Il Mago e l’Ingegnere

Non ci sono più i calzolai di una volta, quelli neri neri infrattati in antri neri neri zeppi di scarpe accatastate come rifiuti. Quelli con un grembiulaccio nero nero che pareva incatramato, uno sgabellino zoppo per sedersi, un deschetto fra le ginocchia, una scarpa (apparentemente sempre la stessa e comunque mai la tua) infilata sul supporto, gli arnesi sparsi intorno e soprattutto cera untuosa ovunque, vischiosa, densa, nera nera anche lei, miracolosa, col suo odore penetrante che graziaddio neutralizzava la puzza inevitabile. Antri neri neri senza finestra, solo la porticina sgangherata per entrare, tenuta aperta d’estate ma ben chiusa d’inverno perché dentro c’era al massimo una stufetta. E sempre una radiolina a transistor che andava in sordina, musichette tipo liscio da balera, magari intervallate da dediche ingenue per compleanni o nozze d’oro. Tu portavi le tue scarpe a risuolare e quando ti affacciavi a quel buchetto nero nero e odoroso, dove non ci si poteva neanche muovere e lui, il calzolaio, neanche si alzava per prendere le cose perché gli bastava allungare un braccio e arrivava dappertutto; quando ti ci affacciavi era come tornare indietro di cent’anni, ai tempi in cui immaginavi i tuoi nonni giovani, in cui ci si scaldava con la stufa e ci si faceva luce con le lampade a petrolio, e tutti erano più poveri e semplici e portavano lo stesso paio di scarpe per anni e anni finché proprio non si potevano più riparare. E ti pare di entrare in un altro mondo senza la televisione, senza internet, senza il traffico e la musica da discoteca, perché lì dentro si suona solo il liscio di Casadei e del mondo si vede ciò che raccontano le scarpe e poco altro (raccontano molto, in verità, basta rifletterci un attimo; ma non ora).
E poi c’era la solita pantomima: “Per quando me le fa?”
Lui non ti dava mai una risposta precisa. Prendeva le scarpe, le girava, le studiava arrivando anche a slabbrare di proposito la bocca della scollatura, a squartare ciò che restava del tacco da rifare, a slargare con un ditaccio nero nero il buco sulla suola per valutare l’entità del danno; poi con indifferenza le lanciava sul mucchio di scarpe in attesa e tornava a occuparsi della scarpa sul desco, incurante della tua domanda e anche di prendere nota del tuo nome, cosicché ogni volta te ne andavi senza un risposta e col fondato timore che le tue scarpe potessero essere consegnate a qualcun altro.
Poi cominciava il tira e molla. Tornavi almeno una volta la settimana a sentire se erano pronte, e non lo erano mai. “Provi a tornare la settimana prossima – ti bofonchiava ostile, senza neanche guardarti perché stava ancora accudendo alla stessa scarpa della prima volta. Così per mesi. E non ascoltava solleciti né minacce. Solo il giorno che raccoglievi tutta la tua esasperazione e andavi apposta per farti restituire le scarpe e portarle da qualcun altro, ecco allora potevi star sicuro che quello era il giorno giusto, le tue scarpe erano pronte, rinate, con rattoppi invisibili, la suola rinforzata, i tacchi sanissimi, i buchi calafatati e l’aspetto lucido e impeccabile come le calzature del principe di Galles, il tutto per quattro lire e un’incazzatura che tutto sommato ti passava subito, perché il Mago aveva fatto il suo incantesimo. 

Oggi pomeriggio ho dovuto prendere la macchina e raggiungere un centro commerciale per trovare un calzolaio. Uno di quelli moderni. Ha una postazione asettica, ampia e luminosissima di fronte alla libreria; sul bancone ci sono in mostra modelli di chiavi (fa anche quelle), cinture, targhette di metallo con incisioni personalizzate, prodotti per la cura delle scarpe, un bel computer e ovviamente il bancomat. Tutto pulito e in ordine, a cominciare dal calzolaio che ha l’aspetto di un tecnico specializzato, col suo camice immacolato, gli occhiali da ingegnere e le mani curatissime. Per 8 euro, e in soli venti minuti (durante i quali ho visitato la libreria e sono riuscita senza il minimo sforzo a non comprare nessun best-seller) mi ha rifatto la suola alle ballerine color antracite, quelle che mi piacciono tanto perché sono morbide e silenziose come pantofole, e poi il grigio sta con tutto.
Mentre me ne tornavo a casa sentendomi miracolata, non ho potuto fare a meno di pensare, per un attimo, che tutta questa efficienza, in fondo, ha ucciso la suspense.

