L’amore ai tempi dei nonni

Mio nonno Anselmo era una bella sagoma. Rosso di capelli, rosso in faccia, rosso il fazzoletto che portava sempre al collo. Rossa e ardente la sua fede comunista, che lo spingeva spesso a manifestazioni esuberanti non solo verbali.
La nonna Beppina, cattolica strettamente praticante, non era però da meno quanto a carattere, e quando diceva NO era NO. E quella sera il NO era assoluto e scandalizzato davanti alla richiesta, peraltro legittima, del suo sposo.
“Mo’ cosa ti salta in mente, proprio oggi che siamo stati a un funerale? – trasecola, interrompendo un attimo il suo rituale riordino dei vestiti prima di coricarsi. In camicia, lunga fino alle caviglie, le maniche con lo sbuffo tirate sui polsi, i bottoni ben chiusi fino al mento, le calze di cotone grosso ancora addosso; le avrebbe tolte solo una volta spenta la luce e recitato le preghiere, mezz’oretta di preghiere che Anselmo sopporta con paziente abitudine.
Il funerale – di quelli in grande, con la fanfara, i cavalli neri coi pennacchi, il gonfalone e la messa solenne – era quello del Venanzi, decrepito maestro elementare di più generazioni. Un sant’uomo, per quanto scorbutico, e a volte – si diceva – intemperante quanto a punizioni fisiche sui suoi scolari.
“Adesso mo’ cosa c’entra il Venanzi, aveva duecento anni e non era mica uno di famiglia! – protesta il nonno, che, ricordiamocelo, all’epoca avrà avuto sì e no un quarantacinque anni ed era uomo di grande vigore e sanissimi appetiti.
“E allora? Merita rispetto. Te non lo sai che è peccato fare certe cose il giorno di un funerale?”
“Certe cose, certe cose… fare all’amore col proprio marito non è mica certe cose, non è mica peccato, non è mica scritto sul catechismo!”
Alt, il catechismo. Su questo terreno minato, la nonna non accetta provocazioni. In piedi, con le mani bellicosamente sui fianchi, accanto al comò con le foto di famiglia e il Sacro Cuore di Gesù, sbotta con veemenza:
“Cosa parli di catechismo te che sei comunista? Dovresti vergognarti, dovresti!”
Il nonno su questo si scalda:
“Sarò anche comunista ma sono un buon cristiano. Ti ho sposata in chiesa, ho fatto battezzare i nostri figli, non bestemmio, non mi ubriaco,  a Natale e Pasqua vengo a messa, all’arciprete ci ho pure riparato il tetto della canonica a gratis, cos’altro devo fare, eh? Mo’ dimmelo te che sai tutto, sai! – e giù a dare pugni sulle lenzuola, a agitare le braccia verso il soffitto.
La Beppina mica molla, eh no.
“Sì, un buon cristiano… senti un po’, da quanto è che non ti confessi? – attacca.
“Mi sono confessato per il matrimonio. Mi sono messo in regola quella volta là, e da allora ho sempre rigato dritto. Peccati nuovi non ne ho da confessare, io. C’ho mica tempo per fare peccato, io, tutto il giorno a lavorare nei campi per mantenere la famiglia!”
Su questo ha ragione, la Beppina lo sa. Diciotto anni di matrimonio, la miseria in tempo di guerra, quattro figli da crescere, e lui, l’Anselmo, sempre a spaccarsi la schiena per loro, per lei, che la portava in palmo di mano.
Ma stasera ha un genio maligno che la pizzica sotto pelle, una voglia di litigare che non se la ricordava da anni, da quando erano giovani e lui la faceva arrabbiare perché le entrava in cucina con gli stivali della stalla.
“E i pensieracci, li hai confessati anche quelli?”
È un colpo basso, tirare in ballo le tentazioni della carne. Ma la Beppina ben conosce il temperamento sanguigno degli uomini del paese, e non resiste a giocarsi quest’ultima carta.
L’Anselmo reagisce strano, quasi perdendo il fiato. La sua voce è più sommessa, ora, e piena di dolore:
“Beppina, cosa dici. Io a te ti voglio bene, non ti ho mai mancato di rispetto, non ti ho mai tradito. Questa cosa qua te la potevi proprio risparmiare… – è improvvisamente smontato, la collera è passata in delusione, la frecciata lo coglie innocente, indifeso, incompreso. È lui a sentirsi tradito, in questa strana scaramuccia che sta prendendo una piega squallida.
“Beh, non dico tradito, ma non venirmi neanche a dire che le belle tose non le guardi quando passano, eh – cerca di rimediare la Beppina, con una voce scontrosa. E, malauguratamente, aggiunge:
“La Gisa, tanto per dire…”
All’Anselmo gli si riaccende in un attimo tutto il fuoco:
“Ah no, la Gisa no, non la devi neanche nominare la Gisa! La Gisa era una brava ragazza”.
E la Beppina, che si è già pentita, si morde le labbra e si scusa:
“Hai ragione, non dovevo, m’è scappata…”
Ma ormai la frittata è fatta. L’Anselmo la chiude lì:
“Basta, mi hai fatto passare la voglia – e si gira sul fianco tirandosi le lenzuola fin sulle spalle e lasciando la moglie contrita e imbarazzata a cercare con lo sguardo un po’ di indulgenza nell’immagine dell’Assunta sopra il letto. Ma l’Assunta la rimanda al Sacro Cuore di Gesù sopra il comò, e quello la rimbalza alla foto in cornice del loro matrimonio, con quel vestito goffo e accollato che somiglia tanto alla camiciona da notte di oggi. Forse è quella la risposta.
“Oltretutto – riprende l’Anselmo guardando il muro – secondo me sul catechismo c’è scritta un’altra cosa. C’è scritto “saranno una carne sola”. E allora sai cosa ti dico: che sei te a fare peccato. Bon, buonanotte”.
La Beppina non sa cosa fare. Quello che vede del marito è la nuca sopra il colletto liso del pigiama, quella striscia di pelle scottata dal sole e quei primi capelli grigi fra i ricci rossi che le fanno tanta tenerezza.
Le vien da pensare alle creature, i miei zii e zie fra i quattro e i quindici anni che dormono nello stanzone di fianco, due per letto, uno da testa e uno da piedi. All’Anselmo quando era sui monti con i partigiani e ogni tanto scendeva giù a notte fonda rischiando la vita solo per salutarla e spiare i bambini addormentati.
Smorza la luce e si infila a letto attenta a non smuovere troppo le lenzuola. A occhi chiusi, nel buio pieno di lucine che pulsano al ritmo del suo sangue, prova a dire un Pateravegloria più sentito del solito, si fa tre volte il segno della croce, bacia il rosario, lo mette sul comodino.
“Peccato per peccato… – pensa.
E la sua mano, leggera come quella di una timida sposa, cerca la spalla del marito.

Nove mesi dopo è nata mia madre, ed è stata lei a raccontarmi questa storia quando sono diventata grandicella e ho cominciato a farle certe domande su come nascono i bambini. Lei dice di aver sentito tutto dall’ovetto dove stava, in attesa di due genitori che la venissero a prendere. E io, adesso che sono incinta, non credo che se lo sia solo immaginato.

*   *   *

Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
Dario con Lisa Borletti
Dario con Turi Pappalardo
Dario con Lucevan li occhi suoi più che la stella
Gordon Comstock con Il peccato più grande
Fulvia con Biancaneve
Hombre con Present continuous
Gabriele con Cave cave Deus videt
Angela con Pensiero stupendo
Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi 
Pendolante con Generazioni 
Michela con Apple
Cielo con Il pantone. Altro che rosso
Lillina con Iago
Hombre con I primi nove venerdì del mese
Calikanto con Tabarin 
La Donna Camèl con La casa rossa
Leuconoe con Sogno di un pomeriggio di mezz’autunno
Marco con Il treno rivelatore
Kermit con Aspettando Geova
Singlemama con La Messa della domenica

