Mai contenta

La domenica pomeriggio, che uno dice  me la tengo libera così ci faccio solo le mie cose, oppure dormo, mi stravacco, leggo a oltranza, macché invece riesco sempre a mandarla in bianco e a contare le ore perché arrivi un sano lunedì.
C’è qualcosa di morboso nel poter oziare la domenica pomeriggio. Mi pento di aver già finito le lavatrici e stirato tutto. Mi merito un’oretta di pisolo ma quando mi sveglio ne esco rincoglionita e con la sensazione colpevole di aver buttato il tempo senza recuperare un minimo di carica.
Guardo la posta: il deserto. I blog per lo più osservano il riposo domenicale. Twitter non fornisce abbastanza riempitivi a una che odia contare i caratteri. La tele percarità (infatti era accesa quando mi sono addormentata). C’è stato anche un gran premio di formulauno. L’ideale per dormirci sopra.
Oggi pomeriggio qua al paesello deve esserci stato un evento grandioso, a giudicare dall’affluenza di macchine nel piazzale della chiesa e aree limitrofe. Facile che sia stata la cresima, per come è in tiro la gente che sta uscendo adesso. Non sono informata, mi interessa solo che facendo manovra non mi tirino sotto qualche gatto.
Altro non è successo. Qua al paesello se non è una cresima è un funerale, poi basta. Il massimo della suspense è quando succede qualcosa sulla provinciale e si vedono i tir e le auto in fila a passo d’uomo per un po’, poi arrivano le sirene e, al caso, l’elicottero. La speranza di vedere laghi di sangue sull’asfalto attira in strada tutti i paesani. Poi chiedetemi come mai in tanti anni non ho socializzato con nessuno.
Lo so che da domani ricomincerò a fare programmi esaltanti per il prossimo week end. Dormirò, non cucinerò, avrò tutto il tempo per riprendere la mia traduzione o preparare quella serata monografica su D.F.Wallace, o anche per ridisegnarmi con calma le sopracciglia. Tornerò la sera dalla biblioteca di corsa, preparerò la cena di corsa, non vedrò l’ora di chiudere la giornata a letto con un libro sul quale mi addormenterò sognando la domenica. Poi la domenica arriva e io sono la solita sprecona e la cambierei volentieri in un giorno feriale qualunque in cui non sento mai il bisogno di fustigarmi per non aver fatto un granché. Nemmeno strapparmi le sopracciglia.
Ho trovato. Vado a lavarmi i capelli, almeno sarò occupata per un quarto d’ora. Anche venti minuti, se me la prendo comoda.

(nella foto: Angelino non ha di questi problemi)

Binario giardino

“Beh, allora? – mi fa l’Unicorno, occhieggiando un po’ preoccupato tra le frasche.
“Allora cosa? – ribatto svogliatamente, e anche un po’ trafitta dal senso di colpa.
“Possibile che tu non abbia niente da raccontare? – insiste incredulo.
Possibile sì. Mica sono una macchinetta. Mica scrivo per contratto. Mica posso raccontare sempre stupidessi. E neanche mi va troppo di spacciare brodini tiepidi.
A chi vuoi che interessi sapere che oggi la vicina qua di fronte ha avuto i giardinieri tutto il giorno? Hanno depilato la palma, scarnificato l’olivo, squadrato le siepi a parallelepipedo e tornito gli arbusti a sfere tutte uguali. Uno spettacolo pietoso, un’elegante carneficina. Metti una cesoia in mano a un uomo, e questi sono i risultati.
Vale forse la pena scrivere un post per informare che nel pomeriggio, in biblioteca, il mio francese è stato provvidenziale per assistere due nuovi utenti provenienti dal Burkina Faso? E che è anche arrivata la fotocopiatrice nuova, e che ho già capito che non imparerò mai a usarla?  Del resto non avevo ancora finito di imparare a usare quella di prima.
Emozionante ma non da prima pagina è la notizia che, prima di cena, ha telefonato la figlia italo-haitiana-parigina per annunciare che venerdì ha un colloquio di lavoro e che intanto ha inviato i documenti per quel corso alla Sorbonne. Per adesso studia,  fa un po’ da baby-sitter ai bambini della signora di sopra e impara a usare il suo nuovo Mac (a parte il Mac, il resto fa molto bohème, no?)

