bello, che sa vestire e muoversi con impeccabile buon gusto e che ama la musica.
La nostra conversazione è stata molto informale, e poco ha toccato il tema della salute, se non per consentirgli di assicurarsi che al momento né Dimitri né io accusiamo disturbi degni di qualche interesse; a questo proposito, ha ribadito in tono molto cordiale la sua fiducia negli effetti benefici del clima marino, che anche secondo lui – che a Magdenbad è nato – è particolarmente indicato per ricaricare di energie le persone infiacchite da una vita troppo sedentaria. Mi ha raccomandato di passeggiare ogni giorno all’aria aperta e di adottare un certo ritmo respiratorio, ampio e profondo (me ne ha dato un esempio chiarissimo), per ottenere la migliore ossigenazione di tutto l’organismo, o così mi pare di aver capito. A dire il vero, da quando sono qui mi sento già meglio, avverto una specie di leggerezza non solo nella mente ma anche nelle membra, come se l’aria schietta di questo vasto cielo sgombro mi stesse pian piano disintossicando di qualche veleno assunto inconsapevolmente in città. E anche Dimitri non ha molto di che lamentarsi: pur senza affanno, si tiene in movimento, mosso da continue curiosità, e a quel che vedo le sue articolazioni se ne giovano almeno quanto il suo umore. Appena entrato in possesso degli stivali nuovi, ha voluto provarli sulla spiaggia, e poi anche su alcuni scogli bassi dove abitano i gabbiani: gli artigiani del bosco hanno fatto un ottimo lavoro, poiché ho verificato (da lontano, impedita dalle mie calzature troppo leggere) che le suole hanno una buona presa anche sulle rocce scoscese, e non ha corso alcun pericolo. Alla prima occasione dovrò procurarmi anche io un paio di scarpe da passeggio adatte a questi posti; peccato non averci pensato prima, avrei potuto chiedere a Vlad di ordinarle per me, e perché no? anche delle pantofole ricamate da casa, per le serate fresche.
Il dottor Berg ha un aspetto più che piacevole; è biondo, di corporatura armoniosa, ha belle mani (e splendidi guanti!) e voce educata, che sembra fatta apposta per infondere fiducia in chi gli si rivolge. Ha un approccio estremamente pacato, sembra sempre sul punto di sorridere, come chi ha in mano la situazione e non teme di lasciarsi sopraffare, cosicché trasmette serenità e sollievo. Anche il professor Leittner è dotato di grande umanità e sa mettere a proprio agio, tuttavia in lui è sempre presente un atteggiamento grave, concentrato, a volte anche accigliato; non nasconde le sue preoccupazioni, al contrario è come se, nel manifestarle, pensasse di dimostrare meglio ai suoi pazienti l’interessamento che prova per i loro problemi. Lo conosco fin da bambina, il caro Leittner, e mi è sempre stato vicino come un tutore; ho per lui un vivissimo affetto e una stima assoluta, soprattutto per la pazienza con la quale ha accettato la sventura di una moglie invalida, che è sempre al centro dei suoi pensieri e gli infonde un’aria di mestizia e santità.
Nel congedarsi, il dottor Berg mi ha invitata a casa sua domani pomeriggio per un po’ di musica, sollecitandomi a perseguire, in questo soggiorno di cure, non solo la tranquillità dell’animo ma anche qualche svago della mente.
“Lei – mi ha detto – ha bisogno di ritrovare serenità, ma mi creda: nulla le gioverebbe più di qualche stimolo, qualche novità che la ritempri dalle opprimenti consuetudini cittadine. Niente di stancante o di troppo formale: le propongo qualche conversazione e un po’ di buona musica, tra amici. Conoscerà mia moglie Lise, che ha più o meno la sua età; è lei che suona il pianoforte, sa?”
Mi sono stupita di me stessa per l’emozione che ho provato nell’accettare questo invito.

Diari da Magdenbad, cap. 8

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I violini e le armoniche di ieri sera, Dimitri me ne ha raccontato per filo e per segno. Erano musicisti passati a brindare da Rubin (“suonano e bevono con la medesima gaiezza“) mi ha riferito testualmente) dopo una riunione per le prove, le prove di una festa popolare che si terrà a giorni. La gente del posto ha questa antica tradizione: celebrano l’arrivo della primavera l’ultima notte di marzo, rievocando una leggenda dei boschi che racconta come siano le fate a decretare la fine dell’inverno scendendo nottetempo alla spiaggia e bagnandosi nel mare. Per asciugare i loro vestiti, vengono accesi falò e ci si danza intorno; ecco la bella gonna nuova di Lilia a cosa è destinata, ed ecco perché i suonatori ripassano sui loro strumenti le ballate del passato.
