A me mi

A me mi vorrei chiedere scusa per tutte quelle cose che avevo promesso e non ho fatto.
Perché volevo danzare Lo Schiaccianoci, correre i 100 metri alle Olimpiadi, scavare nella valle del Serengeti, fare il cardiochirurgo, diplomarmi al Conservatorio in pianoforte e direzione d’orchestra, imbarcarmi come mozzo sulla Vespucci, soprattutto diventare una scrittrice, e invece non ho proprio avuto tempo.
A me mi vorrei però anche ringraziare per la pazienza, a volte il fatalismo, più spesso la tenacia e facciamo anche per l’impulsività che qualche volta mi ha pagato e per il resto mi ha dannato, ma pure insegnato. E per l’ottimismo e per il realismo, che insieme formano il pragmatismo che io dico che è la cosa più utile che ho. Senza dimenticare la voglia di fare e un tot di immaginazione che bene o male dà un senso a tante cose che ne avrebbero poco o niente.
A me mi vorrei suggerire di prendermela più comoda, di volermi un po’ più di bene, di dedicarmi un po’ più di tempo tipo per oziare con un gatto addosso o farmi una lunga manicure o cazzeggiare su word come adesso, senza scopo né di lucro né di altro. Soprattutto quando è novembre e piove. E di fissare quanto prima un alberghetto da poco ma affacciato sulla spiaggia per il prossimo giugno senza provare il minimo senso di colpa, che è poi – il senso di colpa – la rogna più brutta di cui soffro e che è ora di mandarla al diavolo una volta per tutte (sapendo come si fa, se qualcuno me lo insegna).
E infine a me mi darei una pacca sulla spalla (la sinistra, ché la destra è fottuta), vecchia mia che cadi eppure sei sempre in piedi, che di cose ne hai fatte comunque, di buone e di cattive, tante inutili, qualcuna speciale, come le mie figlie, come l’inventario della biblioteca e altre due o tre che adesso non ricordo. Avanti così, che ormai di cambiare più di tanto non c’è rimasto granché di tempo, pure se la voglia ci sarebbe.

E smettila di stirare anche gli stracci della polvere.

E curati quella spalla.

Hai capito? Ci sei? Mi ascolti?

A me non mi ascolta mai nessuno.

*    *    *

campagna (anomala) di sostegno a A TE TI, di Sonupueti, votabile qua
(votabile nel senso DA VOTARE ASSOLUTAMENTE E SUBITO ! ! !)

aderiscono alla campagna:
A noi ci di La Donna Camèl
A egli gli di Hombre
A voi vi di Lillina 

La pappa!