Io da qualche giorno non scrivo, è vero, però giuro che leggo. Leggo libri e leggo blog. Trascuro, e non vogliatemene, quelli di ricettine di cucina, sfoghi sentimentali, consigli cosmetici, anticipazioni sulla moda e discussioni sul calcio.
E scriverò, questo è certo, quando mi capiterà qualcosa di più originale di quanto esposto sopra. O quando arriverà l’anticiclone, perché non so a voi ma a me ‘sto tempo mezzo e mezzo, né carne né pesce, più freddo che caldo mi fa un effetto vagamente narcotico. Mi sembra di stare seduta da giorni in una sala d’attesa aspettando un treno che non arriva. Ma non è che lo abbiano soppresso. È solo in ritardo. E quando arriverà ci salirò su e racconterò la sua storia.
Anzi quella storia forse ce l’ho già in mente, pensa un po’. L’incipit potrebbe essere “La notizia dello scoppio della guerra ci sorprese in villeggiatura“.
Dovrebbe funzionare.

XX, XY e varianti

Sono passati anni dall’ultima volta che mi sono innamorata di un uomo. Innamorata di quell’amore che si prova su base ormonale tra generi diversi, e nel mio non raro caso anche sulla base di (spesso stolte) fantasie. Di quell’amore, infatti, che affetto da incurabile miopia vede solo ciò che vuole vedere ed è pertanto destinato a misere disillusioni. Ora gli uomini non li amo più, non così almeno. Anche perché i miei ormoni, quelli che mi spingevano verso di loro, hanno avuto la loro parte più che a sufficienza, e non posso proprio lamentarmene (tranne per certe numerose eccezioni in cui mi è andata buca, ciò va detto a onor di verità).
Che non ami più gli uomini non significa purtuttavia che ora ami le donne. In generale non le ho mai amate né su base ormonale né caratteriale e meno che meno corporativa. Sono una donna, questo ho sempre pensato, non una consorella, un membro di un club, una pecora di un gregge, un numero di una categoria. In confronto a certe donne, potrei definirmi un uomo. Oppure più donna di altre. Tutto è relativo.
Dunque chi amo non è necessariamente uomo o donna, anzi finalmente sto mettendo in pratica un mio vecchio e radicatissimo concetto circa l’aleatorietà e la forzatura dei generi.
Voglio dire, chi oggi come oggi mi attrae, mi interessa e potrebbe anche facilmente innamorarmi sul piano intellettuale è la persona intelligente. Tutto qua. Né maschio né femmina né neutro. Distinzioni bizantine, puerili, da ragionieri. Ciò che mi seduce è l’intelligenza. Oltre non vado, non cerco e non chiedo.
Se qualcuno esprime pensieri intelligenti, mi interessa.
Se qualcuno scrive bene codesti pensieri, ancora meglio.
L’idea di conoscere e magari interagire con una persona intelligente mi procura un confortante senso di sicurezza. Mi affido alla sua intelligenza, me ne sento protetta. Ascolto il verbo di una persona intelligente, e credo fermamente che con esso  – quel verbo – mi salverò. Una persona intelligente rivestirebbe per me il ruolo paterno e quello materno, e anche quello dello zio sornione che fa le sorprese ai nipoti e quello della nonna angelica che li aiuta a uscire indenni dai casini. La persona intelligente legittima i miei errori e le mie baggianate, perché io non sono altrettanto intelligente, e ciò è bene, è bene avere qualcuno più intelligente di noi cui ricorrere per riconciliarci con la nostra inferiorità. Non credo convenga essere troppo intelligenti: è molto meglio lasciare che qualcun altro si prenda questa responsabilità al nostro posto, così passeremo a lui le nostre domande idiote e lui, anzi lei, la persona più intelligente di noi, misericordiosamente e con grande fair play ci fornirà tutte le risposte, gratis e volentieri.
Per mia personale esperienza, raccomando di cercarsi questo faro di intelligenza fra le conoscenze virtuali. Il ricorso alla loro protezione potrà essere fatto entro la discrezione di uno scambio di pseudonimi salvando così l’amor proprio di entrambi, e chi s’è visto s’è visto.