Red velvet

Quinta ginnasio, quest’autunno sono passata dai calzettoni alle calze di nylon, ma per il resto poco è cambiato: cerchietto fra i capelli, gonna scozzese a pieghe e si esce solo il sabato pomeriggio, ma entro le sette a casa.
Con i compagni si va al cinema: il biglietto si porta via quasi tutta la paghetta, ne resta sì e no per un astuccio di caramelle. Sono sempre i maschi, vocianti e sguaiati, a decidere cosa si va a vedere, e sono sempre film western o d’azione quelli che scelgono. Noi femmine ancora non conosciamo il potere innato di influenzarli, e li seguiamo un po’ passive. Col nostro pezzettino di carta in mano passiamo sotto il controllo dell’addetto, che finalmente scosta la cortina di velluto rosso che per noi rappresenta una specie di frontiera iniziatica da varcare col batticuore, e ci lascia entrare nella sala. Occupiamo un’intera fila tra le ultime, sparpagliando cappotti e ombrelli e spintonandoci come a ricreazione. I maschi cominciano subito a mimare le scene, simulando sparatorie e scazzottate e disturbando tutti mentre noi ragazze, annoiate, sbucciamo caramelle fino a riempirci la bocca di un sapore di saponetta che se ne andrà via solo l’indomani.
Per tutto l’inverno va così, il sabato a fare gli spacconi al cinema e la domenica a studiare greco e latino.
Verso primavera si sono formate alcune maldestre simpatie, e la fila si sgrana: un paio di coppiette si siedono più in là e guardano il film le mani nelle mani, gli occhi lucidi di emozione nel buio della sala.
Quando esce Il dottor Zivago, noi femmine ci coalizziamo e per una volta riusciamo a imporci. Il film è corposo, le balalaike spezzano il cuore, i paesaggi ipnotizzano. Quando Yuri, sotto una tormenta di neve, scorge da lontano tre figure e le raggiunge, stremato, per scoprire che non sono i suoi cari ma tre estranei, i maschi hanno un bel ridacchiare, ma sono commossi anche loro.
Stella si è appartata due file dietro, nell’angolo più oscuro, con Sergio della 1A. Quando usciamo è molto tardi perché il film è lungo, e abbiamo tutti i volti in fiamme, ma i suoi occhi sono i più lucidi, sul suo viso le chiazze rosse sono le più rosse. Mi prende per il braccio e mi chiede di accompagnarla alla fermata.
“Se ti dico una cosa, mi prometti di tenere il segreto?”
“Certo”.
E lei, mentre ci affrettiamo verso la fermata dell’autobus, continua:
“Sai, io e Sergio…”
“Sì?”
“Io e Sergio…”
“Vi siete baciati? È questo che volevi dirmi?”
Ho ancora uno strano calore alla nuca al ricordo dei baci di Yuri e Lara, immagini così vivide e in primissimo piano da mettere in imbarazzo.
“No, di più”.
“Di più cosa?”
Lei non risponde, e io sento il cuore che parte in una tachicardia molesta.
“Avete fatto l’amore? – chiedo, con una voce che non riconosco come mia perché ha pronunciato per la prima volta una frase proibita, da adulti, nebulosa nel contenuto ma intimamente perversa. L’amore che conosco è quello di Giacomo per Silvia o di Didone per Enea, incorporeo, pudico, fatto di parole sublimi che si fermano sull’orlo di un abisso recondito. E le ragazzine per bene si fermano anche loro, perché è ancora troppo presto per saperne di più.
“Non proprio, ma quasi. Gli ho fatto quella cosa che sai – rivela Stella, che sembra non vedere l’ora di vuotare il sacco.
Solo che io non lo so proprio, non immagino nemmeno lontanamente cosa possa essere quella cosa di cui parla.
“Ma sì che lo sai, quella cosa che piace tanto ai ragazzi… Dai, non puoi non saperlo, non puoi essere così ingenua! – e ridacchia, ma male.
Arriva l’autobus, lei mi stacca e lo prende al volo, raccomandandomi ancora il segreto.
Torno a casa frastornata e febbricitante, con la sensazione di aver offerto un’inetta, inconsapevole complicità a qualcosa di orribile, una colpa abbietta, un peccato immondo.
Ma il segreto, che con me è al sicuro perché non l’ho capito, è anche nelle mani di quel bastardo di Sergio, che non ha perso tempo a vantarsene con mezzo mondo, così finalmente ci arrivo anche io, da mezze frasi, battute spinte e disegnini osceni che girano tra i banchi il lunedì alla prima ora.
Stella, come al solito in ritardo, fa il suo ingresso in classe con una nuova spavalderia, guardando dalla parte dei maschi con un’aria provocante e da quella di noi femmine con un sorriso di superiorità. Io sono rossa come il fuoco e provo un odioso formicolio su tutto il corpo. Quando mi si siede vicina mi scosto e evito ogni contatto. Presto si rende conto che anche le altre l’hanno giudicata ed esiliata, e il suo trionfo si smonta in un bagno di vergogna che la consegna, del tutto indifesa e indifendibile, al dileggio volgare dei maschi.
La compagnia si disgrega, il sabato non ci si incontra più sotto i portici. Ognuno trova altri giri, altri legami, e la breve stagione dell’innocenza si stempera altrove, cercando di dimenticare il modo increscioso con cui si è conclusa.

Ho diciotto anni, porto i collant di Mary Quant e ho un ragazzo a posto, terz’anno di lettere, che il sabato pomeriggio fa il catechista. Mia madre lo approva perché è serio e di buona famiglia.
Usciamo la domenica e passeggiamo, passeggiamo tanto. Lui mi bacia su una panchina al parco e mi scalda le mani. Al cinema non andiamo mai.
“Perdonami, ma soffro un po’ di claustrofobia – mi ha spiegato tutto spiacente e confuso.
E io l’ho abbracciato forte rispondendogli:
“Anch’io, anch’io!”

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Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
Dario con Lisa Borletti
Dario con Turi Pappalardo
Dario con Lucevan li occhi suoi più che la stella
Gordon Comstock con Il peccato più grande
Fulvia con Biancaneve
Hombre con Present continuous
Gabriele con Cave cave Deus videt
Angela con Pensiero stupendo
Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi 
Pendolante con Generazioni 
Michela con Apple
Cielo con Il pantone. Altro che rosso
Lillina con Iago
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La Donna Camèl con La casa rossa
Leuconoe con Sogno di un pomeriggio di mezz’autunno
Marco con Il treno rivelatore
Kermit con Aspettando Geova
Singlemama con La Messa della domenica

Gloria mundi

“Eminenza, mi ha fatto chiamare?”
Il cardinal Bottazzi, ben contenuto nella poltroncina di velluto cremisi dietro l’ampia scrivania, giocherella con un sigaro e accoglie sogghignando il giovane segretario.
“Vieni vieni, don Venceslao, ti volevo giusto parlare”.
Don Venceslao è un bellissimo prete, giovane, atletico, impeccabile, con un’espressione maschia eppure spirituale sul volto ottimamente rasato. Dalla sua famiglia, gli Ubaldini di Sant’Ubaldo, sono usciti nei secoli prelati, diplomatici, pianisti. Da quella del cardinal Bottazzi, funzionari del catasto e produttori di celebri insaccati. Solidità economica, buone conoscenze, corporature poderose e facilità a rapporti conviviali calorosi e ben unti.
“Allora, ci siamo, domani si va a Roma – introduce il cardinale, inserendo una nota di golosa aspettativa. Il sigaro rotola fra le dita grassocce, in attesa del momento più azzeccato per essere tranciato e religiosamente acceso.
“È tutto pronto, Eminenza – lo rassicura il segretario in tono neutro e professionale. Gli sembrerebbe fuori luogo condividere palesemente la gioiosa impazienza che il suo superiore, invece, non cerca nemmeno di nascondere.
“Con i discorsi a che punto sei?”
“Li ho qui, se li vuole vedere – e Venceslao posa sulla scrivania una distinta cartellina di Bristol color crema.
“Mi fido, mi fido, li leggerò domani in aereo. E cosa ci hai messo dentro?”
“Di tutto, Eminenza, come mi ha detto lei”.
“La pace nel mondo? La giustizia, la solidarietà, i diritti umani? L’infanzia abbandonata? Il terzo mondo, il terrorismo, la perdita dei valori?”
“Tutto, Eminenza, tutto. Tutto quello che può servire per discorsi, dichiarazioni, interviste. A seconda del bisogno e del contesto, basterà mettere insieme i punti più opportuni”.
“E ci penserai tu, vero? Sei bravissimo in queste cose. Da quanto tempo è che sei il mio segretario?”
“Saranno cinque anni a settembre, Eminenza. Bontà vostra”.
“Il miglior segretario che abbia mai avuto – decreta il cardinale, con grassa soddisfazione. E avverte che è arrivato il momento di gustarsi quel profumatissimo sigaro.
“Ti dispiace, Venceslao? – l’Eminenza porge il sigaro e osserva pregustando il gesto esperto con cui l’impareggiabile segretario lo libera dall’involucro e lo decapita con precisione chirurgica.
“Tu non fumi, vero? – gli chiede con amichevole complicità.
“Occasionalmente qualche sigaretta, se devo essere sincero – risponde Venceslao badando a non tradire l’imbarazzo che quella ammissione sempre gli procura. Il fatto è che una sigaretta è l’unica tentazione cui si permette di cedere ogni tanto, quando lo stress del suo difficile ministero sale oltre i livelli di guardia. In quei momenti, sente urgente il bisogno di uscire dal suo studio – moderno, cablato, tecnologico, un ufficio attrezzatissimo e alienante – e correre fuori, nel giardino interno del Palazzo, per respirare l’aria di tutti e annusare gli odori delle piante e della vita normale. Spesso c’è un giardiniere che ramazza foglie dai vialetti, e se si tratta del vecchio Procopio si siedono vicini su un muretto e fumano insieme una sigaretta liberatoria, scambiando poche frasi che non tengono conto della differenza di rango fra loro, e nemmeno di età.
Il gran cardinale tira la prima boccata con gli occhi socchiusi dal piacere e si assesta meglio sullo schienale della poltrona. Poi, con un sorriso vagamente canagliesco, si rivolge di nuovo al giovane:
“Me lo voglio proprio godere, perché, sai, questo potrebbe essere l’ultimo”.
“Ha deciso di smettere, Eminenza? – si informa premuroso Venceslao.
“No, no, cosa dici, (piccola pausa strategica), è che se mi fanno Papa non potrò più farlo – e quasi ammicca – Perché, tu non pensi che io abbia buone probabilità? – chiede con aria innocente.
Venceslao si è irrigidito: “Non saprei, Eminenza. Queste sono cose che riguardano lo Spirito Santo, noi possiamo solo pregare”.
“Giusto, giusto, preghiamo, pregheremo. Lei mi raccomando preghi molto. E se tutto va bene, se da questo Conclave esco Papa, per lei ci sarà molto presto il cardinalato. Se lo merita!”