La popolazione tiene molto a questa ricorrenza, malgrado i preti la condannino per paganesimo e la esorcizzino, il mattino della domenica, con un Te Deum in cattedrale per purificare con benedizioni ortodosse il cambio della stagione. Nelle case si impastano pagnotte dolci nascondendo all’interno un confetto, e il bambino che lo troverà nella sua porzione sarà detto fortunato per tutto l’anno; gli uomini rilucidano gli attrezzi da lavoro e li espongono per un giorno fuori dagli usci, per celebrarne la fierezza; le donne danno aria agli scialli da festa e si pettinano a vicenda con diademi di trecce.
Dimitri si infervorava, nel fornirmi questi e molti altri particolari; quasi che all’avvenimento avesse già assistito, quasi fosse un suo ricordo fiammeggiante. Forse lo riscaldava rievocare i bicchieri scambiati con i musici, ieri sera; questo senz’altro, temo. Ma più ancora credo che si stia figurando la festa con la partecipazione del pittore, che già vede e colora nella mente le immagini solo suggerite e le fa proprie come soggetti di quadri che la sua mano non potrà fare a meno di dipingere. E in effetti mi ha citato certi fiamminghi cui è devoto, dei quali evocava scene popolari affollate e movimentate, ricche di folklore, di dettagli, di colori accesi. Non sono molto esperta, lo riconosco; tuttavia ho sempre visto Dimitri esprimersi in dipinti di dimensioni e contenuti più limitati, come ritratti (alcuni anche miei che amo molto e che mi lusingano di un colorito assai più primaverile di quello che mi è solito) oppure nature morte in cui mette tutta la sua malinconia o ancora paesaggi immaginari rivestiti di poesia e mestizia, che sospetto gli tornino dalle sue memorie strapazzate, dal suo passato randagio in cui i posti e le vedute hanno perso per la strada il nome e la data per trasfigurarsi nei sogni tormentati della nostalgia. Mai gli ho visto dipingere l’allegria, la vivacità, il disordine della vita; mai. Ecco, forse i racconti dei musicisti, ieri sera, gli hanno ispirato il desiderio di inventare una fiaba di fate e faville e balli in costume, da illustrare a modo suo come gli piacerebbe fosse, come vorrebbe viverla. Gli ha risvegliato la fantasia, l’annuncio della festa. E’ un bene, è un piccolo miracolo; mi sono tanto augurata, per lui, un ritorno di energia creativa, e per me la serenità per starla ad osservare.

Diari da Magdenbad, cap.7

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Da dietro le siepi del “Prinzess Sofia” si udiva il battere di martelli e lo stridere di seghe. Lilia si è fatta riconoscere, e il caposquadra si è affrettato al cancello per farci entrare scappellandosi e inchinandosi come un maldestro maggiordomo. Ci è stato permesso di visitare il parco a nostro piacimento, ed è stato un gran bel e quieto passeggiare, fra quei vialetti e quelle fontane spente e i pergolati spogli e i boschetti di forsitzie, le prime a fiorire, in giallo splendore. Alcuni operai stavano ristrutturando le scuderie; nell’aria si distinguevano profumo di sottobosco e odor di segatura e vernici, molto stimolanti. Abbiamo individuato un gazebo in pietra arredato con panche dalle zampe leonine, dove il sole, fra le magnolie, gettava una larga cascata di luce e un tepore inaspettato, tanto che mi sono liberata dei guanti e ho abbassato la tesa del mio cappellino di velluto per ripararmi gli occhi dal riflesso. Di sghembo si vedeva il portico d’ingresso, vasto, arioso e momentaneamente deserto laddove è facile immaginare, in estate, affollarsi tavolini da tè e poltroncine di vimini per gli ospiti. L’albergo è assai spazioso, su quattro piani con balconate adorne di aste per bandiere e bassorilievi mitologici, con un numero incalcolabile di finestre, abbaini, comignoli; in piena stagione, vi si svolge una intensa vita mondana punteggiata da banchetti, concerti, ricevimenti danzanti, spettacoli serali, tutta un’animazione di villeggianti ricchi e abituati a essere serviti e assecondati senza risparmio. Li ho visti, con gli occhi della mente, signori altezzosi con sigari e lucide scarpe, e dame in sfoggio ininterrotto di tenute da giorno, da sera, da passeggio, da riposo, i loro bei cappelli, le gioie sfavillanti al collo e ai polsi, gli occhialini sui nasi arcigni, le risate signorili all’alzare di coppe e calici, le cappelliere e le sacche di camoscio portate di qua e di là da domestici trafelati, a volte storditi dall’incomprensibilità di qualche capriccio, lo spreco di vasellame a stemmi per ogni minima ordinazione, i violini notturni alla luce di decine di torce attorno alla vasca adorna di marmorei tritoni.