Questa è vera quant’è vero Iddio, tramandata negli annali della mia famiglia come una delle pagine più pittoresche e significative della prima infanzia di me medesima, quella me medesima che, nata sotto il segno dell’Acquario, già in tenerissima età manifestava intraprendenza, talento artistico e doti creative.
Era una bella estate sul finire, al Lido passava la Mostra del Cinema (fu l’anno di Rashomon, per illustrare il livello) e sulla spiaggia attricette e parvenus si facevano immortalare dai fotografi, mentre nelle serate danzanti dei grandi alberghi impazzavano le musiche elettrizzanti di Perez Prado.
Io avevo mesi pochi ma sufficienti a gattonare e a progettare guai, ragion per cui nei momenti di maggiore indaffaramento mia madre mi neutralizzava deponendomi all’interno di un box con sbarre di legno. Mi ci trovavo, contro ogni mia volontà, anche il mattino di quella famosa telefonata. Il telefono lo avevamo da poco, e infatti a poco serviva. Lo avevamo messo più che altro in caso si dovesse chiamare il pediatra, perché quasi nessuno dei nostri parenti e conoscenti lo aveva. La nonna, per esempio, che abitava a Venezia, non lo aveva. Quella santa donna, per avere notizie della sua prima nipotina, si alzava all’alba, puliva casa, preparava il pranzo per il nonno, prendeva il vaporetto e in un’oretta, pian pianino, fermata dopo fermata, sbarcava al Lido e si presentava a casa nostra con la sua sporta piena di piccoli doni umili.
Una che aveva invece il telefono era la più cara amica della mamma, e con lei stava parlando quella mattina di bel sole, finestre spalancate e Tico Tico dalle radio di tutte le case vicine.
Io nel box mi annoiavo. I giocattoli li avevo già gettati tutti sul pavimento, avevo tirato anche un po’ di strilli nervosi e tentato inutilmente di scardinare le sbarre, ma quelle due ne avevano, da raccontarsi. Avessi avuto una sorellina, un fratellino, un gatto. Ma vennero tutti dopo, col tempo..
A proposito di gatti, lo sai cosa fa un gatto quando non sa più come attirare la tua attenzione? Ti fa gli scherzoni. Ti rubacchia la penna, ti fa cadere un soprammobile, ti graffia il divano, finché non gli dai retta.
Io feci la cacca.
E dato che avevo mangiato la pappa di carote, feci la cacca di pappa di carote, per colore e consistenza perfettamente identica, giusto un po’ differente quanto a odore. La feci, l’osservai e mi dissi che com’era entrata così era uscita, tale e quale. Arancione e papposa. E siccome non mi era nemmeno piaciuta, l’idea di averla trasformata in cacca fu un po’ una vendetta.
Solo che non è tutto qua. Una marmocchia di pochi mesi è perfettamente autorizzata a fare la cacca nel box, non c’è nulla di cui rimproverarla, soprattutto se la mamma è temporaneamente distratta altrove.
Bisognava aggiungerci il tocco speciale, quello che avrebbe trasformato un evento naturale in un monito degno di essere ricordato.
Così, mentre la mamma continuava a parlottare al telefono, io con le manine sante cominciai a raccogliere la santa cacchina papposa e a spalmarla coscienziosamente dappertutto, sulle odiate sbarre, sul pavimento di cartone, sulle gambette nude e, con maggiore abbondanza, sul bel musino lentigginoso che mi ritrovavo e che tutti volevano sempre sbaciucchiarmi. Tracciai pennellate spontanee secondo una tecnica di mia invenzione (successivamente copiata da certi pittori astratti) ottenendo interessanti effetti cromatici e soprattutto materici, e avrei continuato a perfezionare la mia performance se ad un certo punto non mi fosse venuta a mancare la materia prima.
Finita la telefonata, la mamma mi trovò così, placida e orgogliosa della sontuosa opera pittorica che mi circondava e di cui facevo parte. Un quadro vivente, e olezzante. Mi sentivo come mi sarei sentita tante altre volte nella mia vita, in futuro: appagata per un atto artistico originale, come quando metto la parola fine a un racconto perché ormai quello che avevo dentro è uscito tutto (sì, ammetto che il paragone è imbarazzante, potete astenervi da battutacce ovvie).
Qui il biografo dice solo che a mia mamma cascarono le braccia, sorvolando con eleganza sulla scena isterica che ne seguì, e che sfociò in una nuova telefonata di sfogo, stavolta a mio padre, il quale non la prese tanto bene e minacciò di sciogliere il contratto con la Telve. Poi però non lo fece. E neppure mia madre mi fece più la pappa di carote.