Mi manda Google

Tra i molti motivi che alimentano il mio strisciante senso di colpa c’è la consapevolezza di deludere il mio prossimo spesso e volentieri. Vorrei essere sempre all’altezza delle aspettative, della fiducia e dell’interesse di cui – indegnamente – vengo fatta oggetto. Per esempio, se in biblioteca un utente mi chiede di fargli una fotocopia fronte-retro, vado in panico e spreco mezza risma di fogli prima di imbroccare la procedura giusta. Me la cavo con un sorriso da imbranata e mille scuse.
Ma non so come cavarmela con quegli utenti virtuali che, per certe loro ricerche specifiche e della massima importanza, si affidano a google e da lì vengono indirizzati al mio blog, evidentemente sulla base di una fiducia malriposta (o di un sistema di selezione all’ingrosso?).
Nell’elenco delle chiavi di ricerca che portano a me, spicca al vertice e con incolmabile vantaggio – che per di più si consolida ogni giorno che passa – il termine (in sé rispettabilissimo) casalinga. Immagino la delusione di chi ci casca, alla ricerca di ricette di cucina o diari erotici che da me non troverà mai. Sto pensando seriamente di sostituire in tutto il blog quel termine ingannevole con un altro privo di ogni ambiguità, ma qualcosa mi dice che potrei cadere dalla padella nella brace oppure confondere le idee di chi mi legge (e pure le mie).
Al secondo posto ci sta un prestigioso Chagall. Questo mi sta bene, Non so se starebbe bene anche a Chagall, però.
Altri avventurosi arrivano qua sperando di risolvere problemi pratici (stanno freschi, io ho già i miei). Vorrei tanto capire come si possa pensare che melusina sia in grado di informare su ingranaggi per tirare acqua dai pozzi oppure come nascondere il water o ancora cosa mangiano i gabbiani. Al massimo potrei accontentare chi cerca prosecco e gatti che fanno cose strane.
Mai nessuno, finora, che Google abbia rimbalzato da me alla ricerca di fanfaluche.
Strano, dal momento che il mio blog ne è pieno.

De senectute

Oggi se ne va anche la seconda figlia. Fra poche ore si imbarcherà al Marco Polo di Venezia con il suo cervello e la sua laurea magistrale da 110 e lode che qui in Italia finora le hanno fruttato solo qualche mese in un call center, sei-ore-sei di supplenze e decine di lefaremosapere. Sembra che a Parigi invece sappiano cosa farsene, del suo patrimonio culturale e caratteriale.
Tornerà spesso, è vero, e andremo a trovarla, vero anche questo; purtuttavia lascia la casa per volare, d’ora in poi, in proprio. E la casa resterà ancora più vuota.
Vedere da qualche giorno tutte queste valigie in giro mi suggerisce alcune considerazioni sulla vecchiaia. La mia, che magari non somiglia a quella di nessuno. E che comunque è ancora indietro; diciamo che sta imparando.
Razionalmente (ma neanche tanto), ho cercato di analizzare vantaggi e svantaggi.

 Vantaggi:

– Prima di agire, penso. Non fosse che per ricordare cosa avevo in mente di fare.
– Sparite le emicranie, ricordi giovanili.
– Aumentata la voglia di leggere e la capacità di selezionare la letteratura dalla fuffa.
– Allentati, in quota significativa, certi freni inibitori che mi ingessavano la scrittura.
– Aboliti i miei compleanni, che cominciavano a sapere di commemorazioni.
– Libertà di non essere omologata né omologabile.
– Comodità di permettermi piccoli lussi politicamente scorretti (tipo cenare con cioccolata e pan biscotto).
– Il fascino della prima, piccola macchia su una mano.
– Liberazione dalla trappola psicologica del fasciarsi la testa prima del tempo.
– Orgoglio di poter dire: i Beatles? Io c’ero! 

Svantaggi:

– Dover ricorrere a internet perché l’elenco telefonico è scritto troppo in piccolo anche per i miei occhiali.
– Le pastigliette da prendere la sera.
– La spalla che duole quando cambia il tempo, e non è una vecchia gloriosa ferita di guerra ma una vigliacca periartrite scapolo-omerale.
– Non mi ricordo più il colore naturale dei miei capelli.
– Ho perso il gusto di seguire il tennis dopo che si è ritirato anche Agassi.
– Il frigo è coperto di post-it con promemoria.
– Nei parcheggi perdo la macchina.
– Per risparmiare memoria, ho rinunciato a imparare il mio numero di cellulare. Non avevo scelta: o quello o il pin del bancomat.
– Ragiono ancora in lire: basta moltiplicare per due i prezzi in euro.
– Calcolando, per eccesso, di vivere altri 30 anni, e confidando, per eccesso ancora più spudorato, di mantenere fino all’ultimo la luce della vista e quella dell’intelletto, quanti libri mi restano da leggere? Ecco, su questo non ci dormo. E dato che non dormo, leggo.