Queste fantasticherie – una sequenza di immagini troppo rapide, troppo affollate, troppo abbaglianti – mi hanno procurato un lieve capogiro, e le ho scacciate da me, per ritrovare visioni più riposanti: i bianchi muri, le grondaie lucenti, le aiole dissodate, i sentieri arcuati, il deserto di passi e rumori, il solo frusciare della natura con gli uccelli che esplorano sereni i tenui rami della nuova vegetazione. E’ chiaro che è per questo che sono venuta qui: per allontanarmi dagli eccessi stancanti di città, dai suoi obblighi mondani ai quali partecipo già così raramente e solo per dovere, assecondata da un Dimitri sulle spine e tuttavia devoto nello scortarmi anche a costo di sprecare nella noia dei convenevoli certe serate che preferirebbe trascorrere giocando a scacchi con me, o dipingendo. E’ così restio a vedere gente! Eppure ha alcuni amici, tutti secondo me persone piuttosto eccezionali, fuori dalla norma, interessantissime; li frequenta quasi di sfuggita, accettando incontri in qualche caffè ai quali si reca con occhi febbrili come per l’ ingiustificata fretta di concludere una pratica che lo mette in agitazione. Per porlo a suo agio, talvolta ne invito qualcuno a casa, e mi prodigo affinché l’atmosfera del mio salotto sia la più propizia possibile, occupandomi personalmente di servire pasticcini e bevande e incoraggiando la conversazione; poi mi allontano per non essere di imbarazzo, e in quelle circostanze mi è capitata a volte la soddisfazione di sentir richiudere il portone dietro l’ospite a un’ora molto tarda. Si tratta perlopiù di artisti come lui, pittori o letterati, e come lui di animo libero, del tutto estraneo alla futilità e alla presunzione. Dopo queste visite, sul tavolino resta un maschile disordine di libri aperti, fogli di taccuino con schizzi a penna, mozziconi di sigari e, ahimè, bottiglie – svuotate – di ottimi distillati esteri.

Diari da Magdenbad, cap. 6

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Dice Dimitri che ieri sera mi sono persa un tramonto bellissimo. Anzi, lo ha definito eccellente, come uno chef che dalla prima portata pregusti il seguito di un pranzo di sopraffina qualità. E in effetti stamani il cielo si è presentato soleggiato fin dal primo mattino, tanto che dai terreni in altura si è suscitato il vapore luminoso della brina in disgelo. In calma di vento e aria serena ci siamo avviati a piedi lungo la litoranea, in direzione dei grandi alberghi ancora chiusi; Lilia ci seguiva nel suo scialle qualche passo indietro, portando una coperta nel caso avessimo voluto sedere su una panchina. Sul lungomare non c’è ancora passeggio, poiché è una strada occupata quasi soltanto da costruzioni residenziali destinate alla villeggiatura estiva; ogni pochi passi, cespi di oleandri imbruniti dall’inverno danno i primi segni del risveglio, e alcuni giardinieri erano intenti a rincalzarne le radici e a spazzare il seccume.
Vlad è sparito da ieri pomeriggio, per via di quegli stivali. Si è recato a un piccolissimo paese a qualche ora di cammino, oltre le colline, là dove si estende una boscaglia impervia e priva di buone strade, poiché non ci va mai nessuno. Sono poche casupole di stampo molto antico, a pianta circolare: un unico locale tutto attorno a un camino, coperto da un tetto spiovente di fango e frasche, molto caratteristico. Gli abitanti, pochi ma tutti indistintamente, si dedicano notte e giorno alla lavorazione di pellami, e ne sono espertissimi; confezionano a mano, con grossi aghi e affilati taglierini, ogni sorta possibile e immaginabile di calzature. Gli uomini ritagliano tomaie e sagomano suole e tacchi, le donne imbottiscono di pelo i modelli invernali e sono famose per le rifiniture a ricamo o a nappine. Dal paese-laboratorio escono zoccoli da cortile, stivali da caccia o da viaggio, polacchine da passeggio, babbucce foderate di calda lana, quali in pelle lucida e quali opaca o rovesciata, morbidi oppure robusti secondo la destinazione, decorati con nastri per le signore e i fanciulli o con semplici lacci per gli uomini; non seguono la moda, che lassù è del tutto ignorata, bensì il criterio della praticità, della solidità e della durevolezza, ma, se prevenuti da un cliente venuto apposta da lontano, sanno estrarre dalle loro mani anche stupefacenti stravaganze, modelli unici, piccoli gioielli d’arte. Quando hanno ultimato una certa quota di lavoro, uno di loro, che sa leggere e far di conto, si incarica di portare i prodotti finiti ai mercati della regione, in sacchi da granaglie e su un carretto tirato da un asino che non si lascia scoraggiare dall’ostilità dei tratturi; questi viaggi non hanno cadenza regolare, sono legati al caso, cosicché non si è mai certi di quando le famose scarpe cucite dagli artisti dei boschi saranno disponibili nelle piazze dei paesi. Ma quando, la mattina presto, dopo un trasferimento notturno fra le pietraie, compare mantellato il venditore, ecco che ogni massaia, ogni dama, ogni madre e nonna e i loro uomini contadini oppure signori, pescatori e notai, artigiani e speziali, financo i monaci dei monasteri o gli attendenti degli ufficiali di guarnigione, ecco che tutti si affollano attorno a quelle stuoie, quei sacchi rovesciati, quel ben di Dio di scarpe e pantofole per tutti i gusti e le necessità, e alla fine della mattinata nulla rimane invenduto e nuove commissioni vengono intascate dall’uomo dei boschi, per accontentare nuovi compratori la volta successiva.