In giardino è sceso l’imbrunire e le foglie sul vialetto sono fradice di umidità. Il vecchio Procopio le sta raccogliendo con la scopa e le deposita sulla carriola. Si siedono accanto sulla panca di pietra vicino alla statua della Madonna, estraggono ciascuno dalla tasca il proprio pacchetto di sigarette e accendono da un unico cerino..
“Dice che diventerà Papa – sospira Venceslao pensieroso, guardando lontano.
“Reverendo, con tutto il rispetto quello lì l’è matto – sentenzia francamente il saggio Procopio.
Venceslao pensa agli enormi armadi di rovere che custodiscono il ricco guardaroba cardinalizio: le mantelline rosse, gli zucchetti, i piviali ricamati, le cotte con altissimi pizzi. Quella mattina ha passato tutto in rassegna per allestire i bagagli, e si è dilungato a sfiorare la nobiltà dei tessuti e la regalità del porpora. Il cardinale sogna invece di vestire tutto di bianco, e in quel caso che ne sarà di tutti quei costosi paramenti firmati? Venceslao chiude gli occhi e si immagina allo specchio, vestito di rosso, maestoso, ammantato di potere. Si vede un po’ più vecchio, appesantito, col viso arrotondato e roseo come quello di un neonato pasciuto, con gioielli d’oro da far luccicare alla folla, con le mani grassocce e molli da porgere al bacio di ambasciatori e potenti.
Poi in un altro specchio rivede se stesso ragazzo, seminarista in vacanza nella tenuta di famiglia, intento a studiare su antichi volumi nella biblioteca del padre, sordo ai richiami delle cugine che lo vorrebbero sul campo di tennis. E ancora la pieve del trecento dove canta la sua prima messa, e dove più avanti celebra il matrimonio di suo fratello e le esequie di sua madre. Castità, povertà, obbedienza. Domine non sum dignus.
Si scuote, cancella tutto, quello che prova è una specie di brivido ma non è febbre; casomai consapevolezza.
“Forse dovrei andare a confessarmi – annuncia a Procopio, spegnendo la sigaretta. Si affretta verso la cappella, sorridendo al pensiero che in Vaticano probabilmente è vietato fumare.

*   *   *

Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
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Angela con Pensiero stupendo
Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi 
Pendolante con Generazioni 
Michela con Apple
Cielo con Il pantone. Altro che rosso
Lillina con Iago
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Laggiù nel Bronx

Questo racconto (che, vi avviso, è lunghetto) l’ho scritto perché nel mio precedente eds Kermitilrospo aveva notato l’assenza di mortammazzati, e ci si era messa poi anche mia sorella a storcere il naso per l’eccessivo buonismo ottocentesco.
Stavolta, come vedrete se avrete la pazienza di leggerlo tutto (è lunghetto, vi avviso), i mortammazzati non si contano, e spunta anche – forse, spero, mi auguro, ci ho provato – un non so che di sano cinismo post-moderno, nel quale in effetti mi riconosco di più.

Me ne stavo seduta sul mio gradino preferito, il penultimo, perché da lì potevo occhieggiare il marciapiede da un angolo all’altro della strada e verificare, dall’affollamento di cartacce e lattine, il grado di efficienza del servizio municipale di nettezza urbana nel nostro quartiere, e intanto facevo quella cosa stupida che faccio sempre quando sono assorta e/o triste: mi grattavo le ginocchia. Con una specie di affetto, senza graffiare, più che altro un surrogato di carezze e pacche sulle spalle come quelle di cui era carente la mia vita di dodicenne. I gatti risaliti dai seminterrati o scesi dai cornicioni sezionavano scientificamente i sacchi dell’immondizia, riportando alla luce i vassoi di cartone stagnato in cui mia madre e io avevamo cenato con la robaccia unta del cinese all’angolo. Lei aveva smesso di cucinare molti anni prima, il giorno in cui era scomparso mio padre. Molte cose aveva smesso di fare, da quel giorno, e dal momento che già prima ne faceva assai poche si può dire che fu da allora che avevo dovuto farle tutte io. Lei del resto non era in grado. All’inizio, per quasi un anno intero si era dedicata alla ricerca di papà. Era diventata una habituée dell’obitorio, ci andava non meno di due volte al mese, e in certi periodi anche quattro, se aveva fortuna. Ogni volta che ripescavano nella baia il cadavere violaceo e gonfio di un ubriaco, oppure raccoglievano quello stecchito e brinato di un barbone congelato sotto un viadotto della metro, o ancora recuperavano quello raggomitolato nel vomito secco di un tossico in un edificio in demolizione, ogni volta, purché di sesso maschile e privo di documenti – cioè in almeno metà dei casi – facevano un giro di telefonate per invitare le persone che avevano fatto denuncia di scomparsa di un familiare a presentarsi per l’eventuale riconoscimento, e mia madre fra queste.
Per mesi se li andò a vedere tutti, con cura e accanimento, non trascurando nemmeno i cadaveri di razza asiatica e gli afroamericani. Riceveva la chiamata e subito si emozionava come per un appuntamento in centro: indossava un vestito appropriato, dei pochi che aveva, e prendeva un certo numero di autobus per andare fin laggiù. Stava fuori anche diverse ore, perché prendeva la cosa molto sul serio; talmente sul serio che, lungo la strada del ritorno, sentiva il bisogno di fermarsi in qualche bar e concedersi una colazione abbondante, e poi magari un giretto per negozi dove provava vestiti che non poteva permettersi di pagare.
“Come è andata oggi? – le chiedevo educatamente.
“Niente. Era un cinese. Gli somigliava molto, non mi sarebbe dispiaciuto che fosse proprio lui, ma non c’è stato niente da fare: era proprio un cinese – riferiva, delusa.
Oppure:
“Quello di oggi non so proprio come abbiano potuto propormelo. Tuo padre aveva tanti difetti ma, diamine, non certo un occhio di vetro!”
Le piaceva così tanto che a volte andava all’obitorio di sua iniziativa, si affacciava chiedendo garrula “C’è niente per me?” e poi si tratteneva a prendere caffè e ciambelle con gli inservienti fino a mezzogiorno, per tornare a casa se non altro di buon umore per aver passato del tempo con amici.
Per la frustrazione, mia madre si era buttata sul cibo. In forma non era mai stata, era più il tipo tendente al tondeggiante, un tondeggiante sodo e qua e là bozzuto, ma ora si sentiva autorizzata dalle circostanze a introdurre nel suo corpo, senza il minimo riguardo, calorie sufficienti a riempire il vuoto lasciato da mio padre, sotto forma di cibi tra i peggiori, più grassi e malsani potesse trovare al supermercato o nelle rosticcerie più malfamate. Casa nostra si riempì di involucri, cartocci, scatole di pizza, incarti di dolciumi, bicchieroni di plastica di gelato; ingeriva 4 hot-dog e 2 stecche di cioccolato già per colazione, a pranzo scartocciava un vassoio formato famiglia di ali di pollo e patatine fritte, poi per cena diceva di volersi tenere un po’ più leggera e si faceva bastare un paio di pizze e una scatola di gelato. I cioccolatini se li portava a letto, erano quelli della buonanotte, diceva, e presi uno alla volta e così piccoli non potevano farle male. Di tutto questo posso riferire, ma alla mia osservazione sfuggivano gli spuntini che certamente faceva durante la giornata mentre io ero a scuola, e di cui restavano testimonianze nei rifiuti che scovavo sotto il letto quando andavo alla caccia di quei topi che, a un certo punto, cominciai a sospettare coabitassero l’appartamento.
In pochi mesi, mia madre era ingrassata ben oltre il limite dell’obesità media di cui soffre, pare, un’altissima percentuale di americani. Le sue dimensioni avevano qualcosa di sciamanico; il suo corpo non aveva più una forma, ma molteplici forme, e sotto le smisurate vestaglie con cui lo copriva assumeva aspetti sempre nuovi e sempre in movimento, come di materiali ammucchiati maldestramente che tendessero a scivolare uno sull’altro alla ricerca di un assetto meno pericolante, come ondate straripanti che si snodavano e smottavano e si riaccomodavano in balia della forza di gravità, affacciandosi flaccidamente ora all’altezza dell’addome (ormai tutt’uno con le mammelle), ora a quella dei fianchi (ormai tutt’uno con le natiche). Era tutto un ballonzolare, uno spenzolare, uno sgusciare molle, un contorcersi greve come di serpente obeso e moribondo.
Ormai pilotare nello spazio angusto del nostro appartamento quel gigantesco ammasso di carne senza controllo che era diventato il suo corpo era per lei un’impresa che la costringeva a passare di fianco attraverso le porte e a ricorrere a me per qualunque incombenza. Negli ultimi tempi usciva di casa solo per andare, soffiando come un tricheco, all’obitorio, e poiché non era più in grado di salire e scendere dall’autobus si era rassegnata a prendere un taxi, la cui spesa si aggiungeva dolorosamente alle altre più essenziali e contribuiva ad assottigliare i pochi risparmi rimasti. Io avevo cominciato a saltare giorni di scuola perché ero troppo impegnata a occuparmi di lei, della sua interminabile toilette che faceva seduta su uno sgabello rinforzato nella doccia sollevando una dopo l’altra le mammellature davanti, dietro, sopra e sotto affinché ci passassi un asciugamano insaponato e la pasta allo zinco per dare sollievo alle piaghe fetide e melmose ospitate nel fondo di ogni piega.

