Ma davvero non li avete mai visti?

(Marc Chagall: Il Sole giallo, 1958)

Cioè, così sui due piedi non posso dire di ricordare la data esatta. Capisco che per lei, dottore, sia importante sapere quando è cominciato, e aggiungere questo tassello agli altri che meticolosamente sta raccogliendo per redigere la mia cartella clinica. Però, le ripeto, dubito di poter essere precisa come chiede lei. Posso arrivarci, diciamo così, per approssimazione, mettendo in fila con un po’ di buona volontà alcuni punti più o meno fissi del passato e cercando così di individuare una specie di linea temporale, o almeno una serie, anche non troppo ordinata, di paletti fra i quali condurre il mio più lontano ricordo come lungo il percorso di uno slalom, o di una caccia al tesoro.
Il nonno era ancora vivo, su questo giurerei. Doveva avere già avuto il primo ictus, perché me lo ricordo con la bocca un po’ storta e il braccio fiacco, e la nonna strepitava sempre nel vedere che si sbrodolava mangiando. Vecchi e acciaccati, litigavano ancora con la stessa foga e perizia di sessant’anni prima, quando i loro bisticci di sposi li sentivano dai balconi tutti i vicini (e poi sentivano anche le serenate con cui lui la riconquistava a notte fonda, chiuso fuori dal portone).
C’era anche il cugino Rodolfo, ma lui era uno che andava e veniva di continuo, cambiava idea ogni momento, quindi non è certo se in quel momento fosse tornato dal seminario e si stesse preparando a partire per Istanbul, oppure se avesse già fatto fallimento anche lì (aveva messo su un hammam) e stesse progettando di imbarcarsi per Caracas.
La zia Imelda era già vedova, questo è sicuro. Aveva anzi per le mani un nuovo possibile marito, anche se non saprei dire con certezza se si trattasse di quel commerciante di pellami con magazzino in Stiria o del maresciallo in pensione che poi si è ammalato di una specie di lupus ed è morto da solo chiuso in casa come in una tana. La zia in effetti non si è più risposata, ha continuato ad avere sfortuna con gli uomini e alla fine beveva anche molto.
Mio fratello metteva via i soldi per aprire un bar oppure un’officina. Non sapeva neanche lui cosa volesse fare, e nel dubbio è rimasto senza far niente finché è diventato così vecchio da poter andare in pensione, se solo avesse mai avuto quel bar o quell’officina.
In fondo alla strada c’era ancora quello spiazzo incolto che confinava con le vigne del conte Folco e che gli faceva tanta gola, ma il proprietario non voleva venderglielo a nessun prezzo perché non si era mai dimenticato che loro due, durante la guerra, avevano corteggiato la stessa ragazza l’uno all’insaputa dell’altro. Quella ragazza era poi la sorella della mia maestra, che all’epoca si era ritirata in un convento per affari di cuore finiti male, ma dopo un po’ si era stufata, era uscita e si era trovata in quattro e quattr’otto un marito scavezzacollo con il quale si divertiva a correre spericolatamente sullo stradone a bordo di una vecchia moto residuato di guerra. Quale fosse la guerra, non mi è chiaro: la prima o la seconda, o forse un’altra prima ancora o addirittura in mezzo fra le due. Mi scusi, non riesco proprio a essere più precisa di così.
Quindi. In conclusione. In conclusione niente, non sono arrivata a nessuna conclusione.
Quel che è certo è che adesso quel terreno incolto se l’è preso il padrone di una catena di supermercati e indovini cosa ci ha costruito? Un supermercato, bravo. Però ha dovuto aspettare che morisse sia il conte Folco che il suo antico rivale, e questo è successo un bel po’ di tempo fa, ma dopo che il bambino dei Forabosco venisse rapito nella culla dagli zingari durante la festa del patrono, e prima che il Serpio straripasse inondando la Cantina Sociale e le stalle dei Ravazzi.
Non ricordo nemmeno la stagione, pensi lei. Però non credo fosse l’inverno della grande neve, quando restammo per settimane bloccati dietro i vetri con le coperte addosso; era piuttosto la bella stagione, non so se l’estate dell’eclisse di sole o quella in cui la moglie del macellaio si annegò per amore del cappellano.
Ma venendo al sodo, io in tutto questo non so ancora bene dove collocarmi. Ero bambina? Ragazzina? Aspetti, ora che ci penso stavo facendo all’amore col Giuseppe. Già, però il Giuseppe quale, il meccanico di biciclette o il mugnaio? Perché ci ho fatto all’amore con tutti e due, questo è il fatto; prima con uno e poi con l’altro, ma in quale ordine adesso proprio non saprei dirle. Le basta così? Guardi, anche se mi spremo, di più non mi viene. Posso continuare tutta la notte, se vuole, a farle questa cronistoria slegata dei fatti della mia vita, ma se spera che da questo rimestamento bislacco possa saltar fuori qualcosa di certo e sicuro, una data almeno minimamente plausibile, credo proprio che si stia illudendo.
Diciamo, ma molto grossomodo, con beneficio di inventario, insomma a spanna, a occhio, all’incirca che più all’incirca non si può, diciamo che è stato in un lasso di tempo non meglio precisabile tra la posa della lapide ai caduti in piazza e la cresima del primogenito dei Montaguti che si può vagamente collocare il momento in cui tutto è cominciato, come dice lei. Il momento in cui, insomma, li ho visti per la prima volta.
Gli asini.
Volare.
E il guaio, il problema, la malattia, se vuole, non è tanto che continui a vederli ancora, quanto che nessuno mi creda; neanche lei, dottore. Un vero peccato che voi non li vediate, perché sono così belli, così leggiadri, così beati e sorridenti che sembrano proprio angeli.