Diari da Magdenbad, cap. 5

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Ieri sera – forse un risentimento tardivo dei disagi del viaggio, oppure l’eccessiva esposizione della mattina al nuovo clima – mi era salita una piccola febbre; non preoccupante, ma tale da indebolirmi le gambe. Mitija è rimasto a tenermi compagnia in camera, dove ci siamo fatti servire un tè che per me ha poi rappresentato anche la cena; lui invece, sebbene dopo molte insistenze e l’assicurazione che Lilia lo avrebbe sostituito, è sceso in sala, dove lo avvertivo attirato non solo da un certo consolante appetito ma anche dalla curiosità di udire meglio una strana musica zingara che saliva da sotto.
Mi annoiavo. Ho detto a Lilia di passarmi, uno dopo l’altro, i pochi libri che mi ero portata da casa, e li ho sfogliati svogliatamente cercando distrazione. Ad un certo punto, ho anche provato a leggerle una poesia francese, ma non è stata una buona idea, perché non avevo riflettuto sul fatto che la povera ragazza potesse ignorare quella indispensabile lingua. Vedendola imbarazzata, ho avuto un’idea migliore: le ho chiesto se avesse per caso qualche lavoretto di cucito da farmi vedere, e stavolta mi è andata bene. E’ corsa a prendere un involto dal quale ha estratto un taglio di stoffa e un cuscinetto di aghi; si tratta di una sottana di panno verde alla quale vuole applicare delle bordure decorative multicolori, e mi ha fatto vedere i nastri e le passamanerie che aveva scelto al mercato. Molto graziosi e variopinti, devo dire. L’ho incoraggiata a riprendere il suo lavoro in mia presenza, e intanto le ho rivolto alcune domande, alle quali tuttavia ha risposto con impaccio e troppa brevità, come succede quando si tenta una conversazione fra persone di ceto diverso. Le scarse cose – e succintamente esposte – che mi ha narrato di sé sono presto dette: di famiglia contadina e numerosa, unica femmina in uno stuolo di fratelli maschi, è stata messa a servizio ancora ragazzina per offrirle qualche opportunità di riscatto dalla scomoda vita di campagna, oltretutto sguarnita di istruzione. Alla locanda Rubin si presta a molteplici mansioni secondo le esigenze stagionali, e ne ricava un modesto salario, variabile anch’esso in base all’entità del lavoro; questo incarico inatteso – occuparsi di un’ospite particolare a tempo pieno – le frutterà una piccola somma settimanale imprevista, e soprattutto le riempirà certe ore di ozio durante le quali la nostalgia di casa le si fa più forte.
Indubbiamente, la modestia del suo carattere, unita a quella che si potrebbe definire la monotonia della sua vita, non si prestano a una vera conversazione, così ho preso la parola io e ho cominciato a raccontarle della città, del viale Granduca Teodoro coi suoi olmi centenari che ombreggiano le austere palazzine, della mia che fra tutte non è la più grande ma nemmeno la più piccola, con il portico leggiadro e le file di finestre e il giardino ornato di statue mitologiche. La piazza con i suoi animati caroselli di carrozze, le ho descritto, e i grandi caffè del centro dalle vetrate appannate, le sontuose pasticcerie affollate di dame, il passeggio davanti alle ambasciate, il parco reale con l’azzurro lago dei cigni bianchi e neri che d’inverno ghiaccia e vi pattinano i bambini; i muri di neve che si accumulano ai bordi delle strade, solcati dagli spalatori che vi aprono vialetti per accedere ai cancelli; le facciate imbandierate dei Ministeri, presidiati da guardie reali in uniforme rossa e blu che si danno il cambio tre volte al giorno sotto gli occhi ammirati di patriottici cittadini, il cannone che dall’altura del castello segna sonoro il mezzogiorno, mettendo in fuga i piccioni dai sagrati delle basiliche, che subito vi tornano a posarsi, trovandovi a tutte le ore il becchime secondo le caritatevoli disposizioni lasciate in testamento dalla compianta principessa Sofia… Nell’udire questo nome, la figliola ha rialzato vivacemente il capo dal suo cucito per annunciarmi che il maggiore albergo di Magdenbad proprio di lei porta il nome: “Prinzess Sofia”, c’è scritto sulla facciata, in lettere d’oro, e d’estate è frequentato dagli ospiti più lussuosi che vi si dedicano a frequenti balli e tornei di tiro con l’arco. Si è deciso che passerò a visitarlo quanto prima, anche se solo dall’esterno poiché in questa stagione rimane chiuso; ma forse potrei essere ammessa a una passeggiata nel parco, dato che i lavori di ripristino sono cominciati in questi giorni, e uno dei fratelli di Lilia vi partecipa nella squadra dei falegnami.