*    *    *

Scherzosamente scritto per l’Eds arancione del grande cocomero, bandito dalla Donna Camèl che ormai tutti ben conoscono…
Leggi gli altri:
Matilda di Dario
Condomini di La Donna Camèl
PC gate di Lillina
Giuseppe di Pendolante
Essere Johann Cruijff di Hombre
La torta di amarene
di Calikanto 
Notte insonne con gatti rosso arancio di Angela
Jamaica discromatica di Cielo
In pirlo veritas di Singlemama
Tequila sunrise di Leuconoe
La stessa tonalità di Marco C.
Il quadro capovolto (1a parte) di Fulvia
Pronto soccorso di La Donna Camèl
Maracaibo di Lillina 

Uomo Nero, pfui

Immagino che dovrei aver paura perché è buio e sono da sola in una casa molto grande e vecchiotta che di notte emette rumori tutti suoi, cigolii, schiocchi, tonfi ovattati di natura ignota.
Perché al minimo alito di vento le frasche della pergola si strusciano sulle imposte come mani di zombi che tastano per entrare.
Perché ci sono troppe porte e finestre dalle quali potrebbero introdursi Assassini e Uomini Neri, approfittando delle tenebre del giardino e del chiarore meno che cimiteriale dei pochi lampioni della strada.
Perché il posto è fuori mano e non passa una pattuglia a pagarla oro malgrado lo stillicidio di furti in appartamento degli ultimi mesi.
Perché non ho manco più il cane, che in ogni caso non faceva la guardia perché aveva paura del buio e dormiva dentro.
Perché ci sono tante scale, corridoi, angoli, stanze oltre le cui soglie potrebbero annidarsi, nell’oscurità, i Nemici, gli Stupratori e i Troll.
E poi perché sto scrivendo una storia de paura per l’eds della Donna Camèl, con dentro ingredienti che terrorizzerebbero Jack lo Squartatore.
Invece macché: sono qua che mi godo queste notti solitarie, con la lampada da tavolo che staglia le ombre delle mie mani come lunghi ragni nervosi e il lugubre gocciolio di un rubinetto incrostato nel seminterrato. E la storia de paura dell’eds, invece di farmi paura, mi fa da ridere, anzi mi diverto così tanto che non ho nessuna fretta di finirla. Ma sono a buon punto: mi mancano giusto un paio di fantasmi.
Poi magari voi siete più impressionabili e la troverete terrificante, chi lo sa.
Io intanto mi è venuta sete e scendo in cucina a bere qualcosa. Rigorosamente senza accendere alcuna luce, come farebbero i gatti.
E io ho sempre saputo che dentro di me, e nemmeno tanto nascosto, c’è un gatto.

Meteoropatia

Sta cambiando il tempo, me lo sento nelle ossa. Si risvegliano vecchie ferite di guerra, frecce di indiani alla spalla rimediate nel cortile dell’oratorio, e sfregi di pugnalate alla schiena da mani ignote (il solito fuoco amico di, appunto, amici, quando non parenti). La caviglia duole al solo ricordo della tendinite del liceo, mentre una stretta ai fianchi ripercorre la notte di un travaglio finito male e il cuore si avvita intorno a vecchie aritmie di natura che definire psicosomatica è stato comodo quanto sbrigativo.
Dovessi dire dove mi fa male, risponderei dappertutto. Mi fanno male i distacchi, anche i più lontani; quelli, anzi, ancora di più. Certi hanno richiesto il trambusto di porte sbattute con tale violenza che i lampadari oscillano ancora; altri si sono consumati nell’evanescenza della viltà, come topi o insetti che spariscono nelle fessure di una vecchia casa abbandonata. E mi sento io, quella vecchia casa abbandonata dopo un trasloco penato, come quello dell’estate che finisce, o più che finire avvizzisce, scolora, perde nerbo, da stendardo ruggente nel sole si fa straccio che dondola mezzo morto su un filo, ingrigito di polvere e acqua sporca.
Qualcosa nel mio metabolismo ha bisogno di calore, quel calore che altri definiscono canicola e ne odiano la spossatezza. D’estate me ne ricarico come una lucertola, o forse come una batteria solare. Poi eccolo il settembre, che mi spegne. Quest’anno, poi, senza lasciarmi nemmeno un po’ di abbronzatura per esorcizzare tutto il grigiore che mi aspetta.
Settembre è il giro di boa, quello vero, quello che avverto sotto pelle. È ora che finisce, se non un anno, un ciclo, e il prossimo lo vedo come una lunga attesa di nuova estate, con tanta luce, il sole pieno, i colori decisi che tengono a bada le ombre. Ci saranno sere lunghe di nebbia o di riflessi sull’asfalto, spiate dietro i vetri con le mani sul calorifero; e dietro gli alberi spogli sarà molto più difficile immaginare un mare, una spiaggia con gli ombrelloni e una risacca vigorosa che ride mentre le vado incontro.
Quest’anno è andata così. L’anno prossimo farò meglio. Adesso mi preparo a combattere la mia resistenza contro il mio nemico fisiologico, il freddo. Chiamiamola meteoropatia.
O nostalgia.
O malinconia.
Oppure solo vecchia voglia di andar via.