Ho scritto t’amo sulla sabbia

Volevo postare qualcosa prima di andare a cena, dopo una giornata di lavoro intenso, le solite fisime come di chi si sente perduto se non ha lasciato la propria impronta di pensieri nella rete.

Così comincia il post Uno spettro s’aggira per l’Europa pubblicato dall’amico Luca Massaro lunedì scorso. Un blog che non manco mai di leggere, il suo, e che ringrazio perché i suoi spunti sono più che quotidiani. È da lunedì che ci ripenso, che mi trovo pienamente immedesimata in quella urgenza di postare qualcosa la sera, qualsiasi cosa purché tutte le sere o quasi, come a concludere la giornata prima di assolvermi e meritarmi qualche ora di sonno.
Quello che mi chiedevo è perché lui, io e chissà quanti di voi proviamo questa esigenza.
Non tutti i giorni c’è qualcosa di interessante da raccontare o da mettere in discussione; spesso ci soccorre il cazzeggio, che è pratica alquanto terapeutica e rasserenante se entro limiti salutari (altrimenti rischia di tenerti sveglio a sghignazzare tutta la notte; succede, succede).
È il vecchio interrogativo del “perché scriviamo”, esteso al “perché comunichiamo”. Non possiamo farne a meno, verrebbe da rispondere facendo spallucce. Scrivere, scrivono tutti, cani e porci. Comunicare, comunichiamo tutti tutto il giorno, a voce, per telefono, per mail. Anche telepaticamente con chi siamo in particolare empatia.
Ma è “lasciare un segno” il problema. Verba volant, tranne nelle telefonate registrate, e scripta manent, a patto di non bruciare i fogli di carta o di non formattare il computer. Tutto ciò che mettiamo fuori di noi digitando distrattamente o appassionatamente, impulsivamente o compulsivamente, se ne va in giro, in orbita intorno alla Terra, e si stampa negli occhi e nella testa di qualcuno prima che possiamo pentircene e cancellare.
Perché ci permettiamo questo abuso? Richiamare l’attenzione su se stessi è un abuso. È mitomania. O che altro è? Solitudine, forse? Oh sì, spesso. Incompatibilità con la vita reale e ricerca di rifugio in quella virtuale? Sicuro, anche questo.
Per me è scrivere è naturale come bere l’acqua, l’ho sempre fatto. Ho sempre scritto principalmente per me, scrivo le cose che vorrei leggere. Poi non è affatto detto che siano le cose che vorrebbe leggere qualcun altro, ecco perché, prima di internet, le tenevo ben chiuse a chiave. Poi è arrivato internet, così diabolicamente tentatore anche perché ti illudeva di poter restare anonimo, di potertene liberare senza lasciare tracce.
Mica vero. Tutt’al più, è uno strumento attraverso il quale tenti di soddisfare un bisogno ancestrale: quello delle conferme. Scrivo e pubblico, dunque esisto nero su bianco. Qualcuno legge e commenta, dunque esisto anche per lui. Su linee virtuali che misteriosamente si intersecano e a volte misericordiosamente si puntellano a vicenda. Seppure fugacemente, seppure casualmente, seppure perfino ingannevolmente.
Bisogno di sicurezza.
Voglia di tenerezza.
Eccetera eccetera, chiedete agli strizzacervelli che hanno sempre una risposta, solo che sei tu che non la capisci.