Quando, più tardi, è passato a salutarmi un Dimitri di umore ancora acceso come la mattina, gli ho accennato al programma, e lui, prima di congedarsi per lasciarmi riposare la febbricola in un buon sonno, mi ha anticipato per l’indomani il resoconto di una serata che deve averlo alquanto divertito. Grazie anche a una tisana che mi ha mandato di sopra l’accorta signora Olga, mi sono addormentata avvolta da un confortevole abbraccio di dolcezze domestiche, come se qua già mi sentissi ambientata e pronta ad approfittare, giorno dopo giorni, delle gioiose sorprese di una nuova vita.

Diari da Magdenbad, cap. 4

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“Mitija!”
Il richiamo, soffocato, mi è uscito intrattenibile nel vedere il mio amico allontanarsi verso la riva con goffi saltelli che gli rendevano instabile il colbacco; laggiù in fondo, dove ormai con l’aria del mare nelle orecchie non poteva sentirmi, si è messo a braccia larghe quasi ad afferrare la vastità, ed è veramente vastità ininterrotta, niente a che fare nemmeno con i maggiori slarghi del nostro fiume, del quale solo la nebbia più fitta impedisce a giorni di vedere la sponda opposta.
Vlad ha colto tutta la mia preoccupazione e mi ha lanciato uno sguardo rassicurante, poi si è diretto con passi posati verso il suo protetto per tenerlo d’occhio più da vicino, ma senza interferire con quel suo momento di beatitudine; si è fermato a metà strada fra me e lui, le gambe ben piantate, le braccia conserte, ed è rimasto a sorvegliarlo mentre lo guardavamo entrambi (e io trasecolavo) passeggiare agitato in su e in giù giusto sulla linea di risacca, e talora chinare la sua dolorosa schiena per raccogliere qualcosa dalla rena molle. C’era qualcosa di miracoloso in quell’improvvisa vitalità, una folata d’aria forte che snebbiava le paure e i vincoli. Se non ricordo male, è stato proprio in quel momento, mentre i miei piedi cominciavano a intirizzire negli scarpini lucidi e le mani si intrecciavano più nervose sotto il manicotto, che la luce ha cominciato a cambiare, a schiarire, a disperdere il tono uniforme del grigio mare e a infondergli l’inizio di qualche incerto baluginio. Alle mie spalle, la densità nuvolosa del cielo si stava smagliando lungo l’arco delle colline, e qualcosa – vetro o metallo – dava i primi scintillii sui tetti della guarnigione. I raggi di un sole modesto ma franco mi hanno raggiunta, e il senso del tepore si è impadronito di me in pochi istanti, sciogliendo un altro po’ del gelo che mi porto dentro.
Quando si è deciso a tornare, Dimitri aveva le guance più rosee e un sorriso beato, ma le scarpe, Dio mio le sue scarpe! Infangate come quelle di un contadino, e quel che è peggio bagnate. E lui, buffo e quasi inorgoglito, si è appoggiato a Vlad per mostrarmi, una dopo l’altra, le suole fradice come un trofeo.
“Dovresti procurarmi qualcosa di più adatto – ha dichiarato al suo attendente – Un paio di stivali come i tuoi, robusti, che tengano caldo. Non importa che siano belli; mi basta che siano comodi”
“Imbottiti, allora. So dove trovarli – Vlad ha assentito con fare molto serio. Senz’altro approva che un cittadino esprima un po’ di buon senso.
Poi, rientrando in calesse, Dimitri continuava a parlare (“Ah, Aglae, sapessi!…”), a descrivermi l’ebbrezza provata, il fruscio dell’acqua, il suo buon odore, e cercava di convincermi della vitalità trasmessa dalla mollezza della rena sotto i passi, come di una creatura vivente, come di creta plasmabile per diventare forma e movimento. La sua era una piacevole eccitazione. Si è sporto in avanti più volte  a tirare Vlad per la giacca e fargli domande, impartirgli disposizioni:
“Una volta mi devi accompagnare al porto, a vedere i pescherecci, intesi? Voglio vedere i pescherecci, voglio provare a dipingerli”
Vlad annuiva senza voltarsi, conducendo il cavallo con andatura regolare.