 Buon volo, coniglietta.

Blacklist

 

Chiamatemi snob, ma io ho una lista lunghissima di crimini linguistici che mi fanno venire la pellagra. Appartengono in genere alla categoria “non-so-né-leggere-né-scrivere-né-articolare-un-pensiero-tutto-mio-per-fortuna-che-ci-sono-i-luoghi-comuni”.
Alcuni esempi illuminanti e ampiamente, quotidianamente e asfissiantemente sfruttati dai giornalisti dei tg (elenco provvisorio e in permanente aggiornamento, sono gradite segnalazioni, astenersi perditempo):

– una manciata di
Ragioniamo terra terra, cos’è che si misura a manciate? A casa mia, ciò che sta in una mano, tipo cereali e legumi, tipo sassi o biglie o bottoni o spiccioli, tipo caramelle o cioccolatini, e nella peggiore delle ipotesi medicinali in pillole. Non certo edifici in muratura (una manciata di case arrampicate sulla collina) o intervalli di tempo (solo una manciata di secondi ci divide ormai dalla mezzanotte).

– mozzafiato
Ma non c’è proprio un altro aggettivo più definito per descrivere un panorama o un thriller? Mozzafiato lasciamolo alle curve delle siliconate, che tanto si accontentano di un linguaggio rudimentale e dubito possano capire certa inarrivabile duttilità ed eleganza della nostra lingua.

– un vero e proprio arsenale
Ahò, ma possibile che tutti i depositi di armi clandestine ricadano sotto questa ritrita definizione? I giornalisti la usano come slogan sensazionalistico mentre commentano i filmati dei carabinieri reduci da (altro slogan) un blitz culminato in un maxisequestro.

umanitario 
Sono perplessa sull’uso di questo aggettivo in riferimento a un evento catastrofico.  Umanitario non significa che coinvolge  molta povera gente, ma che ama e soccorre molta povera gente. Le catastrofi, casomai, le vedo disumane, ma forse sono io che ho l’orecchio troppo esigente.

– la morsa del gelo
Ma insomma, sforzatevi un cicinìn, trovate un’altra formuletta, perché questa la recitate drammaticamente quanto meccanicamente a ogni piè sospinto, fino a farle perdere il reale spessore. E per favore siate seri, quando torna un po’ di sereno non annunciatelo con frasette rubate alle poesiole di prima elementare, tipo il sole ha fatto capolino.

attenzionare
Ricordo ancora la corsa in bagno che ho fatto tre anni fa quando, all’apertura dei lavori di un convegno internazionale a Venezia, una docente di Letteratura dell’università di Ca’ Foscari si è compiaciuta di inserire nella sua dotta prolusione questo abominevole verbo.

piuttosto che
Spiegatemi per favore l’uso dissennato di quel malefico piuttosto che, che secondo certa moda vigente sarebbe equivalente al semplice, banale e plebeo o (disgiuntivo). Spiegatemi perché piuttosto ha perso questo suo italico valore per assumere quello di una congiunzione, con tutte le ambiguità del caso. Questo blog lo bandisce, sia chiaro.

assolutamente sì, assolutamente no.
Eddai, pare tanto brutto dire solo o no? Cosa ci aggiunge, l’assolutamente? Un’autorevolezza inconfutabile? Un’enfasi gratuita anche se (o proprio perché) state dicendo, come vien da dubitare, una falsità?

MAIcrosoft
Ma voi dite mAIcroscopio, mAIcrosecondo, mAIcrofrattura? E allora perché ogni microsecondo che passa devo sentir dire MAIcrosoft? Micro viene dal greco, per Zeus!

– su mission, step e quant’altro la mia tastiera si è ribellata. Quando è troppo è troppo, dice, passiamo oltre.

– trovo anacronistico definire anziane le persone già a partire dai 55-60 anni. Allora i novantenni ancora vigili e autosufficienti di cui la vecchia Italia è piena li dovreste definire decrepiti. L’età media e la qualità della vita nella terza e quarta età si sono molto alzate: aggiornatevi, cribbio. Ma non tanto da coniare un ipocrita diversamente adulti, perché so che ne sareste capaci.