Lasciare un segno.
Segni sono le orme di un fossile, impresse nella sabbia che le ère hanno calcificato. Le mie, preferisco siano quelle di due piedi nudi sulla linea di risacca, delle quali, un attimo dopo, non resta che qualche fugace perla di schiuma subito riassorbita dall’onda successiva.
Lasciare un segno a chi? E perché? I segni hanno senso finché sei lì a poterli spiegare, ma se li lasci liberi in orbita chi ti assicura che non verranno letti dalla persona sbagliata o nel modo e nel tempo sbagliato? Non potrai più controllarli, dopo averli liberati. Non ti apparterranno più. Saranno di tutti e di nessuno. Globalizzati e perciò confusi in un gran calderone che non fornisce più indicazioni ma solo borbottii sconclusionati.
I segni che lascio scrivendo sono per me. Vorrei fare in tempo a cancellare tutto, a formattare tutto prima di perdere il controllo su ciò che, comunque e per forza, resterà di me. Non posso assumermi la responsabilità di come verrà letto dopo che non ci sarò più. Dopo che non ci sarò più, non potrò più spiegare a nessuno che, se scrivo, se ho sempre scritto, non è per lasciare un segno ad altri, ma per darne uno a me stessa: il segno che esisto e che sono io, questa qui e non un’altra. Scrivere mi identifica nei confronti di me stessa. Scrivere mi rivela a me stessa. Non penso al futuro, a lasciare un patrimonio di memorie a qualcuno, ma bensì a chiarire ogni giorno il mio presente. Cerco di spiegarmi a me stessa, perché alla resa finale dei conti non ci sarò che io, e in quel momento mi sarà utile poter presentare una giustificazione almeno minimamente plausibile.
Scritta, naturalmente.

Ve la do io, la scrittura creativa

Vi dico come è andata. Sono nata in una casa piena di libri e in un’epoca in cui solo pochi ricchi avevano il televisore. Noi ovviamente non eravamo ricchi, se non di libri. Hai detto niente.
Mia mamma era sempre assorbita da altri due bimbi più piccoli e – diciamolo pure – malaticci. Non so se a loro raccontasse le storie; forse erano davvero troppo piccoli, oppure lei era troppo occupata a mescere sciroppi e lavare panni a mano (anche la lavatrice l’avevano solo in pochi, gli stessi che avevano il televisore, suppongo). A me comunque non le raccontava, perché la sera era stanca. Un dato di fatto, non una colpa, intendiamoci.
Ma la solitudine genera fantasia, soprattutto se si ha la fortuna di crescere fra pareti foderate di libri. E fu così che cominciai molto presto a raccontarmele da me, le storie. Ben prima di andare a scuola, con un anno di anticipo, e di aver imparato a leggere, cosa che mi riuscì con la facilità con la quale i pesci imparano a nuotare. Le storie mi nascevano da sole, la sera, dopo che mi avevano fatto spegnere la lucetta sul comodino. Ed erano anni in cui si andava a letto presto, soprattutto chi, non avendo il televisore, non poteva nemmeno accampare la scusa di vedere almeno Carosello.
Così è andata. È andata che ho cominciato a raccontarmi le storie da sola quando avevo cinque piccoli anni, e da allora non ho più smesso. E più avanti ho cominciato anche a scriverle, quelle storie. Prima solo per me, poi a volte anche per altri. Ma sempre così, come mi venivano, come mi erano nate. Tutto qua.
Ora abito in una casa ancora più piena di libri di quella in cui sono nata, e alle mie figlie, che ormai sono donne, ho raccontato storie finché me lo hanno permesso. Ho raccontato loro non di Cenerentola o del Brutto anatroccolo, bensì di Ulisse e Polifemo, e di Jean Valjean e di Cosetta, e di Jane Eyre e Rochester.
Poi un giorno hanno smesso di ascoltarmi e hanno scoperto Beautyful.
Io invece le mie storie me le racconto ancora e per me sono sempre nuove, così ogni tanto mi dico massì, perché no, e le racconto anche a voi.