“Sai, io il mare – mi ha confidato – l’ho visto una volta sola, da bambino. Ho visto un porto militare, pieno di navi da guerra e marinai. Tutto molto cupo, molto allarmante. Il mio padrino, mi ci ha portato; lui era in Marina, ma gli piaceva più il ferro, l’acciaio, i cannoni, che non i colori del mare. Io invece voglio vedere le barche da pesca e voglio dipingerle. Anche i gabbiani, voglio dipingere; e il pesce nelle casse e le reti stese. E i pontili di legno. E conchiglie, molte conchiglie!”
Quando è di buon umore, è adorabile come un fanciullo, il mio instabile Dimitri. E di nuovo ricordava a Vlad la commissione:
“Gli stivali, eh, mi raccomando, ragazzo”.
Gli ho fatto notare che ragazzo proprio non è, avrà almeno l’età del professor Leittner; ma Mitija era così contento, così gioioso:
“E con questo? E’ un bravo ragazzo, lo sento”.
Devo dire che è vero, Mitija certe cose le sente, e sulle persone raramente si inganna. Forse mai.
A pranzo abbiamo conosciuto un altro ospite. Soli al nostro tavolo, stavamo dispiegando i tovaglioli quando, preceduti da un prolungato trapestio e abbaiar di cani, hanno fatto ingresso alla “Nordsee” Rubin e un nuovo personaggio, evidentemente di ritorno da una partita di caccia: ho intravisto il padrone consegnare della selvaggina a uno sguattero prima di raggiungerci per fare le presentazioni. L’ospite – un uomo di mezza età piuttosto rumoroso e dal ventre sporgente – si chiama Alois Jarov, e nel fare la nostra conoscenza ha disperso molte entusiastiche energie in un discorsetto fiorito di complimenti. Sembrava giubilante per il nostro arrivo, forse perché gli forniva l’occasione per parlare anzitutto di sé, e con goloso sussiego; la parola più ricorrente, tra un “Signora Baronessa” e l’altro, è stata “poeta”, perché come tale ha tenuto a presentarsi, e ha ribadito il concetto fino a farsi ben certo che lo avessimo debitamente assimilato. Ho notato con imbarazzo lo sguardo lievemente canzonatorio che Dimitri non gli ha staccato di dosso, e più ancora ho provato disagio quando, tornati soli, gli ho sentito sibilare “Cialtrone…” mentre, a testa bassa, attaccava il suo piatto.
“Ma Mitija, come puoi…”
“Scusami, Aglae, ma so quel che dico. Quello è un cialtrone. Lo conosco di fama, fidati”.
Non ha sprecato molte parole, ma quelle poche sono state illuminanti; pare che il soggetto in questione sia più che altro un ozioso e un millantatore – due atteggiamenti che Dimitri ha sempre condannato con inusitato furore – noto in alcuni ambienti culturali del nord per una sgradevole diatriba con intellettuali di rango circa il valore di quelle che boriosamente definisce “le sue poesie”. La sua presenza qua, all’estrema periferia del Regno, praticamente in esilio, sarebbe motivata non tanto da un suo desiderio di raccoglimento per meglio seguire la sua ispirazione, quanto invece dall’opportunità di sottrarsi al feroce dileggio di cui lo avevano fatto bersaglio i critici più autorevoli, con i quali Dimitri, che di letteratura ne sa, si ritrova intimamente schierato.
“Credimi, Aglae: quello, la poesia non sa neanche dove stia di casa. Non farti incantare da un vanaglorioso senza talento”.
Ah, Dimitri, Dimitri… quante volte, amabilmente, mi ha messo in guardia contro la mia ingenuità! Il fatto è che, quando sento solo nominare la Poesia, il mio cuore, che sempre spera nella Bellezza, si intenerisce. Ma darò retta al mio amico, e farò attenzione a imprimere un educato distacco ai miei modi, in occasione dei prossimi inevitabili incontri con quell’uomo.
Durante il pasto, dai vasti vetri ci ha scaldato un sole fattosi ormai saldo nel cielo ripulito. Siamo usciti a scrutarlo, l’azzurro colmo di promesse, prima di salire a riposare; Vlad stava finendo di mangiare da una ciotola – e ne spartiva con alcune galline – seduto su una panca lungo il lato della casa, e intanto Lilia, da dietro una finestra della cucina, ci ha scorti e si è affrettata a mettersi a disposizione. Le ho chiesto il necessario per scrivere, poiché è mia intenzione tenere regolari contatti con la città, con alcuni conoscenti cui tengo ma soprattutto con il professor Leittner, cui devo puntuali resoconti. Mi ha procurato dei fogli di buona qualità, candidi quanto basta e con uno stemma rosso e blu che riporta il motto reale e, sotto, il nome della locanda, “Nordsee”. Qua la posta viene recapitata due volte la settimana, e mi sembra una frequenza soddisfacente; basterà consegnare la corrispondenza a Lilia che la consegnerà a Rubin che a sua volta la consegnerà a persona fidata perché la avvii al treno postale. Il servizio funziona, dicono, ed è possibile ricevere risposta, salvo contrattempi, nel giro di una settimana o poco più.