la foto Mademoiselle Anita è di Robert Doisneau (1951) 

L’estate mia

La luna che sorge stasera dietro il filare di pioppi è quasi tonda, quasi rossa e un po’ fumosa. Sembra una caramellona appiccicosa, e non mi stupirei se ne cominciassero a colare goccioloni gelatinosi come nel racconto di Calvino.
L’estate mia si misura in queste lune, in quei pioppi, che quando un po’ di vento passa attraverso le loro altezze ricorda il fruscio delle pinete a mare, quel fruscio che annuncia la risacca prima ancora che il terreno diventi sabbia affacciandosi sulle dune. Ma dietro i pioppi musicali dell’estate mia non ce n’è, di mare; c’è il parco di una villa veneta con le imposte sempre chiuse, e oltre ancora l’argine di un fiume che più volte ha fatto i suoi bei malanni e che comunque del mare non ha né l’odore né l’incanto.
Di canto c’è quello dei grilli e quello delle cicale. Di odore, quello dell’asfalto e della gomma surriscaldati, che persistono anche nel buio. I fossi sono cicatrici secche lungo i campi stremati, e tremolano in lontananza campanili di borghi che fanno ombra alle tende rosse di piccoli mercati.
L’estate mia è ferma al semaforo deserto di un paese alle due del pomeriggio, scenario abbacinante come un villaggio di cartapesta in Arizona, con due sole comparse che leccano pigramente un gelato davanti alla vetrina dell’agenzia immobiliare.
L’estate mia sono i nordafricani e le badanti slave accampati sotto gli alberi giovani del giardinetto, a far passare ore più inutili delle altre circondati da sacchetti di plastica e sandali rotti.
L’estate mia si misura nelle levate mattiniere con la testa piena di idee e una piccola riserva di energie per tentare di realizzarle contendendo le ore all’afa che poi arriva inesorabile già dopo il caffè; l’estate mia è correre comunque per battere il tempo, quello dell’orologio e quello meteorologico, perché più corro e meno sento il caldo. Il caldo lo sento tutto la sera, quando mi fermo quasi senza aver prima rallentato, e il contraccolpo è di quelli che fanno stramazzare sul letto in posizione di resa, mentre l’inattesa sensazione di conforto alla schiena in quell’alveo morbido e fresco è così inebriante da far girare momentaneamente la testa. E non è ipotensione. È solo annientamento nel benessere e coscienza di averlo meritato.
L’estate mia è annebbiarmi dentro un libro mentre fuori sale quella luna che dicevo e cantano quei grilli di cui sopra, finché gli occhi cominciano a socchiudersi e arriva benedetto il sonno, che durerà poche ore prima che tutto rinasca e si ripeta.
Ma l’estate mia me la tengo stretta, non ho fretta di consumare queste giornate che alludono all’imminenza di una vacanza, in cui mi muovo leggera vestita di poco e mi ricarico come una lucertola al sole. Non ho fretta di tornare a coprirmi, contare gli spiragli della nebbia, chiudermi dietro una finestra rabbrividendo nelle sere precoci. L’estate mia è quando ogni giorno, per il solo fatto che c’è il sole, potrebbe succedere qualcosa di bello, una bella corsa, un bel gelato, una voglia improvvisa di ballare, un ricordo felice che torna, una sorpresa della vita, lo stupore di una nuova storia da raccontare.
L’estate mia è una promessa di mare vecchia come me, e come me sempre incompiuta.

