Giugno 1968

un omaggio a Borges da una bibliotecaria mancata

Borges

GIUGNO 1968

Nel meriggio dorato
e in una serenità di cui il simbolo
potrebbe essere il meriggio dorato,
l’uomo dispone i libri
negli scaffali che attendono
e sente la pergamena, la pelle, la tela
e il piacere che dà
immaginare un’abitudine
e istituire un ordine.
Stevenson e l’altro scozzese, Andrew Lang,
riprenderanno qui, per virtù magica,
la lenta discussione che interruppero
gli oceani e la morte
e a Reyes certo non dispiacerà
stare accanto a Virgilio.
(Ordinare una biblioteca è
esercitare, in silenzio e modestia,
l’arte del critico.)
L’uomo, che è cieco, sa
che non potrà più decifrare
i bei volumi che tocca
e che non gli daranno aiuto a scrivere
il libro che lo giustifichi agli occhi degli altri,
ma nel meriggio che forse è dorato
sorride del suo bizzarro destino
e sente la felicità che è propriadelle vecchie cose che s’amano.

Jorge Luis Borges (da “Elogio dell’ombra”)

Eugenia, o il tè’

Prenderò volentieri, cara Eugenia,
una tazza di tè
dal tuo servizio a rose lievi,
trasparenti
Un tè gentile, al tiglio, alla verbena,
un tè latte e limone
e due praline, ma non più di due
(sai la mia età)
una di queste con i ghirigori
di marzapane
e l’altra, se permetti,
fondente alla violetta,
persistente al palato come un buon ricordo.
Da Vienna, vedo, ti hanno scritto
le signorine Hoffman, tue cugine
per parte di tua madre
(che pianista, ai tempi in cui tua nonna
andava a corte, si racconta;
tu fosti più modesta, suonavi dalle suore
un po’ di armonium che stonava,
e non ne avevi colpa)
Un quadrifoglio ti han mandato,
delizioso pensiero,
raccolto nel giardino del presbiterio.
La tovaglia a crochet procede bene,
a trafori e ghirlande,
pronta – suppongo – per Natale
se non ti impicceranno quei lavori
che fai per gli altri,
gli orli ed i rammendi,
colletti nuovi per camicie vecchie,
pagati poco da clienti usurai.
La pendola resiste, non hai cuore
– e fai bene –
di darla via come quei pochi argenti,
me li ricordo sai,
che facevano bello il tuo salotto
prima della guerra,
e i Limoges e i tappeti,
i paralumi a gocce di Boemia,
le volpi, le velette,
le perle in doppio giro,
e gli orecchini di corallo.
Ti resta ancora, e me ne consolo,
il sofà a fiori e frange
il poggiapiedi di velluto verde
il carillon veneziano
e la radio in cucina, là sulla credenza
forse vuota, o con poco.
Io giusto ieri ho venduto
l’ultimo quadro, quello con il faro
ed il naufragio.
Naufrago anch’io, che credi?
Ma sorrido
di questo tè gentile e profumato,
delle tue rughe e delle mie,
dell’artrite alle mani che ci fa sorelle,
delle scarpe da risuolare,
se possibile,
ora che piove spesso.
Io? Niente di speciale.
Sono stata
alla biblioteca,
poi da te per sollevarmi un poco
prima di ritornare,
ché la sera
il custode tarda sempre
a portarmi di sopra la legna per il fuoco.
Se scrivi a Vienna, manda i miei saluti.

Imagine

Sono giorni balordi, di difficili equilibri. Vediamo se un po’ di musica aiuta. Tipo questa: Imagine, di John Lennon. Per molti, la canzone più significativa del ‘900. Io dico solo che a me spezza il cuore.