Ho cominciato a scrivere, ma dal salottino accanto ascoltavo con qualche punta di piacere il delicato tramestio di Dimitri, intento a passare in rassegna le sue cassette di colori; poi, un piacevole torpore mi ha invitata a trasferirmi sulla poltrona, dove mi sono assopita. Non ho sentito il passare discreto di Lilia, che ha accostato le tende e mi ha posato uno scialle sopra le ginocchia. Angelica bambina.

Diari da Magdenbad, cap. 3

Manet_spiaggia

Mi sono svegliata tardi, e forse proprio a causa dell’insolito silenzio. Nella mia casa di viale Granduca Teodoro, la mattina si sentono passare per tempo le prime carrozze che fanno risuonare il selciato; d’inverno, mi è familiare il raschiare dei badili degli spalatori municipali, che liberano la strada dal ghiaccio quando è ancora buio.
Qui, nulla di tutto ciò.
Mi sono svegliata quando il mio corpo pesto dal viaggio si è sentito sufficientemente riposato, anzi disposto a riaccostarsi al cibo, a una colazione confortante. Ho tirato il campanello accanto al letto e Lilia è arrivata quasi subito, come fosse in attesa nel corridoio. Sono rimasta sotto le coperte finché ha aperto le imposte, e subito dopo mi sono alzata per guardare fuori, ben avvolta nella vestaglia pesante dato che la stufa si era spenta. La giornata era grigia, con un cielo denso e basso; grigio e quasi immobile anche il mare, ma così grande, così immenso e deserto oltre la spiaggia grigia anch’essa. La balconata impedisce di vedere di sotto, dove so esservi un cortile con panche e tavolini in pietra; si vedono tuttavia le cime spoglie di alcuni alberi e il cancello che dà sulla strada, sul lungomare. Un carretto è giunto ed è entrato, forse di provviste; alcune voci mi sono arrivate indistinte dal pianterreno.
Avevo fretta di scendere anche io; ho dato sommarie istruzioni a Lilia circa il mio guardaroba (mi aveva preparato un abito inadatto, ma non conosce ancora le mie preferenze) e appena possibile ho lasciato la mia stanza, non prima però di aver preso nota dell’azzurro dei suoi occhi, piccoli e puntuti al di sopra di forti zigomi di campagna. Ieri sera, nella scarsa luce del corridoio, mi ero fatta del suo aspetto un’idea gradevole ma approssimativa. Sulla soglia, mi sono girata per una domanda che mi è venuta spontanea:
“Ma quel Vlad, è forse tuo padre?”
No, non è suo padre, né sono in alcun modo consanguinei, anzi provengono da due paesi diversi del circondario.
Le ho voluto chiedere – mi è sembrato essenziale – anche l’età, e ho appreso che ha diciassette anni, più o meno quelli che mi auguravo; né bambina né donna, cioè sufficientemente plasmabile senza il rischio di esaurire le mie poche energie. Mi aspetto, da questa figliola, una certa luce di intelligenza, pari almeno alla buona volontà che già sembra dimostrare. Credo che avrò tutto il tempo per conoscerla ed eventualmente spronarla a migliorarsi.
Di sotto mi aspettava già Dimitri, rivestito in abiti da città ma con certe borse sotto gli occhi, certe borse… Mi ha baciato la mano con sollievo nel rivedermi, e gli ho fatto confessare le sue difficoltà ad addormentarsi e il molesto indolenzimento che gli tormenta ancora le ossa. Il mio povero amico non dispone di grandi risorse di adattamento, in questo periodo, e gran parte del mio affanno consiste nel vegliare sulle sue fragilità con materna premura, che lui del resto ricambia con una commovente devozione. La saletta era invasa da una luminosità lattiginosa, e le nostre voci parevano echeggiare nello spazio fra i tavoli vuoti; se vi siano altri ospiti, nella locanda, non ho ancora avuto modo di appurare, anche se ritengo che la stagione non sia matura per altri villeggianti. La colazione ci è stata servita dallo stesso Vlad, quell’uomo grande e indecifrabile, con gesti sorprendentemente esperti e delicati; Rubin e sua moglie non erano nei paraggi, forse occupati a dirigere gli inservienti nelle faccende quotidiane, eppure il nostro assistente non ce ne ha fatto sentire la mancanza. Comincio a pensare che abbia almeno un paio di ottime qualità, una delle quali è la riservatezza e l’altra, indubbiamente, l’efficienza. Per esempio, sa quando rendersi invisibile e quando invece intervenire: non ha interrotto la nostra conversazione ma nemmeno ha mancato di tenere d’occhio le nostre tazze e i nostri piattini, rifornendo entrambi di latte e burro prima che ne chiedessimo dell’altro e facendosi da parte subito dopo. Quando ci siamo sentiti sazi, ci ha colti lo smarrimento di programmare il seguito della giornata, e ci guardavamo l’un l’altro sperando in qualche incoraggiante suggerimento; è stato allora che Vlad è ricomparso rispettosamente, annunciando con voce sommessa che il calesse per una visita in città era a nostra disposizione, se lo desideravamo. Io avrei preferito una passeggiata a piedi, seppure breve, ma per riguardo alle rotte ossa di Dimitri ho accettato di buon grado.