Come una farfalla

Butterfly

Le cose succedono per due motivi: o perché le facciamo succedere noi, o perché le fa succedere qualcun altro. Naturalmente, spesso ci fa comodo attribuirle al Caso, ma il Caso mica esiste: il Caso non è altro che un concorso di circostanze, alcune deliberate e altre meno, nelle quali, con pazienza, è sempre possibile identificare le responsabilità di qualcuno. Anche gli eventi naturali sono prodotti da qualcosa, da meccanismi messi in moto da qualcuno: uno sciatore scriteriato può innescare una slavina, un disboscamento speculativo può causare uno smottamento, un esperimento nucleare può determinare crolli sotterranei e quindi terremoti. Una farfalla batte le ali a Samarcanda, e a Caracas un maestro elementare si becca un raffreddore sull’autobus che lo porta a scuola. Insomma, circa.
Però ho notato che le cose succedono con una velocità e una varietà inversamente proporzionali all’età del soggetto. Le cose succedono più spesso e sono più significative quanto più si è giovani; poi a una certa età rallentano, o smettono.
A me ne succedevano tante, me lo ricordo. A periodi, era arduo starci dietro, per farlo ero sempre di corsa e dormivo poco per non dimenticarle. Certi giorni, erano talmente incalzanti che la sera mi ritrovavo a piangerci sopra dalla stanchezza.
Adesso invece chissà dove sono andate. Per succedere, le cose, succedono; ma succedono più agli altri che a me. Eppure mi pare di non avere mai smesso di mettercela tutta per farle succedere, ma si vede che non basta più, non come una volta. E’ come se le cose che mi succedono, ormai sempre meno e sempre più insignificanti, fossero solo quelle che faccio succedere io stessa; è come se gli altri non mi vedessero neanche, o si fossero dimenticati di me, di mandarmi le conseguenze delle loro azioni perché diventino cause che mi riguardano, di intervenire – anche da Samarcanda o da Caracas – per portare novità e cambiamenti nella mia vita.
Ogni mattina mi alzo e mi dico: “Oggi faccio succedere qualcosa. Ma cosa?”.
E mi metto anche io a battere le ali, come quella farfalla.

Beato chi ci crede

acquario

Uau, secondo Brozsny, oggi le stelle sono con me. Guardate un po’ cosa prevedono e caldamente suggeriscono agli Acquari:
Per quanto riguarda le autorità astrologiche, hai il permesso di non presentarti al lavoro. Non posso dirti se questa autorizzazione conterà qualcosa per il tuo capo o i tuoi dipendenti. Ma il fatto cosmico puro e semplice è che nei prossimi giorni dovresti fare il possibile per ridurre le responsabilità, seguire i tuoi capricci e indulgere a dolci piaceri che non riflettono in alcun modo il freddo, crudele mondo del lavoro. È arrivato il momento di vagare in un campo di fiori selvatici e di dare la caccia alle farfalle. O qualcosa di simile.
Che faccio, ci credo? Ora ci provo, eh. Se non torno, sapete dove trovarmi: in un campo di fiori selvatici, occupatissima a inseguire farfalle (che però mi guarderò bene dal catturare).
Buona giornata a voi.

Venerdì pesce

frittura

No, non l’ho preparato io: è un piatto di frittura di scampi e moleche dalla leggerezza e sapidità sublimi, come lo si può trovare solo nel mio ristorante preferito di Venezia. Perché oggi è lì che ho passato la giornata: pura evasione, e sacrosanta. Clima giusto, itinerari appartati, nessuna fretta: insomma, una botta di relax, per disintossicarmi dallo stress prolungato delle ultime settimane. Ma che dico settimane: mesi. Una giornata non basta, ma aiuta, se non altro a recuperare un minimo di di fiducia e di senso della realtà.

Al ritorno, i miei gatti hanno riconosciuto il rumore della macchina e si sono fatti sul cancello per accogliermi, mentre il cane, sul retro, si è messo a saltare di gioia come se non mi vedesse da Natale. Poco dopo è rientrata anche la figlia laureanda con le copie della tesi fresche di rilegatura: una goduria toccare e annusare quelle copertine color crema con il suo nome e il logo dell’Università. Infine, nella posta ho trovato alcune belle notizie che hanno contribuito a rinfrancarmi, a farmi intravedere migliore il domani.
Già, domani. Domani espierò con mocio, folletto, lavatrici, fornelli e ferro da stiro, ma forse ripartirò con un po’ più di carica. Ora doccia e nanna, come reclamano le mie caviglie, che oggi hanno dato il massimo dato che, quando torno nella mia città, disdegno meticolosamente qualsivoglia mezzo di trasporto e me la giro in lungo e in largo sempre e solo a piedi. Avete un’idea di quanti giapponesi riescono a stiparsi su un vaporetto? E se rimane ancora posto, ci pensano i tedeschi, i francesi, i polacchi e perfino gli italiani. E allora, in quella calca, schiacciare una buccia come me è un attimo.
Dunque, buonanotte.
E buon domani.