Il verso del Tempo

Da un quadro una storia:
Salvador Dalì – Orologio molle al tempo della prima esplosione, 1954

Hai idea da quanto tempo sono qua che ti aspetto?
Dovevamo incontrarci dopo il lavoro, fare colazione insieme e parlare un po’ del nostro futuro. Era primavera. L’appuntamento era alle 12.30, ma non quelle che segna adesso l’orologio: le 12.30 di qualche èra fa, quando ancora la spiaggia era pulita, la costa non era franata, l’acqua del mare non era radioattiva e sulla Terra esistevano gli uomini e le loro città. Sono certa che ti ha trattenuto un contrattempo, uno di quelli grossi visto che non riesci tuttora a liberartene. Io nel frattempo ho sempre tenuto la postazione, soprattutto da quando ho visto sgretolarsi uno a uno i grattacieli e gli alberghi, esponendo, secolo dopo secolo, scheletri arrugginiti dopo che le radiazioni ne avevano eroso le budella.
La bomba non ha estinto la vita in un colpo solo; è stato un processo millenario di contaminazione, mutazione e interminabile agonia. All’inizio, dal deserto bruciato hanno avuto il coraggio di riemergere inaspettate forme di vita vegetale geneticamente abnormi, e fra quei cespugli macilenti si aggiravano superstiti allucinati, talmente impazziti da nutrirsi di radici infette e di acqua avvelenata, forse per morire più in fretta. L’Uomo si è estinto fra le prime specie, troppo complesso per battersi contro insetti e microbi elementari. I corsi d’acqua sono diventati canyon disseccati nel corso di poche decine di migliaia di anni, e il vento solare tuttora ne modifica in continuazione la morfologia sollevando nubi di polvere rossa che chiazza le distese di cenere fossile. Ma anche quel vento si è affievolito, come tutte le attività del Sole, compresa quella di sorgere e tramontare con un minimo di logica. Adesso per esempio è lì fisso allo zenit da tempo incommensurabile, forse perché si sono guastati irrimediabilmente certi meccanismi nell’ordine arcaico delle orbite dei pianeti. Forse perché non è nemmeno più il Sole che conoscevamo, ora che la Terra è diventato un relitto bitorzoluto e farneticante che perde rottami alla deriva. La Luna si è talmente corrosa da disfarsi in sabbia primordiale che si è posata a coprire le vette sublimate delle montagne terrestri. C’è stato tutto un lungo divenire di consunzione e involuzione di cui alla fine sono rimasta testimone solo io, bloccata qua su quella che era la rotonda sul mare dove avremmo dovuto incontrarci. Il calore senza requie ha cotto il mio orologio, lo ha liquefatto e poi temprato e fissato così come lo vedi, deforme e piangente, sempre sull’orlo di un baratro ma senza più l’inerzia per lasciarsi andare.
Come ho fatto a resistere, non lo so neanche io. Aspettarti era un buon motivo per farlo, probabilmente, e poi anche devo aver imparato a prendere il Tempo per il verso giusto.
Ma quello che ho capito in tutti questi anni e secoli e milioni di millenni è che ci si può abituare a tutto, ma proprio a tutto. All’attesa, alla solitudine, allo sconforto, al silenzio, alla bomba, alle radiazioni, alla fame e alla sete, alle domande senza risposta, all’assenza, al suo stesso ricordo.