Nell’uscire sul cortile, mi ha colpito il confronto fra le impressioni di misteriosa ampiezza che avevo riportato ieri sera nel buio del nostro arrivo e le dimensioni più limitate degli spazi che circondano l’edificio; il cortile permette un certo movimento di carrozze e comprende una zona appartata fornita di sedili, ma è chiuso fra piccole costruzioni basse con tutta l’aria di essere magazzini di attrezzi o di provviste. L’insieme, ai primi di marzo e per di più in una giornata in cui il sole stenta, ha un’apparenza brulla e provvisoria, seppure mitigata dalla vivace presenza di tende ricamate di rosso e di ricchi vasi di ciclamini di fuoco alle finestre.
Con una coperta sulle ginocchia, abbiamo imboccato il lungomare in direzione del centro, presto raggiunto; il viale è affiancato da ville chiuse per l’inverno, dai giardini folti e pietrificati nell’abbandono stagionale. La piazza principale è invece animata e molto festosa, delimitata da palazzine affrescate a colori vivi e decorate da cornicioni fantasiosi; vi circolavano alcune piccole carrozze e dei carri di merci, e un certo passeggio di persone prese dalle loro consuete occupazioni o da incontri di svago. Vlad, senza dilungarsi in eccessive spiegazioni non richieste, ci ha indicato il Municipio imbandierato, più simile a una scuola, e la Cattedrale di Sant’Ermagora, pregevole per biancore e proporzioni, cinta da una cancellata di ferro un po’ funereo con lucide punte dorate su ogni asta. Sulla facciata, una semiluna a mosaico tutto verde, azzurro e oro, che dovrebbe rappresentare un pescatore alle prese con i flutti del mare e gli abitanti delle sue profondità. Di fianco, mi sono compiaciuta nell’individuare la sede della biblioteca, che ho appreso talmente fornita da essere disposta su due piani, più un vasto sottotetto che funge da deposito.
La gente del posto ha un suo modo di vestire che si fa notare; le donne portano fazzolettoni di grossa lana ricamata sul capo – laddove gli uomini si proteggono con giri di sciarpa a turbante – e prediligono fitti disegni orientali per le loro sottane bordate curiosamente di frange. Due signore di ceto superiore, abbigliate invece secondo la moda della capitale che mi è familiare, si sono infilate frettolosamente in una sala da tè, fuori dalla quale si sono disposti, forse avendole occhieggiate, due smilzi ufficiali dell’oziosa guarnigione situata in collina, che, appoggiandosi alle else dei loro ornamentali spadini, parevano esibire il piacere della loro spavalda giovinezza e dell’eleganza delle loro uniformi. Ho pensato con pena al mio lontano fratello Tomasz, e alla corpulenza che ha preso il posto del fascino longilineo e spirituale della sua giovane età; temo da tempo che le sue compagnie femminili siano frutto di scelte sconvenienti, per non dire insalubri, ma non ho alcuna presa su di lui per ridurlo a riflettere sulla piega mortificante che ha impresso alla sua vita.
Esattamente di fronte alla Cattedrale, dall’altro lato della piazza, si apre larga la strada di negozi e ristoranti che sbocca sul mare; in fondo si intravede un portentoso arco di ferro battuto sul quale, in estate, si avvolgono e ampiamente fioriscono – ho saputo – rigogliose piante rampicanti efficientemente curate da giardinieri municipali. Ci siamo fatti accompagnare fin là, preparandoci in ispirito a vedere da vicino il mare che ci è stato promesso come fonte del nostro benessere; laggiù l’aria si è fatta più aperta e lievemente mossa, ma di una temperatura mitigata e soprattutto pervasa di un profumo stimolante, come di cose vive, di fresca novità. Dimitri sembrava aver dimenticato le sue ruggini nello scendere di buon grado, e con passi sghembi ma felici si è avviato verso la spiaggia, lasciandomi indietro al limitare della sabbia nell’imbarazzo di scoprire che le mie scarpe da città non erano il meglio per avanzare su quel terreno friabile e umido. Ho dovuto ammettere con me stessa che Lilia aveva ragione, stamattina, nel propormi un completo più adeguato alle necessità del posto. Sì, penso a lei con gratitudine e meraviglia; penso a lei come a una persona che mi sarà molto utile e vicina. E osservando l’intensità dello sguardo col quale Vlad, in disparte ma vigile, teneva d’occhio la maldestra performance dell’entusiasta Dimitri, ho provato anche per lui un moto confortante di affetto e fiducia.