Due funerali e nessun matrimonio

giudizio universale

… ma il bilancio è ancora provvisorio.
In questi giorni (e soprattutto notti) passati prevalentemente a vegliare in ospedale, non ho dormito quasi nulla ma ho pensato parecchio. A cose belle, quando ho potuto. Come la scrittura. Come le storie che ho dentro e che solo io posso far uscire. Quelle storie che costituiscono il mio mondo interiore e quindi la mia identità, e non è poco.
Ma la cosa più intelligente, profonda e originale che ho pensato (dovevano essere le tre e rotti di mattina, avevo la testa che galleggiava, lo stomaco vuoto e i piedi freddi) è questa: mi piace immaginare che, dopo la morte, i buddisti andranno nell’aldilà di Buddah, i musulmani nell’aldilà di Allah, gli induisti nell’aldilà di Brahama, i cattolici nell’aldilà di Dio e chi non crede in niente non andrà da nessuna parte. E così saremo tutti contenti e così sia.
Cambiando discorso, voi come state?
Io, tranquilli, sto risalendo la china. Ho dei programmini riabilitativi che dovrebbero aiutarmi. Del tipo:
1) discutere con l’editore la copertina del libro e soprattutto averla vinta io, che so cosa voglio (e lui brancola)
2) trovarmi un’altra colf, perché ho perso sia la mia titolare (l’impagabile rumena) che la sua sostituta
3) comprarmi una borsa per l’estate, capiente e colorata, magari con perline e fiori e cazzeruoline varie stile anni ’70, i migliori della nostra vita
4) inventare un menu di compleanno per venerdì, e sarà, secondo la tradizione, un tripudio di crostacei con l’acuto finale di un semifreddo al limone
5) prenotare la parrucchiera in tempo per essere bellissima e giovanissima il giorno della laurea della mia bambina color caffè
6) procurarmi il biglietto per il concerto vivaldiano dei Solisti Veneti diretti da Scimone il 17 prossimo (interessa a qualcuno? A Piazzola sul Brenta – PD – nella Villa Contarini, antica dimora veneta di grande bellezza e splendida acustica, a 5 minuti da casa mia. Se qualcuno è in zona, mi faccia un fischio, eh)
7) scrivere storie inventate che nascano pure da quelle vere che ho vissuto in questi giorni, ma che le esorcizzino; insomma, scrivere per purificare
8) recuperare alcuni chili di peso persi per strada (chi ne ha d’avanzo si faccia pure sotto, io sto a 42 e sarebbero pochini)
9) dormire dormire dormire

A proposito, buonanotte.
Ma prima, GRAZIE a tutti: ho avuto prove di interessamento e di preoccupazione da molti di voi sia qui che in privato. La rete che ci permette di comunicare non è intessuta solo di chiacchiere ma di inesplicabili affetti che riescono a varcare la soglia della virtualità. Grazie per esserci stati e per esserci: è bello tornare a casa.

Il posto dove vorrei vivere

Imagine che ti Imagine…
… ho trovato il posto dove vorrei vivere. Guardate com’è bello:

veranda gatti

È proprio quello che fa per me: una veranda sulla spiaggia, abitata da gatti e col mare a due passi. Di esseri umani, neanche l’ombra. Se quel soriano mi fa spazio sul tavolino e quell’altro nero sulla panca, mi ci metto anche io in un angolo, con dei fogli per scrivere, dei libri da leggere, magari anche una radio o qualcosa che emetta musica, ma c’è già il mare e forse sarebbe superflua.
Al momento però non posso muovermi da qua, a causa di alcuni problemini. Un problemino ha 95 anni, un altro 90, un altro 88, altri due ne hanno 86. Cancro, depressione e deterioramento mentale sono variamente distribuiti fra tutti, in forme e entità diverse ma tutte tali da richiedere assistenza quotidiana. E pare proprio che si siano scatenati tutti contemporaneamente: niente partenze scaglionate, insomma.
Inutile dire che ho preso a odiare cordialmente il telefono, soprattutto se squilla in piena notte. I soli spostamenti che posso permettermi sono verso la casa di riposo, l’ospedale e l’hospice, con rare e fulminee scorrerie al supermercato per generi di prima necessità.
Nel frattempo, sono fioriti e profumano alla grande il caprifoglio, il gelsomino, le rose.
Nel frattempo, i miei gatti dormono tutto il giorno sparsi qua e là sul prato, e la notte rincorrono le lucciole.
Nel frattempo, conto alla rovescia per una laurea e per la pubblicazione del mio libro.
Nel frattempo, l’amore di un Uomo Speciale.
Non sono brava in matematica, ma credo che la somma algebrica dia ancora un risultato col segno più. Quello che ha sicuramente il segno meno è il tempo, ma stasera ne ho trovato un avanzo per passare di qua, constatare che c’è, nel mondo dei blog, chi è capace di tanta amicizia da venire a lasciarmi un segno anche se da giorni non mi faccio viva.
A tutti, grazie.
Vi abbraccerei, se potessi.
Anzi, vi abbraccio lo stesso.