Imagine there’s no heaven
It’s easy if you try
No hell below us
Above us only sky
Imagine all the people
Living for today
Imagine there’s no countries
It isn’t hard to do
Nothing to kill or die for
And no religion too
Imagine all the people
Living life in peace
You may say I’m a dreamer
But I’m not the only one
I hope someday you’ll join us
And the world will be as one
Imagine no possessions
I wonder if you can
No need for greed or hunger
A brotherhood of man
Imagine all the people
Sharing all the world
You may say I’m a dreamer
But I’m not the only one
I hope someday you’ll join us
And the world will live as one

L’imprescindibile superfluo

Un caffè forte e amaro la mattina
e la sua buona sigaretta dopo;
un goccio d’olio sui cardini alla porta
che non svegli chi dorme più di me;
che profumi al limone la cucina
brillino i piatti le caraffe i vetri;
sfornare il pane per la colazione
in tempo per chi esce e ha ancora sonno;
sole in terrazza per il mio bucato
che asciughi in fretta nell’odor di marsiglia;
cera d’api e la polvere va via
dal piano liscio della scrivania;
cadano dritte e senza false pieghe
le tende bianche dietro le persiane;
sui davanzali salvia e rosmarino
giacinti e crochi e fiori
di cactus sorprendenti;
un anno in più al mio vecchio rosaio
che ne ha visti di afidi e lumache;
il sale giusto nell’acqua che ribolle
ed il basilico sopra il pomodoro;
che torni il gatto puntuale per la cena
e non manchi la tua mail nella mia posta
la sera, se mi sento sola,
prima di andare a letto con un libro
che sappia farmi traghettar la notte.

Compleanno

Questa è vecchia, ma ci sono affezionata e la tiro fuori ogni anno

11 FEBBRAIO

Mme Matisse
Poi mi diranno
che è un regalo di compleanno,
un dono che fa il tempo,
quest’altra ruga qui,
nuova accanto alla bocca.
Così diranno,
facendomi gli auguri,
e lo accarezzeranno,
certi lo baceranno.
Ma lo so io cos’è, lo so,
quel segno:
è solo un solco lungo il viso
come una specie di sorriso.

 

Odori

(ho vissuto l’infanzia a Lido di Venezia)

Tazio

Il fumo di legna che stria la nebbia.
Il latte bruciacchiato sul fornello.
Lo zolfo persistente di un cerino.
Crema solare, plastica calda di sole.
Nafta di ferry-boat.
Salmastro di gomene attorcigliate.
Cipressi al cimitero ebraico, e gabbiani.
Gelsomino fuori da un cancello liberty.
Alito fondo dall’antro di un vinaio.
L’inchiostro e i libri nuovi, la gomma-pane.
I gigli a una madonna patrona di un’aiola.
Pane e burro nel cestino dei bambini,
all’asilo.

Maghi

Questa era l’idea per un racconto, e mi si era incastrata in testa da mesi senza riuscire a prendere forma in modo convincente. Tra ieri e oggi, invece di giubilarla e amen, l’ho condensata in una specie di nonsobenecosa, una ballata, una fiaba, insomma qualcosa pur di non buttar via tutto, che, si sa, dispiace

MAGHI

zingari

E vennero di notte
era la notte dell’ultima luna
bruna la pelle e lame in mezzo agli occhi,
con il fruscio di sandali e mantelli
il tintinnio gentile delle mandrie
(erano capri, erano giumente)
sotto le mura ad accamparsi
maghi che fossero, o briganti ripentiti
L’acqua al pozzo pagarono in contanti,
in drappi damascati e biondo rame,
ai soldati venuti a interrogarli
con le armi, ostili e con arcigno fare.
Fabbri di giorno e fate tessitrici,
nel tempo che restarono
(fu poco, in verità, da luna a luna),
la notte usavano danzare in cerchio,
e ne veniva alla città silente
i flauti ed i falò
nacchere e tamburelli
nomadi canti da stregare il cuore.
L’Infanta dagli spalti li spiava
presa d’amore e dalla fantasia.
Per un intero mese, dalle mura
non passarono più, per raro incanto,
le malattie, la morte, la vecchiaia;
nacquero figli sani e benedetti,
vi fu pane per tutti e nuove leggi.

Ripresero il cammino un imbrunire
senza un suono o un saluto, ma le tracce
dei miti ciuchi e cenere di fuochi
ed un brillio di consumate stelle.
Li ha rivisti qualcuno chissà dove
– un altro luogo di là da un deserto –
figli della fortuna e dell’azzardo
segni o sogni fugaci degli dei.