– trovo poi ingiustificabile definire premier il presidente del consiglio. Se non sbaglio, la moda è entrata in vigore con Berlusconi, io prima non mi ricordo che si usasse questo anglicismo. Oggi invece, oltre al premier, abbiamo al ministero della giustizia il Guardasigilli e alla presidenza delle regioni dei Governatori (perché non Vicerè, magari?). Il Lavoro è diventato il Welfare. E poco ci manca che il medico legale sia rinominato coroner. Il massimo dell’ipocrisia è aver promosso le entraîneuses a escort. Sono sicura che in italiano esiste il termine corretto per questa categoria, anche se in questo momento non mi viene in mente.
Manie di grandezza di un’italietta proprio piccola piccola, e fondata sulle banane.

ps: anni fa, a un convegno medico, ho sentito un relatore italiano pronunciare all’inglese il vocabolo latino placebo. Con ineffabile disinvoltura, lo ha trasformato in un plassibo che mi procurato all’istante una crisi convulsiva. Da quel giorno non sono stata più la stessa.

La calata dei barbari e il calo della cultura

Ne parla, pur senza esprimere nulla che non sia già evidente a chi ha un minimo di sale in zucca, Pietro Citati sul Corriere cultura di oggi.
A margine, mi permetto di dissentire – ma a puro titolo personale, e anche a nome di alcune casalinghe di Voghera come me – sulla scelta dei due libri portati a esempio di letteratura alta eppure di successo degli ormai arcaici anni settanta. L’insostenibile leggerezza dell’essere l’ho trovato insostenibile e presuntuoso; l’altro, Le nozze di Cadmo e Armonia, dopo un avvio entusiasmante, mi ha stremata.
Inoltre a Kafka aggiungerei, per dirne uno, Steinbeck.
Per fortuna, a scuola fanno leggere Calvino: tutto sta a cosa ci capiscono.

 ps: secondo me, un pezzo come questo di Citati avrebbe potuto scriverlo, rendendolo anche più accattivante ed esaustivo, un qualunque blogger di medio livello.

Freud chi?

Ieri SpeakerMuto ha sognato un matrimonio. Nel post spiega anche il motivo, che sembrerebbe sgombrare il campo dalla più banale delle supposizioni, ossia che SM sia innamorato e stia seriamente pensando di sposarsi.
Io stanotte ho sognato tutt’altro: un wc sporco. Ma non sporco, proprio lurido, luridissimo. Un sogno umiliante, perché in realtà i bagni di casa mia godono di uno splendore impeccabile, a prova di ispezione dell’ufficio di igiene a qualunque ora del giorno e della notte. Sono la mia mania e il mio fiore all’occhiello. Ho perfino stampe di impressionisti alle pareti. Il sogno però aveva un significato per me chiarissimo. Diceva: “Dai, alzati e mettiti al lavoro. Le tue cinque ore le hai dormite, ora è tempo di ricordare che sulla tua carta di identità c’è scritto casalinga, mica duchessa di Cambridge. E scommetto che non hai ancora pensato a cosa cucinare per pranzo”. [invece sì, tiè]
Un sogno che faccio abbastanza spesso mi vede riprendere il mio lavoro in ospedale. Indosso il camice e torno in corsia, fra i rallegramenti di colleghi e infermiere, ma mi tremano i polsi perché, malgrado sia consapevole di stare solo sognando, sono altrettanto consapevole che in questi anni ho smesso di aggiornarmi ed è già tanto se mi ricordo i fondamentali. Anche questo sogno è lampante, e dice: “Vecchia mia, tu hai grossa crisi. Chi te l’ha fatto fare di rinunciare alla tua vocazione per la famiglia? La famiglia?? Brava furba che sei stata. E adesso pedala”.
Oppure sogno qualcuna delle case in cui ho abitato in passato. Qui potrebbe inserirsi tutto un discorso sulle radici troppo spesso estirpate, oppure sulla veridicità del detto “signora mia, si stava meglio quando si stava peggio”, ma temo che il significato di questi tuffi nel passato sia un altro: invecchiando, la memoria recente comincia a smagliarsi (cos’ho mangiato ieri sera? boh), mentre si potenzia la memoria remota. E più remoto del giorno in cui i miei genitori sono tornati dall’ospedale con mio fratello appena nato in braccio non ce n’è: io avevo meno di quattro anni.
Per sognare il giorno in cui hanno portato a casa me in fasce, si tratta di invecchiare ancora solo un altro po’.
Buona giornata.
E controllate la pulizia dei vostri wc: quelli dell’ufficio d’igiene mica avvisano prima, quindi chi la fa li aspetti.