Di mattina presto

giardino

Mi alzo presto, prima delle sei. Scendo pianissimo, per non svegliare nessuno, per lasciarli dormire più a lungo possibile e poter tenere solo per me la libertà di questa ora silenziosa e feconda, l’unica che mi appartiene veramente.
Accendo nell’ordine la macchina del caffè e il computer; riempio le ciotole dei gatti che mi aspettano mattinieri sullo zerbino; esco da loro, li conto (sì, anche oggi ci sono tutti), li saluto, mi salutano, gli do la pappa, la mangiano, stiamo tutti bene. Faccio due passi in giardino, sull’erba umida. C’è da controllare la crescita delle rose, che quest’anno mi danno qualche pensiero. C’è da vedere a che punto è la fioritura dei gelsomini, del caprifoglio, della spirea, del filadelfo, dei gerani, delle piante grasse. C’è da contare i danni, sulle mie piantine officinali, delle lumache notturne, e c’è anche da scansarle mentre, all’arrivo del sole, migrano lentissime attraverso il prato per tornare nella penombra umida della siepe.
Entro domenica devo correggere oltre duecento pagine di bozze, che l’editore rivuole indietro al più presto. Dopo quasi un anno di rinvii, siamo alle soglie della pubblicazione: il primo dei miei romanzi.
Mi siedo qui, all’aperto, con i fogli e una biro rossa; leggo parola per parola, virgola per virgola. Emozione. Ansia. È un’esperienza surreale, un sogno di tanti anni fa che adesso, davvero, si sta realizzando.
E devo sfruttare questi pochi quarti d’ora del mattino presto, l’ora migliore, prima che vengano a invadermi la mente i pensieri del quotidiano e mi portino via, tanti e oppressivi come sono in questo periodo.
Tra poco sentirò aprirsi la prima imposta di sopra, e sarà la fine della mia ora d’aria. Ho ancora pochi minuti per restare in compagnia dei miei personaggi e di me stessa, che ho messo qualcosa di me in ciascuno di loro. Ma so che mi aspetteranno. Senza di me – e io senza di loro – sono persi.

Buona giornata a tutti.

La casa dei miei sogni

cottage

La casa dei miei sogni dovrebbe essere fuori città, perché non amo la promiscuità, il rumore, il traffico, ma il verde della campagna e la quiete dei paesi.
Dovrebbe essere vecchiotta, perché amo ingegnarmi a modificare, trasformare, abbellire, e la adatterei ai miei gusti e alle mie esigenze con il piacere della creazione.
Dovrebbe essere grande, perché amo lo spazio e me ne serve tanto per sistemare le mie cose: i mobili ottocento, gli oggetti semplicemente belli e i molti anche utili, tutti i miei libri senza i quali una casa è vuota.
Dovrebbe essere luminosa, perché dalle mie finestre amo vedere il cielo e gli alberi e non il grigiore di un condominio incombente.
Dovrebbe essere comoda, perché non è detto che la bellezza non possa essere anche funzionale, e non mi tirerei indietro se fosse necessario spostare porte o muri per ottenere il massimo della praticità.
Dovrebbe essere fresca in estate, perché si possa dormirci bene la notte e senza soffocare, ma calda e protettiva d’inverno quando fuori si gela e si rincasa volentieri la sera.
Dovrebbe essere circondata da un giardino, né troppo piccolo né troppo grande, il giusto per contenere un po’ di prato verde, degli alberi ombrosi, degli arbusti da fiore, un pergolato di glicine, un angolo per le mie piantine officinali, un altro per le mie rose, un altro ancora per tutto quello che mi gira per la testa.
Dovrebbe, insomma, assomigliare a me, e starmi addosso come un vestito fatto su misura, che non smetteresti mai perché ti ci senti a posto in ogni momento.

La casa dove abito è esattamente così.
Allora, perché ho tanta voglia di andarmene?