nell’immagine: Paul Gauguin, Donna polinesiana con mango, 1893

Sei giorni e cinque notti

In questi giorni sono in vacanza, e infatti sto scrivendo da una località di villeggiatura segreta ed esclusiva: casa mia.
Casa mia è l’albergo più comodo e tranquillo che conosca (dei pochi in cui sono stata, vabbè), perché dentro ci sono tutte le mie cose, quelle che quando parto (le poche volte che parto, vabbè) non posso mettere in valigia. E poi è tranquillo perché io sono l’unica ospite, non so se mi spiego.
In vacanza uno cosa fa? Fa quel che gli pare, e io è appunto questo che sto facendo. Mi alzo quando mi pare (intorno alle 5 di mattina), vado a letto idem (verso mezzanotte, diciamo), faccio la doccia all’ora che mi pare senza dover badare a non disturbare qualcuno, mangio quel che mi pare e quando e soprattutto se mi pare. Tipo che da domenica non ho più acceso un solo fornello, ho riempito il frigo di iogurt all’albicocca e tanti saluti. Sono in vacanza: non cucino, non apparecchio, non lavo piatti, non aziono lavatrici né folletti né moci o ferri da stiro.
E siccome sono in vacanza e in fondo mangiare e dormire occupano solo frazioni modeste della mia giornata, per il resto del tempo mi dedico senza rimorsi alle cose che piacciono a me. Che si sa che più di tutto mi piace occuparmi di libri, e nella fattispecie in biblioteca. Quindi, full immersion, orario pieno e anche qualche bella botta di straordinari, tanto sono volontaria e non mi pagano neanche l’orario normale. Però con questo stato d’animo vacanziero, rilassato, svaccato di cui godo in questi giorni, sto dando il meglio di me, proprio perché la libertà di non essere attesa da nessuno a casa è qualcosa di impagabile. È questo che mi fa sentire in vacanza: per pochi giorni ho solo me stessa cui pensare, e pare poco?

C’è un unico inconveniente, in tutto questo, e non è la solitudine (ma quando mai?). È che ho sempre la dannata paura di chiudermi fuori di casa. Quando esco devo controllare più volte (diciamo un numero irragionevole di volte) di avere con me le chiavi, perché se resto chiusa fuori, certo, potrei suonare alla vicina, chiederle di telefonare, ma a chi? Sono tutti in giro per il mondo, e in ogni caso non ricordo i numeri dei loro cellulari. Perciò l’unico aiuto che potrebbe darmi la vicina è permettermi di telefonare a un fabbro che venga a scassinarmi la porta.
Sempre che non sia in ferie anche lui, probabilmente a Sharm.

Qua sono, e dove sennò?