Un giorno, dopo quasi un anno, tornando a casa da scuola la trovai seduta in cucina in compagnia di due tipe dei Servizi Sociali. Una di esse si alzò per venirmi incontro e con un certo garbo compunto molto professionale mi annunciò che quella mattina mia madre aveva riconosciuto papà nel cadavere di un uomo rinvenuto in un vagone merci in disuso abbandonato da anni su un binario morto. Mia madre guardava nel vuoto e non mi parve sconvolta, aveva le labbra strette come stesse riflettendo e ogni tanto annuiva a se stessa. Quando restammo sole, non mi disse molto: solo che ora dovevamo pensare a noi stesse e che quelle due brave signore ci avrebbero aiutate. Io ero così abituata a pensare mio padre come morto che averne avuto la conferma non cambiò molto le cose.
Invece le cose cambiarono. I Servizi Sociali ci riconobbero un assegno di sostentamento e controllarono che non mancassi più alle lezioni. Una volta ogni tanto passava qualcuno a chiedere se avessimo bisogno di qualcosa, ci portavano bende e pomate per la mamma, abitucci usati per me. Ma la più grande novità fu che mia madre si mise a fare progetti. Un giorno mi disse che si era trovata un lavoro, un lavoro da svolgere in casa. Mi disse che la sua lunga frequentazione dell’obitorio l’aveva illuminata, le aveva fatto scoprire di possedere una dote che ci avrebbe fatte ricche: la dote di saper parlare con i morti. Nel quartiere la notizia non stupì, e la clientela, fatta per lo più di vedove superstiziose, non tardò a raccogliersi numerosa.
Mia madre per l’occasione evocò lontane origini pellerossa e si impadronì dello spirito di una bisnonna Cherokee, prendendone a prestito il nome, Esmeralda, e l’acconciatura, una parrucca con lunghe trecce corvine con la quale nascondeva i capelli stopposi e rarefatti vittime di decenni di sciagurate tinture nonché degli squilibri nutrizionali. Riceveva nella saletta da pranzo, sacrificata a studio esoterico e addobbata di drappi neri alle pareti e di un’oggettistica dissennatamente ibrida che comprendeva simboli indiani, zampe di conigli, teschi di gatti, campanellini buddhisti, candele da catacomba, fotografie di ectoplasmi. Aromi di incensi di poco prezzo coprivano la puzza dei cibi e dello zinco rancido. I clienti arrivavano riverenti, in soggezione, e li accoglievo io, conciata con una tunichetta di pizzo tinto di nero che cominciò presto a starmi stretta ma che mi conferiva dignità e mistero. Li introducevo al cospetto della sciamana Esmeralda e poi mi ritiravo, per ricomparire solo al termine della seduta e incassare la tariffa, che non era esosa ma nemmeno modesta. Mia madre non voleva che assistessi, e da dietro la porta sentivo solo qualche mormorio e un tintinnare di sonagli che significavano l’arrivo dell’anima richiesta. Le anime rispondevano sempre alla chiamata. Ogni vedova, ogni orfano ultrasessantenne, ogni decrepito reduce di Corea ansioso di ricollegarsi a un vecchio commilitone caduto, tutti avevano il loro momento magico e misterioso, il loro contatto dall’aldilà, risposte alle loro domande, conforto alle loro nostalgie. Mia madre non so come facesse, ma dispensava del bene a tutti. E di quell’attività campavamo.

Me ne stavo, insomma, sul penultimo gradino e mi grattavo sconsolatamente le ginocchia, quando dall’angolo della strada vidi avanzare, col suo inconfondibile passo danzante, mio padre morto da cinque anni.
La sua andatura era quella delle persone molto alte e smilze, di un giocoliere, o forse di un giocatore di basket sul parquet: dondolante, rilassata e piacevolmente controllata. Il gesto gli partiva dalle spalle, come si apprestasse a cingere una donna per un giro di valzer, e si trasmetteva alle lunghe gambe leggermente arcuate, poi ai piedi che sembravano accarezzare il suolo con la leggerezza di un Fred Astaire.
Avanzava lungo il marciapiede sorridendo fra sé come un fanciullo in vacanza, le mani nelle tasche dei pantaloni color verde stagno, una giacca di velluto assai frusto color melanzana, scalciando affettuosamente le cartacce che i suoi piedi incontravano e puntando verso casa nostra. Quando mi fu vicino, si inclinò un po’ per scrutarmi attentamente e mormorò cantilenando:
“Guarda guarda Betty Lou come si è fatta grande…”
Io, dico la verità, non feci quello che sarebbe stato ovvio per chiunque: non mi alzai di colpo, non mi impressionai, non tentai di ritrarmi per lo spavento né feci domande con voce strozzata. E lui non fece niente di quello che ci si sarebbe potuto aspettare: non mi sfiorò, non mi accarezzò i capelli, non fece il gesto di abbracciarmi. Ci guardammo per qualche istante, forse rimandando tutto a un altro momento.
Poi lui disse, educatamente:
“Beh, io salgo un attimo”.
E io rimasi lì su quel gradino, senza pensare a niente, perché qualunque cosa avessi pensato certamente era troppo grande per me. I gatti selezionavano gli avanzi, raspando fino all’ultima molecola le carte oleate della rosticceria e lasciando ai cani, che sarebbero sopraggiunti più tardi e che notoriamente mangiano di tutto, la stagnola del cioccolato del resto già meticolosamente leccata da mia madre.
Non rimase di sopra a lungo, diciamo un quarto d’ora secondo la mia incerta percezione di dodicenne. Io non mi ero mossa, e lo sentii alle mie spalle lasciar ricadere il portoncino e saltellare giù dai gradini con lo stesso lieve atteggiamento fanciullesco e malandrino di quando era salito.
Ora mi aspettavo, che ne so, una frase, qualcosa, qualcuna di quelle cose che prima ritenevo avessimo solo lasciato in sospeso, e dentro di me pensavo che non ne avevo poi un gran desiderio, perché poteva saltar fuori una situazione ben più che bizzarra o imbarazzante. E io di situazioni bizzarre e imbarazzanti ero, a dir la verità, anche abbastanza stufa.
“Dice tua madre di salire per aiutarla a mettersi a letto – mi informò con gentilezza, e in quel momento sentii il suo odore, che era di elefante, e vidi che aveva i capelli raccolti in un codino e ai polsi portava due braccialetti di misere perline.
Poi se ne andò, verso l’angolo di strada da dove era svoltato, ma a metà si fermò un attimo, mi chiamò:
“Ehi!”
E mi lanciò qualcosa, che io fui svelta ad afferrare tra le mani.
Poi un ultimo gesto di saluto, e fu tutto.
Mi aveva donato un pacchetto di sigarette, ciancicato e mezzo vuoto. Lo guardavo chiedendomi se un padre che regala sigarette a sua figlia di dodici anni è un padre molto moderno, oppure nessun padre.
Mia madre mi aspettava sulla sua poltrona sfiancata. Senza una parola le sfilai le calze dalle gambe pachidermiche e l’immensa tuta di ciniglia di un fragoroso color fragola, le rinnovai gli strati di garze intrise di pomate puzzolenti, raccolsi da terra i resti di un paio di scatole di cioccolatini e la scortai nella penosa navigazione verso il letto.
Fu solo quando si fu sistemata con molti ansiti e gemiti e il suo immane corpo ebbe finito di spargersi, dilagare e invadere il materasso, che mi parlò. Era provata ma durissima, determinata.
“Nessuno deve saperlo. Giura che non lo dirai a nessuno. A nessuno, capito?”
“Ma allora non era morto davvero?”
“A nessuno, ti dico, a nessuno – ribadì con forza.
Poi aggiunse:
“Non piangere. Pensa solo a questo: se qualcuno lo viene a sapere, noi perderemo il sussidio, e io perderò la mia reputazione. Ho un lavoro onorato, la gente crede in me. Non vuoi rovinare tutto, vero? Dimmi che non vuoi”.
Io non è che stessi piangendo, né ne avevo l’intenzione. Trovavo solo ingiusto che certe cose succedessero un metro sopra la mia testa.
“No che non voglio, ma se lui tornasse? – tentai, per farla ragionare.
“Ah no che non torna, puoi star sicura. Gli ho detto che se torna lo ammazzo con le mie mani – mi assicurò, e la sua voce era colma di desiderio di vendetta. Capii che parlava seriamente, e del resto disponeva di un’arma letale: il suo stesso peso, con il quale avrebbe potuto mantenere la minaccia col solo accasciarglisi addosso e schiantarlo come un qualunque sgabellino di bambù.
“Ma tu lo sapevi, però – protestai debolmente.
Lei non rispose. Un giorno, cinque anni prima, aveva fatto la sua scelta, e oggi non le restava che ribadirla.

Quella notte mi svegliai di soprassalto perché mi ero dimenticata di controllare una cosa. Tirai fuori dal comodino il pacchetto di sigarette e lo esaminai per bene: ne conteneva cinque, storte, mezze morte, mezze sbriciolate. Cercai dentro e fuori se vi fosse un biglietto, un messaggio, un indirizzo.
Ma era solo un pacchetto cincischiato e mezzo vuoto, giusto con un fondo di odore di elefante.

*    *    *

E anche con questo partecipo all’eds Nero di Natale della solita stregonessa Donna Camèl, in ottima e abbondante compagnia con:
Hombre con Ti prego, non chiamarmi Barbie
Dario con Zebre e savane
Leuconoe con Placida come il fiume
Pendolante
con Natale con soffritto
Kermitilrospo
con Pedalata nera
Fulvia
con Il quadro capovolto – 2a parte
Lillina
con Una vita segnata
Calikanto
con Nero livido
La Donna Camèl
con Se tu mi amassi
Singlemama
con Dissolvenza in nero
Angela con Chi è di scena
Angela
(ancora) con Taccido 

Madeleine

Nell’ottobre del 1895, agli esordi della mia fortunata carriera di neuropsichiatra, mi imbattei in un caso a dir poco arduo e insieme commovente, che avrebbe cambiato la mia vita in un modo inatteso.
Me ne incaricò il professor Waldenstein, decano all’Hôtel Dieu, del quale ero stato l’allievo prediletto. Si trattava di una giovane donna dell’alta società che aveva perduto la memoria in seguito a un trauma emotivo dei più brutali: il marito era morto annegato sotto i suoi occhi nel mare di Capri durante il viaggio di nozze in Italia, e non riesco davvero ad immaginare un epilogo più straziante per quello che appariva a tutti un perfetto matrimonio d’amore. L’amnesia che l’aveva colpita aveva cancellato dalla sua mente tutti i ricordi antecedenti l’incontro con il futuro marito, risucchiando perciò nell’oblio la sua infanzia e le immagini dei suoi stessi familiari. Essa li riconosceva per tali solo perché le era stato provato che lo erano, ma tuttavia non rammentava di aver mai visto prima i loro volti né pronunciato i loro nomi. Incapace di ambientarsi nella sua famiglia d’origine, si era ritirata nella casa maritale, dove viveva infelice coltivando gli unici ricordi sopravvissuti, che le parlavano di un amore e di una felicità durati così poco e ormai perduti per sempre.
Acconsentii a occuparmi del suo caso dopo averlo frettolosamente classificato come una amnesia isterica, statisticamente abbastanza frequente fra i soggetti di sesso femminile soprattutto se giovani, benestanti e sensibili, e, confidando in un pronto successo, la ricevetti nel mio studio privato al pianterreno della villa di Neuilly dove dimoravo da solo.
Essa quel giorno, come poi tutti i seguenti, indossava un abito nero di ottima fattura e calzava un cappellino dello stesso colore, la cui veletta le copriva il volto lasciando trasparire solo il tenue rosa delle labbra.
Quel primo incontro fu dedicato a raccogliere quanti più dati possibile, ma a fine giornata mi resi conto di avere ben poco in mano: nulla che comunque non mi avesse già anticipato nel dettaglio il mio Maestro, perché dalla bocca e dalla memoria della mia giovane paziente non uscì null’altro di illuminante. E così anche negli appuntamenti seguenti: essa non faceva che ripetere le stesse frasi, rievocare le stesse scene, ribadire la propria impotenza davanti a quel muro nero che le si parava dinnanzi ogni volta che cercava di spingersi indietro nel passato.
“Un muro, voi dite”.
“Un muro. Un muro nero”.
“Nero come? Anche il nero è un colore, e dunque può avere varie tonalità, vari registri, a seconda di quale prevalga fra i suoi tanti componenti… ”
“Nero, signore. Nero. Non ci sono sfumature, è tutto nero”.
“Nero come la notte? La notte ha qualcosa di blu profondo. O come la seta del vostro abito? Però contiene dei riflessi argentei, smorzati ma comunque riconoscibili”.
“Se intendete dire che anche in un pozzo, anche in una grotta, il buio può essere sempre interrotto da qualche lieve bagliore, ebbene non è il mio caso. Il nero del muro che abita in me è definitivo e ineluttabile come l’interno di una tomba molti metri sotto terra, signore”.
La sua patologia persisteva ormai da qualche mese, e si era mostrata refrattaria ai principali rimedi posti in essere: non le avevano giovato né calmanti né eccitanti, né viaggi all’estero né riposi in un chiostro, né soggiorni al mare né in montagna, né applicazioni calde o fredde o elettriche o magnetiche, e nemmeno l’ipnosi. Il muro resisteva nel fondo della sua mente, nero e crudele, solido e beffardo.
“Vi scongiuro – mi supplicava – fate qualcosa. Finora tutto è stato inutile, e il tempo passa privandomi della gioia di vivere. Presto invecchierò senza mai essere stata giovane!”
Ah, essa che paventava la propria vecchiaia non aveva che ventuno anni! Si può immaginare nulla di più straziante? Quanto atroce era il suo destino di ricordare solo un marito oramai perduto e irraggiungibile e di non potersi rifugiare con confidenza nel grembo della famiglia che tanto l’amava e a cui si sentiva estranea? Sarebbe stato preferibile il contrario, e forse sarebbe stato anche più facile da curare.
Avevo adottato fin dall’inizio un mio metodo personale: durante la seduta, le facevo indossare sopra gli occhi una benda nera ben accomodata in modo da precludere il passaggio di qualunque spiraglio di luce. Lo scopo era quello di ricostruire in concreto la sensazione di muro nero e di stimolarla affinché si sforzasse di vedere oltre, di scavare quella superficie e scoprire al di sotto i tenui disegni dell’affresco del suo passato. Pronunciavo parole e nomi di luoghi che avrebbero dovuto rievocarle qualche ricordo fondamentale, oppure le facevo toccare oggetti che avrebbero dovuto esserle familiari, come la bambola preferita di quand’era bambina o il collare dell’adorato cagnolino dei genitori, ma pareva ormai che anche quei tentativi dovessero restare infruttuosi.

Un pomeriggio di tardo autunno (la luce era scesa presto, pioveva a raffiche e il vento dall’Atlantico frustava le imposte), nel corso di un colloquio particolarmente impegnativo accadde qualcosa di sorprendente. Ad un certo punto, mi accorsi che era molto provata e aveva il mento e le mani tremanti.
“Perdonate, ma sono troppo stanca per continuare. E a dire il vero ho molto freddo… – mormorò.
Subito mi adoperai perché si riprendesse, e la sorressi fino alla poltrona più vicina al caminetto, dove ardeva per la verità un fuoco più che sufficiente a riscaldare la stanza, ma evidentemente non il suo piccolo cuore afflitto. Le sistemai sulle ginocchia una coperta da viaggio e le misi in grembo il suo manicotto di pelliccia affinché si scaldasse le gelide manine, poi uscii per ordinare alla mia governante qualcosa di caldo e corroborante. In tutto questo, la mia pallida paziente non aveva mai tolto la benda dagli occhi, e tuttora la teneva, forse per trovare rifugio alla stanchezza in quel vuoto foderato di raso nero senza riflessi.
La governante entrò poco dopo con una tazza di cioccolata fumante, me la consegnò e lasciò che fossi io a offrirla alla giovane sofferente, ma rimase al suo fianco con un tovagliolino candido pronta a nuovi ordini.
Dopo il primo sorso, la spossatezza sembrò prendere il sopravvento, e la testa si reclinò all’indietro sullo schienale imbottito, mentre le sfuggiva un lungo e doloroso sospiro.
Ma subito dopo, tornò a bere il liquido dolce e bollente e stavolta gli dedicò un’attenzione insolita: pareva che le sue papille gustative analizzassero freneticamente densità e sapore e stessero trasmettendo al cervello una corrente di segnali vorticosi. Al terzo sorso, più lungo e concentrato, esalò una parola:
“Cannella”.
“Come avete detto? – chiesi, perplesso.
“Cannella. Cioccolata con la cannella. Una spruzzata di cannella. Un nonnulla di cannella. Il vapore la scioglie e vi entra nel cuore”.
Bevve ancora, sempre cieca eppure visibilmente rianimata. E disse un’altra cosa stupefacente:
“Il capriccio del diavolo. La cannella: il capriccio del diavolo”.
Mentre cercavo di capire se fosse per caso uscita di senno, non mi accorsi del cambiamento avvenuto nell’espressione, solitamente riservata, della governante, che all’udire quelle parole si era impercettibilmente chinata verso la paziente e scrutava incredula il poco che restava visibile del suo volto velato.
“Avete veramente detto il capriccio del diavolo? – chiese con voce rotta dal turbamento.
Ed essa, la paziente smemorata, dal fondo del suo buio confermò con inattesa decisione:
“L’ho detto. La cannella sulla cioccolata è il capriccio del diavolo. Lo diceva sempre la mia bambinaia”.
La sua voce si era fatta sicura e io trasecolai, ma non ero pronto a quanto stava per accadere. Stavo per inserirmi con alcune domande prudenti e studiate per valutare il grado di completezza di quel primo ricordo che pareva affiorare, quando la governante mi rubò la scena e continuò il dialogo relegandomi a semplice ascoltatore.
“E ricordate come si chiamava, la vostra bambinaia? – indagò con trattenuto fervore.
La risposta arrivò dopo un istante:
“Berthe”.
La governante si coprì la bocca con le mani, colta da intensa emozione, ed esclamò:
“Madeleine, siete dunque voi?”
Madeleine si strappò la benda dagli occhi, i loro sguardi si ritrovarono e si riconobbero e davanti a me le due donne si abbracciarono singhiozzando di gioia e coprendosi di epiteti affettuosi ripescati nel passato.
“Madeleine, confettino mio, mia nuvoletta, mia colombella!”
“Berthe, mia fata buona, mio angelo, mia aurora boreale!”
“Avete riconosciuto la mia cioccolata!”
“Nessuno la fa come voi, nessuno ci mette la cannella!”
“E vi siete ricordata di me!”
“Chi mi è stata più vicina di voi quando ero piccina?”
Stravolto dall’epilogo inaspettato, non mi rimase che restare in disparte e assistere a quel fiume di ricordi che si snodava fra le due, a tratti gaio, a tratti commosso. Il muro nero si era dunque infranto? E quale pietosa divinità aveva posto Berthe, la mia decennale governante bretone, al centro di quella straordinaria guarigione? Forse il Caso, il più bizzarro di tutti gli dèi.