Se venite in biblioteca in questi giorni, mi trovate sempre. Anche la mattina. Almeno fino al ritorno del Capo dalle ferie, perché dopo riprenderò il mio orario esclusivamente pomeridiano, in rispetto delle altre mansioni che mi spettano in qualità di (trovo sempre abnorme definirmi così anche dopo tanti anni) casalinga.
Venite e mi trovate. Se non mi vedete subito, abbiate fede: ci sono, ma magari imboscata tra gli scaffali o nel magazzino, oppure al mio posto ma troppo piccola per emergere dietro gli scatoloni. Se sono visibile, probabilmente sono impegnata in ricerche al computer, o sto telefonando e ricevendo telefonate, o riordinando libri e quotidiani. Se sono visibile ma solo con la coda dell’occhio, è perché sto saltando come un grillo da un computer all’altro, da uno scaffale all’altro, alla velocità di superman e con l’agilità dell’uomo ragno. Se riuscite a fermarmi, rivolgetemi pure qualunque domanda o richiesta: dimostrerò con un largo sorriso la mia attenzione ai vostri problemi e tutta la volontà traboccante di risolverli. Più sono ardui e più mi vedrete luccicare negli occhi la felicità per la sfida. Mi metterò al vostro servizio e per voi troverò l’introvabile e consiglierò l’inconsigliabile, anche facendo forza su me stessa, sul mio naso che ha il vizio ineducato di storcersi facilmente, quello snob.
Volete una lettura da ombrellone? Vi accompagnerò personalmente allo scaffale di Sparks (che poi sta vicino a Danielle Steel) e lì vi lascerò da soli a scegliere nella più completa libertà e riservatezza, astenendomi da commenti. Occhio che un po’ più in là c’è Steinbeck: evitatelo, per voi è veleno.
Volete tutta la bibliografia di Cristina Benedetta Parodi? Vi procurerò la sua opera omnia richiedendola ad altre biblioteche più spendaccione e meno selettive, e vi avviserò dell’avvenuta consegna in tempo reale via telefono o mail. Ce la fate a mangiare cose decenti nell’attesa delle sue ricette sciagurate?
A un mese dal prestito vostro figlio non riesce ancora a staccarsi dal librino cartonato di quattro pagine con il trenino e gli orsetti? Niente paura, segno che il bimbo è sensibile: ve lo prorogo per altri sei mesi, d’accordo? Così intanto il pargolo cresce e magari passa a qualcos’altro, tipo Stilton che va sempre come il pane e poi è molto formativo. Mica come Rodari.
Avete finito di leggere un libro peso e sentite il bisogno di disintossicarvi con qualcosa di più estivo? E qual era il libro peso? Hornby? Capito, siete maturi per passare a Kinsella: tutto un altro mondo. Non badate al mio sogghigno, un attimo di debolezza e non sono riuscita a trattenerlo.
Cercate Coelho, Faletti, un thriller scandinavo, una saga celtica, un fantasy nostrano, l’autobiografia di un calciatore, le rivelazioni di Paolo Brosio, la dieta Dukan, una guida della Patagonia? Se non li ho in casa, rastrello tutto il sistema (98 biblioteche, mica niente) e Dio mi fulmini se non ve li trovo.

Se invece siete all’antica, leggete col cuore, cercate la vostra vita vera e inconfessata in quella dei personaggi, amate pesare il valore della singola parola, rabbrividite di commozione nello scoprire che un libro vi capisce come mai nessuno prima, godete sulla vostra pelle e nelle vostre occhiaie l’insonnia del bibliofilo perché leggere è la cosa più bella che abbiate imparato a fare, è la salvezza dell’anima dalle sabbie mobili, dalla pece, dalla bonaccia sterile, dall’omologazione rincoglionente, dall’inesauribile stupidità dei vostri simili che non leggono, se la lettura per voi è insieme linguaggio, musica, immagine, realtà e sogno, azione e riflessione, stimolo e sostegno, ragione di vita, infinito amore, beh a voi darò il meglio di me. Chiedete, e cercheremo insieme, e insieme troveremo e insieme ci innamoreremo, illuminandoci d’immenso. Grazie di esserci. 

ps: no, perché stamattina una liceale mi ha chiesto un libro che si chiama Otello, non sono sicura ma credo sia di scespir

Io per voi

Mi vedo tra qualche anno, invecchiata quanto basta per avere ormai vinto la paura di invecchiare, libera da ogni seppur fisiologico residuo di vanità, in sereno accordo con le rughe e i capelli bianchi, deliziata dal diritto di indossare vestitini neri a fiorellini come quelli di mia nonna e magari la sua crocchia così femminile, le scarpe morbide per passi piccoli e silenziosi, le vene sulle mani che ispirano tenerezza, una fragilità da rispettare.
Mi vedo tranquilla, compiuta, su una poltroncina di vimini sotto una pergola di bignonia che confina con la spiaggia. Perché per allora mi sarò guadagnata la casetta bianca direttamente sulla sabbia, fresca dentro e con i papaveri, i girasoli e il basilico tutt’intorno.
Sarò più vecchia ma non per questo amerò meno il sole, e lo prenderò fin dal mattino presto, curando un orto minuscolo e un susino che gronderà di frutti. Non per l’età temerò di nuotare nel mare, immergendomi a picco fino a raccogliere nubecole di sabbia fine sul fondale.
Riemergerò forse con il cuore un po’ veloce e lo riposerò stesa sotto il cielo pulito finché avrà ripreso il suo ritmo, ma quella botta di vita avrà ridato la carica alle arterie un po’ annaspanti, ai muscoli delle gambe un po’ in declino.
Per allora, i miei cari staranno tutti bene, saranno chi guarito chi sistemato, tutti al sicuro e in grado di farcela. Così potrò occuparmi solo di me stessa, della casetta bianca, dell’orto e della bignonia, dei libri che non ho finito di leggere e di quelli che non ho finito di scrivere. Mi prenderò un po’ di riposo dalla vita, riscuoterò tutte le ferie maturate e non godute, e i crediti in sospeso – beninteso dopo che avrò saldato tutti i debiti. Sarò come una gatta placida e saggia che non contempla nel suo universo (lo disconosce geneticamente) anche il solo significato astratto della parola “problemi”.
Comunque, niente panico: lascerò un recapito e il telefono acceso. Al bisogno, chiamatemi.
Io per voi ci sarò sempre.

Mi colgo viva

Stasera ho voglia di scrivere, ma non perché qualcuno legga. Di scrivere e basta. Di cogliermi nell’atto in cui vivo, per dirla con Luca Massaro che spesso mi illumina.
Di dire a me stessa che sì, il caldo, l’afa, le zanzare, lo sfascio dell’economia, i disoccupati e i precari (ne ho in famiglia), i pensionati in crisi di identità (ne ho anche di questi, ma non sono io), gli acciacchi e le frustrazioni (di questi e quelle, a volontà), le ansie e le depressioni (velo pietoso), il colesterolo che rappresenta paradossalmente una quota patologicamente e congenitamente significativa dei miei poco più di 40 chili di peso, la routine domestica che mi ha sprofondata nel rigetto più assoluto di ogni operazione di cucina, l’imminenza di appuntamenti di carattere sanitario che mi coinvolgono non direttamente ma comunque come se, le incertezze del futuro per tutti e per chi amo in particolare, la sensazione oggettiva dell’accorciarsi del tempo a disposizione e del direttamente proporzionale accumulo di rimpianti, e insomma che malgrado tutto questo e magari altro che ora può sfuggirmi perché ci sarebbe anche da menzionare lo spettro della progressiva smemoratezza che mi insidia sempre più da vicino, ecco malgrado ciò ci sono momenti nelle mie giornate in cui mi colpisce improvviso, in mezzo al marasma, un raggio di assoluta certezza interiore, quella di essere al centro di un fugace ma riconoscibilissimo attimo di felicità. Di quelli che esplodono in silenzio dentro il petto come un fiore di fuoco nel cielo estivo notturno, ma senza audio. Nel breve tempo che le faville ci mettono a ricadere leggere sbiadendo, prima che la realtà torni ad appiattirsi intorno alle solite cose terrene, raggiungo la profonda coscienza del privilegio di essere io. Donna comunque sia, madre per sempre, bibliotecaria innamorata, e aggiungiamoci lo stupore – ancora adesso – lo stupore felice di sentirmi nascere dentro una frase, un’immagine, una storia come questa, e di riuscire a scriverla.