Nei giorni seguenti, la mia paziente compì rapidi e risolutivi progressi. Berthe la seguì amorevolmente nel percorso di riavvicinamento alla famiglia e i risultati non si fecero attendere.
Allo scadere del tempo di lutto, presentai a Madeleine la mia proposta di matrimonio ed essa accettò con cuore gonfio d’amore. Lo stesso amore che mi dedica da ormai quarant’anni e che si è manifestato nella nascita dei nostri tre figli e recentemente in quella dei nostri primi nipoti.
Berthe è rimasta sempre con noi, e quando la sua tenace salute bretone ha cominciato a venir meno l’abbiamo tenuta come una di famiglia, accudendola con affetto e gratitudine quanto lei aveva accudito tutti noi. Ci ha lasciato l’anno scorso, molto compianta. Negli ultimi tempi, una grave forma di artrite diffusa l’aveva immobilizzata a letto, ed essa, mostrandoci le sue povere mani deformi e ormai inutilizzabili, ci ammoniva con affetto:
“I ricordi non spariscono, tutt’al più si nascondono. I miei, li vedete, sono tutti qui: nelle mie ossa”.

(nell’immagine: Sul balcone, di Berthe Morisot)

E via, partecipiamo a questo eds Nero di Natale della solita stregonessa Donna Camèl, non lasciamoli soli, gli altri. Che sono:
Hombre con Ti prego, non chiamarmi Barbie
Dario con Zebre e savane
Leuconoe con Placida come il fiume
Pendolante
con Natale con soffritto
Kermitilrospo
con Pedalata nera
Fulvia
con Il quadro capovolto – 2a parte
Lillina
con Una vita segnata
Calikanto
con Nero livido
La Donna Camèl
con Se tu mi amassi
Singlemama
con Dissolvenza in nero
Angela
con Chi è di scena
Angela
(ancora) con Taccido 

La pappa!

Questa è vera quant’è vero Iddio, tramandata negli annali della mia famiglia come una delle pagine più pittoresche e significative della prima infanzia di me medesima, quella me medesima che, nata sotto il segno dell’Acquario, già in tenerissima età manifestava intraprendenza, talento artistico e doti creative.
Era una bella estate sul finire, al Lido passava la Mostra del Cinema (fu l’anno di Rashomon, per illustrare il livello) e sulla spiaggia attricette e parvenus si facevano immortalare dai fotografi, mentre nelle serate danzanti dei grandi alberghi impazzavano le musiche elettrizzanti di Perez Prado.
Io avevo mesi pochi ma sufficienti a gattonare e a progettare guai, ragion per cui nei momenti di maggiore indaffaramento mia madre mi neutralizzava deponendomi all’interno di un box con sbarre di legno. Mi ci trovavo, contro ogni mia volontà, anche il mattino di quella famosa telefonata. Il telefono lo avevamo da poco, e infatti a poco serviva. Lo avevamo messo più che altro in caso si dovesse chiamare il pediatra, perché quasi nessuno dei nostri parenti e conoscenti lo aveva. La nonna, per esempio, che abitava a Venezia, non lo aveva. Quella santa donna, per avere notizie della sua prima nipotina, si alzava all’alba, puliva casa, preparava il pranzo per il nonno, prendeva il vaporetto e in un’oretta, pian pianino, fermata dopo fermata, sbarcava al Lido e si presentava a casa nostra con la sua sporta piena di piccoli doni umili.
Una che aveva invece il telefono era la più cara amica della mamma, e con lei stava parlando quella mattina di bel sole, finestre spalancate e Tico Tico dalle radio di tutte le case vicine.
Io nel box mi annoiavo. I giocattoli li avevo già gettati tutti sul pavimento, avevo tirato anche un po’ di strilli nervosi e tentato inutilmente di scardinare le sbarre, ma quelle due ne avevano, da raccontarsi. Avessi avuto una sorellina, un fratellino, un gatto. Ma vennero tutti dopo, col tempo..
A proposito di gatti, lo sai cosa fa un gatto quando non sa più come attirare la tua attenzione? Ti fa gli scherzoni. Ti rubacchia la penna, ti fa cadere un soprammobile, ti graffia il divano, finché non gli dai retta.
Io feci la cacca.
E dato che avevo mangiato la pappa di carote, feci la cacca di pappa di carote, per colore e consistenza perfettamente identica, giusto un po’ differente quanto a odore. La feci, l’osservai e mi dissi che com’era entrata così era uscita, tale e quale. Arancione e papposa. E siccome non mi era nemmeno piaciuta, l’idea di averla trasformata in cacca fu un po’ una vendetta.
Solo che non è tutto qua. Una marmocchia di pochi mesi è perfettamente autorizzata a fare la cacca nel box, non c’è nulla di cui rimproverarla, soprattutto se la mamma è temporaneamente distratta altrove.
Bisognava aggiungerci il tocco speciale, quello che avrebbe trasformato un evento naturale in un monito degno di essere ricordato.
Così, mentre la mamma continuava a parlottare al telefono, io con le manine sante cominciai a raccogliere la santa cacchina papposa e a spalmarla coscienziosamente dappertutto, sulle odiate sbarre, sul pavimento di cartone, sulle gambette nude e, con maggiore abbondanza, sul bel musino lentigginoso che mi ritrovavo e che tutti volevano sempre sbaciucchiarmi. Tracciai pennellate spontanee secondo una tecnica di mia invenzione (successivamente copiata da certi pittori astratti) ottenendo interessanti effetti cromatici e soprattutto materici, e avrei continuato a perfezionare la mia performance se ad un certo punto non mi fosse venuta a mancare la materia prima.
Finita la telefonata, la mamma mi trovò così, placida e orgogliosa della sontuosa opera pittorica che mi circondava e di cui facevo parte. Un quadro vivente, e olezzante. Mi sentivo come mi sarei sentita tante altre volte nella mia vita, in futuro: appagata per un atto artistico originale, come quando metto la parola fine a un racconto perché ormai quello che avevo dentro è uscito tutto (sì, ammetto che il paragone è imbarazzante, potete astenervi da battutacce ovvie).
Qui il biografo dice solo che a mia mamma cascarono le braccia, sorvolando con eleganza sulla scena isterica che ne seguì, e che sfociò in una nuova telefonata di sfogo, stavolta a mio padre, il quale non la prese tanto bene e minacciò di sciogliere il contratto con la Telve. Poi però non lo fece. E neppure mia madre mi fece più la pappa di carote.

*    *    *

Scherzosamente scritto per l’Eds arancione del grande cocomero, bandito dalla Donna Camèl che ormai tutti ben conoscono…
Leggi gli altri:
Matilda di Dario
Condomini di La Donna Camèl
PC gate di Lillina
Giuseppe di Pendolante
Essere Johann Cruijff di Hombre
La torta di amarene
di Calikanto 
Notte insonne con gatti rosso arancio di Angela
Jamaica discromatica di Cielo
In pirlo veritas di Singlemama
Tequila sunrise di Leuconoe
La stessa tonalità di Marco C.
Il quadro capovolto (1a parte) di Fulvia
Pronto soccorso di La Donna Camèl
Maracaibo di Lillina 

Latte o limone?

Anni ’60, le festicciole dei ginnasiali si tengono il sabato pomeriggio, in casa, tassativamente fra le 16 e le 19.
Il gruppetto della quinta A si è dato appuntamento sotto i portici della scuola per andare tutti insieme a casa di Isabella, quella nuova, quella ricca, quella con l’autista che la porta e la riprende, quella tutta perbene ma ancora tanto spaesata. I ragazzi per l’occasione hanno raccolto i soldi e acquistato un 33 giri di Toquiño e Chico Buarque de Hollanda, una cosa raffinata e un po’ esotica insomma, non le solite canzonette.
La casa è in cima a una stradina in salita; quando arrivano davanti al cancello sono già spettinati. Il vialetto taglia un giardino pieno di alberi un po’ trascurati, un tappeto di foglie secche ocra, rosse e arancioni che il vento perenne gira di qua e di là, e in particolare attorciglia alle caviglie.
Sulla soglia, ad attenderli, la bella emozionata Isabella con un abito color pesca matura tutto a sbuffi e merletti, affiancata da cameriera con crestina pronta a ricevere giacche e cappotti, e non accetterà rifiuti. Sulle sue braccia si ammucchiano un po’ vergognosi giubbotti di tweed grezzo e sciarpe rosse, fucsia o dell’Inter. Sul lindo pavimento dell’ingresso, foglie fradice entrano insieme alle scarpe non proprio lucide.
Si accomodano in un salotto un po’ troppo formale per i loro gusti, tutto cuscini di velluto color zabaione e nappine alle tende, più un cane quasi arancione, un cocker dall’espressione scostante che al loro ingresso, invece di fare le feste, abbandona il tappeto e la compagnia. In sottofondo, ballabili americani degli anni ’40 e chansonniers francesi, mentre Toquiño e Chico Buarque de Hollanda sono rimasti su un tavolino di ninnoli ancora avvolti nella carta da regalo. E pensare che con quel disco erano convinti di fare bella figura.
Non sanno cosa dire, di cosa parlare. Gonfiano i loro sorrisi per simulare piacere, eccitazione e divertimento, ma il ghiaccio è duro da rompere. Isabella doveva averlo previsto e infatti ecco saltar fuori una scatola piena di fotografie. Si siedono in circolo intorno a lei e si dispongono pazientemente a passarsele una dopo l’altra: Isabella da piccola, Isabella alla prima Comunione, Isabella a cavallo, Isabella in Svizzera sugli sci, Isabella e il cucciolo, Isabella a Parigi, a Londra, davanti alla Sagrada Familia, sotto il Corcovado.
“Se volete, vi mostro la mia camera – propone speranzosa al termine.
In processione, consapevoli dei loro maglioncini fatti dalla mamma, delle calzamaglie di filanca, dei pantaloni di tutti i giorni senza piega, mettono il naso dentro la stanza crema e rosa della bella Isabella, con fotografie di cavalli dappertutto, in cornici d’argento.
I maschi sono sempre più in imbarazzo, le femmine occhieggiano l’arredamento e i particolari sofisticati, che ricordano tanto i rotocalchi delle mamme o le scene di certi film americani. E mentre si chiedono cosa ci faccia una loro coetanea così snob in una città schietta di mare, vento e pietra carsica come quella dove sono nati loro, ecco che arriva l’ora del tè.
“Latte o limone?”
Perché è questo il rinfresco: tè e pasticcini, serviti in modo raffinato e scomodissimo dalla cameriera del rotocalco insieme a salviettine così candide e preziose che nessuno si azzarderà a usare. Qualche stomaco quindicenne brontola, coperto inutilmente da colpetti di tosse finta.
Nel frattempo, si sono fatte le sei. Ospite e ospiti hanno esaurito le loro risorse di reciproco intrattenimento, ma non si sa come darci un taglio. Inaspettatamente, è Adria a risolvere, Adria, la capitana della squadra di pallavolo, quella con più note sul registro, quella capace di fare a botte con i maschi. Con incredibile faccia tosta arrossisce e si tormenta le mani, emettendo una vocina indifesa:
“Scusate, ma si sta facendo tardi e io ho paura del buio…”
Ci mettono un attimo a capire, e poi tutti ad assecondarla. Le altre femmine di colpo sono tutte in agitazione, i maschi le calmano offrendosi di accompagnarle a casa. Si congedano un po’ frettolosamente, con goffe strette di mano e assicurando che è stato tutto bellissimo.
“Grazie per essere venuto, grazie per essere venuta – dice meccanicamente Isabella a tutti, uno per uno. La cameriera distribuisce pastrani e sciarpe, il portone di casa si apre e via, sono liberi.
Ma Adria non ha finito. Lungo il vialetto ha scorto un albero di cachi, già così maturi e arancioni da risplendere come lanterne accese nell’imbrunire della sera. Cosa le salta in mente, come le viene in mente il tocco finale, la firma su quel pomeriggio insipido… si avvicina alle fronde più basse e, con uno stecco raccolto tra le foglie, incide occhi, naso e bocca sulla buccia tesa dei frutti. Gli altri la imitano, ridacchiando (“Tu, Roby, controlla che non ci guardino da qualche finestra”), e in breve tutti i cachi raggiungibili vengono sottoposti al trattamento.
E ora scappano, fuori dal triste cancello, giù per la discesa, correndo a zig zag, liberando risate sguaiate, lanciando in aria sciarpe e berretti.
“Chissà domani che colpo quando vedono i cachi che ridono!”
“Io ho fameee! – grida uno.
“Tutti in Città Vecchia! – grida un altro.
In Città vecchia, dalla Siora Rosa, in quella bettola fumosa dove per pochi soldi ti fanno panini enormi farciti di prosciutto tagliato grosso, senape e una spalmata di crauti saporitissimi da farti venire le lacrime agli occhi.
“De bever cossa volé, muli? – chiede burbera Siora Rosa.
“Aranciata, aranciata, aranciata!”

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Scherzosamente scritto per l’Eds arancione del grande cocomero, bandito dalla Donna Camèl che ormai tutti ben conoscono…
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In pirlo veritas di Singlemama
Tequila sunrise di Leuconoe 
La stessa tonalità di Marco C.
Il quadro capovolto (1a parte) di Fulvia 
Pronto soccorso di La Donna Camèl
Maracaibo di Lillina 

Sostiene Teresa

Sostiene Teresa che lei non ci voleva andare, al collegio delle monache. Che lei è una bambina buona, obbediente e studiosa, mentre le sue compagne sono qui perché a casa facevano i capricci e a scuola non combinavano niente. Che l’hanno messa in collegio per essere liberi di litigare su chi deve tenersi la villa con piscina, la bmw, la casa al mare, la casa in montagna e tutti i soldi della cassaforte. Per essere più liberi di litigare su tutto, e farsi i dispetti a vicenda. Che erano loro, casomai, a dover andare in collegio, i suoi genitori.

Sostiene Teresa che con lei hanno fatto presto, troppo presto, e perfino senza bisogno di litigare: la bimba la mettiamo in collegio, così non è né mia né tua. E infatti il sabato e la domenica, quando tutte le altre bambine tornano a casa, nessuno dei due la viene a prendere, così lei resta lì, nella sua stanzetta di collegio, a guardare dalla finestra il parco coperto di foglie gialle.

Sostiene Teresa che il blu della divisa la sbatte, perché è già pallidina di suo, e si fa pena da sola quando si guarda allo specchio dopo aver indossato la gonnellina scozzese a pieghe e il cardigan blu, e se si fa la coda di cavallo il fiocco deve essere blu anche quello perché così vogliono le monache, e dicono che il rosa – che le piace di più – è troppo frivolo.

Sostiene Teresa che le manca il suo cane e che ignora che fine gli abbiano fatto fare, forse hanno mandato in collegio anche lui perché non hanno tempo di occuparsene mentre litigano.
Che lei non sa dire chi dei due ha torto e chi ragione, ma se la mamma esce tutti i pomeriggi con le amiche e il papà torna a casa sempre a notte fonda un motivo ci sarà. Un motivo da grandi, magari. Il brutto è che ad andarci di mezzo è stata lei, sostiene Teresa. Che sarebbe stato meglio avere meno soldi e più figli, così lei avrebbe avuto fratelli e sorelle per giocare e i genitori meno grilli per il capo.

Sostiene Teresa che da grande non si sposerà mai, oppure si sposerà con un uomo buono e gentile e avranno tanti bambini buoni e gentili e felici. Sostiene che non sa bene come far passare gli anni che ci vogliono per diventare grande, e che non ha nessuno a cui chiederlo. Perciò sta pensando di farcela da sola, Teresa.

Questo sostiene Teresa, signor Giudice del Tribunale per i Minori.
Ne tenga conto.

(nell’immagine, Berthe Morisot: Lucie Léon al pianoforte, 1892)

Contributo all’EDS Il blues del blu della Donna Camèl (qualcuno fermi quella donna!) insieme a:

Diavoli blu di Dario
NY Blues di Singlemama 
Colori di MaiMaturo
La linea blu di Singlemama
Il blu dell’universo che non c’è di Lillina
Morte nel blu di Lillina
Il trattore di Pendolante
Crossroad di Call me Leuconoe
Le ore scure (grigio, rosso e blu) di Marco C.
I won’t let you down di Hombre
Onde
di Calikanto
Fever di Cielo (AKA Fevarin e carnazza)
Diritto e rovescio
di La Donna Camèl
Diritto e rovescio due, la vendetta di La Donna Camèl
So long di Brux
Davvero non lo so di Hombre
L’automobile di Pendolante
Non importa
di Lillina 

Neon

Abbiamo passato il confine verso mezzanotte. Alla  frontiera, un posto sperduto e mal illuminato, ci hanno controllato sommariamente i documenti. Tutto in regola.
Oltre la sbarra, siamo entrati nel buio della notte messicana. Immensa.
“Da qui, altri 300 chilometri di strade malmesse – ha detto Rafael. Io ho rabbrividito. Per la stanchezza, la scomodità, l’inquietudine dell’ignoto.
“Dobbiamo dormire qualche ora – ha detto ancora Rafael, e si è girato per farmi una carezza sulla guancia.
Ci siamo fermati nel primo centro abitato, dopo quasi un’ora di strada sconnessa in mezzo a un mare di tenebre che profumavano di erba secca e altri odori sconosciuti.
C’era un posto per mangiare, con ancora qualche cliente e della musica sudamericana sotto lampadine multicolori e impolverate. Giusto di fronte c’era anche un motel, modesto e un po’ scrostato. Ci siamo buttati sul letto vestiti e siamo sprofondati nel sonno.

Sono entrati in camera verso le sei di mattina: erano tre uomini in divisa, con stivali sporchi e rumorosi. Siamo balzati su di soprassalto, senza capire.
Quello che comandava ha chiesto con durezza:
“Rafael Velasco?”
Rafael ha detto “È il mio nome” e non ha fatto in tempo ad aggiungere altro perché lo hanno tirato giù dal letto e se lo sono portato via. Lui era incredulo, sbalordito ma cercava di rassicurarmi dicendomi che era un equivoco, che presto si sarebbe chiarito tutto, che stessi tranquilla. Le ultime raccomandazioni le ho raccolte già in strada, sul marciapiede, mentre lo caricavano rapidamente su una camionetta della polizia e partivano.

Il gestore del motel non sembrava scosso. L’ho guardato con mille domande impazzite negli occhi, e lui si è limitato a chiedere: “Cittadina americana?” e ha scrollato le spalle, dando a intendere che da quelle parti succedono cose che gli stranieri non possono capire. Poi mi ha allungato una tazza di caffè, insistendo che era compresa nel prezzo della stanza, e questo è stato tutto quello che ha fatto per me.
Ho cercato informazioni dai passanti per raggiungere la stazione di polizia. Il mio scarso spagnolo contro il loro pessimo  inglese. In ogni caso, è servito a poco: al comando, mi hanno tenuta sulla porta, senza rispondere alle mie domande né darmi spiegazioni.
“Può dirmi almeno perché lo avete arrestato? È cittadino messicano, non ha fatto niente di male”.
“Lei è moglie? Sorella? Parente?”
“Siamo venuti in Messico per sposarci.”
“Allora non posso dirle niente”.
“Perché?”
“È il regolamento”.
“E non posso nemmeno vederlo, cinque minuti soltanto?”
“Nessuno può vederlo finché non lo vede l’avvocato”.
“Quale avvocato? Rafael non ha un avvocato”.
“L’avvocato d’ufficio”.
“E quando viene, l’avvocato d’ufficio?”
“Quando sarà libero. Non è in città. Viene quando può. Una volta la settimana, una volta al mese, dipende.”
“Come faccio a sapere quando verrà, come faccio ad avere notizie?”
“Non è parente. Non può avere notizie. Provi domani, o un altro giorno. È il regolamento”.

Stavamo nel Maine. Io tenevo i bambini di una famiglia benestante, Rafael puliva la piscina. La signora ci ha licenziati quando ha scoperto che dormivamo insieme. Siamo venuti in Messico per sposarci. Rafael parlava di una grande festa con tutta la famiglia, diceva che sua madre mi avrebbe prestato il suo vecchio abito da sposa. Io non volevo tutto questo. Mi bastava Rafael. Ora penso che se ci fossimo sposati da un giudice di pace lungo la strada sarebbe stato meglio, perché adesso avrei il diritto di stargli vicina anche se è in prigione.

La prima sera sono tornata al motel stanchissima e da sola, dopo aver girato per strade che non riuscivo più a distinguere e a memorizzare, tentando più volte di tornare nei pressi della stazione di polizia con la speranza che fosse cambiato qualcosa.
Mi sono persa più volte, poi ho riconosciuto il motel dall’insegna illuminata: una pin up di neon blu elettrico che si staglia fluorescente contro il blu più denso del cielo notturno. La sua luce sguaiata e fredda mi entra nella stanza e si distende sulla metà vuota del mio letto. Il bagliore blu si irradia sulle pareti, sullo specchio, sulle mattonelle sbeccate del pavimento. Rende fosforescente la sacca dei vestiti di Rafael rimasta aperta e abbandonata accanto all’armadio. Mi guardo le mani nel buio, e sono blu. Ho mangiato qualcosa in camera, al buio, ed era blu. Non il blu delle piscine, né quello degli occhi dei tre bambini del Maine. Piuttosto il blu di un grottesco obitorio, o di un laboratorio di quelli dove studiano virus letali, o materiali radioattivi. Il blu falso e freddo delle navette spaziali. Il blu osceno del pesce al fosforo. Nulla di gaio, in quella luminescenza submarina. Nulla di rasserenante, nulla che aiuti a dormire. Si spegne all’alba, come evaporata in cielo, e la pin up diventa invisibile mentre per strada cominciano a passare camion, motociclette, i rumori della nuova giornata.

Vado alla stazione di polizia ogni giorno, da due settimane. Forse tre. Forse un mese. O una vita.
Cittadina americana.
Non è parente.
L’avvocato d’ufficio non si è ancora fatto vivo.
Non è consentito lasciare messaggi, né pacchi.
Non è moglie, né sorella.
Non ha diritto ad avere notizie.
Non insista.
È il regolamento.

Lavo le mie cose nel lavandino. A Rafael non mi permettono nemmeno di portare un po’ di biancheria. Ho trovato con grande fatica il numero di telefono del consolato americano, ma dicono che sono affari interni e loro tutelano solo i diritti dei cittadini americani. Si offrono tutt’al più di facilitare il mio rientro negli Stati Uniti, se voglio. È il regolamento.

La pin up mi aspetta tutte le sere. Ormai credo di aver capito che in fondo è una brava ragazza, forse finita male per colpa di qualcun altro. Una brava ragazza ingenua come me. La notte mi copre di blu, stende su di me il lenzuolo blu della sua e mia insonnia. Penso che siamo sole tutte e due, e che non sappiamo più cosa stiamo aspettando da tanto, tanto tempo. Perché qui i giorni passano e non succede niente.
E io sto finendo i soldi.

Contributo all’EDS Il blues del blu della Donna Camèl (qualcuno fermi quella donna!) insieme a:

Diavoli blu di Dario
NY Blues di Singlemama 
Colori di MaiMaturo
La linea blu di Singlemama
Il blu dell’universo che non c’è di Lillina
Morte nel blu di Lillina
Il trattore di Pendolante
Crossroad di Call me Leuconoe
Le ore scure (grigio, rosso e blu) di Marco C.
I won’t let you down di Hombre
Onde
di Calikanto
Fever di Cielo (AKA Fevarin e carnazza)
Diritto e rovescio
di La Donna Camèl
Diritto e rovescio due, la vendetta di La Donna Camèl 
So long di Brux 
Davvero non lo so di Hombre 
L’automobile di Pendolante 
Non importa di Lillina

I cavalieri che fecero l’impresa

I cavalieri siamo noi, tutti blogger, ed eccoci qua nome/cognome/indirizzo:
*ClaCielosopramilanoDario D’Angelo, Fulvia, Hombre, La Donna Camèl, Lillina,   MaiMaturo, Melusina, Pendolante, Singlemama.

La condottiera, in groppa a un cammello dall’espressione vagamente sardonica tipo tiprendoperilculomaèperchémistaisimpatico, è l’ineffabile Donna Camèl, per la quale non esistono più aggettivi da qui ad Alpha Centhauri. Essa è la nostra editrice e a lei dobbiamo tutto, pure una pizza.

L’impresa è la pubblicazione della raccolta dei nostri EDS incentrati sui 5 Sensi + 1.
Il titolo (che prevede altre uscite fino a creare una collana di EDS sui temi più pazzeschi che intelletto umano possa concepire) è Quaderno degli EDS: i sensi. Titolo molto più sobrio e professionale del contenuto, ci teniamo a dirlo.

Lo volete?
Beh, compratevelo, no?
E per non fare discriminazioni vi offriamo sia la versione cartacea che quella digitale. Che poi non si dica che siamo anche snob, oltre al resto che già pensate di noi…:-)