Qui sono sempre le 12.30. Qui sono sempre io. Ho tutto il tempo per stare a vedere come andrà a finire. O forse invece a ricominciare, magari da un’ameba che, faticosamente e fra molti tentativi falliti, prima o poi metterà branchie o ali o zanne, oppure due gambe con cui risalire le rocce fino a una caverna e lì  imparare daccapo ad accendere un fuoco.

L’età dell’argento

Da un quadro una storia:
Henri Matisse – Mme Matisse, 1913

Grazie, sì, adesso sto bene. Mi sono rimessa abbastanza, da qualche giorno ho anche ripreso a uscire, adesso poi con questo sole tiepido, queste prime giornate di primavera… Ho preso l’abitudine di mettermi qui, a questo tavolino tranquillo nel parco. Mi faccio servire un tè, mi leggo un libro, mi guardo intorno, respiro. Insomma sto meglio, anche internamente. Come serenità, intendo.
È stato un inverno un po’ così, difficilino; sa, quella tosse che non passava mai. In famiglia poi abbiamo sempre avuto tutti i polmoni un po’ delicati: il povero papà è morto giovane in un sanatorio svizzero, lei capisce dunque. La mia comunque è stata solo una brutta bronchite. Vede? mi porto sempre dietro una sciarpina, per prudenza.
Sì, sono stata dieci giorni in ospedale, più che altro per precauzione. Il cuore non c’entrava, per fortuna quello è a posto. Dice però il mio dottore che mangio troppo poco, così mi fa fare delle curette a casa. Le iniezioni viene a farmele la sua infermiera in persona, una carissima signora con la mano d’oro. Poi ho tante amiche, ci sentiamo, vengono a trovarmi, oppure vado io da loro. Mia sorella è venuta a stare con me qualche giorno, appena uscita dall’ospedale, e ci siamo fatte molta compagnia. Come quando eravamo ragazzine, abbiamo passato pomeriggi leggendo libri ad alta voce.
Mio figlio insiste che mi trasferisca da lui, in campagna. Hanno una casa grande con tanto verde intorno, un posto tranquillissimo. Dice che l’aria di città mi fa male, con tutto questo smog, questa umidità. Non che gli dia torto, sa. Però cosa vuol mai, non è che abbia tutta questa voglia di cambiare. Alla mia età, poi. Ottanta, carissima, ottanta. Lei lo farebbe? Sia sincera: lascerebbe la casa dove ha vissuto quasi una vita?
Lo smog, capisco; però qui ho tutto, tutto quello che mi serve, tutte le cose che amo. Le mie abitudini, le mie comodità. Il dottore, le dicevo, che mi conosce da tanti anni; le amiche; un appartamento grande con un bel terrazzo pieno di piante, tutti i miei libri, i miei quadri, i miei armadi pieni di cose, il mio studiolo così confortevole col pianoforte e la collezione di fermacarte di cristallo. La mia libertà, capisce. La mia intimità. Sono doni che cercherò di difendere più a lungo possibile, proprio per cercare in questo modo di fermare la vecchiaia.
Sola no, non mi sento sola. Non mi sento affatto sola, e non lo sono realmente. Mi sentirei più isolata in una villa di campagna, dopo aver vissuto tanti anni in un palazzo di città.
Quando era vivo mio marito, abbiamo viaggiato molto. Sono stata in alberghi di lusso nelle più grandi capitali del mondo, ho visitato musei e castelli, però sa, ogni volta che tornavamo a casa era un bel momento. Ritrovare gli odori e i rumori di casa propria dopo un viaggio, beh è impagabile.
Non so, tutt’al più potrei pensare di svernare in Riviera l’anno prossimo. Ma è presto per pensarci, non crede? Per adesso mi godo questo inizio di primavera in città. Mi sento proprio benino. Aspetto le rondini, questione di giorni.

I più son fuori

L’ha fatto di nuovo. Ma stavolta sulla sua strada ha trovato una persona del tutto priva di umanità, comprensione e carità cristiana, benché sia il Vescovo. Un uomo di Dio. Di un Dio forse che non conosce l’ironia, e nemmeno le piccole fantasie che fanno così felici le sue creature.
Ieri mattina, domenica del Corpus Domini, le campane suonavano più festose del solito. Luigi, che è curioso e anche un po’ vanitoso, ha lasciato a metà il caffè d’orzo col pan secco e si è affacciato per vedere cosa succedeva.
“C’è la cresima, Maestà – l’ho informato.
“Ma quale cresima, oggi deve essere San Luigi, è il mio onomastico, e il popolo mi onora con una messa solenne. Presto, i miei vestiti!”
Io non discuto mai. L’ho aiutato ad agghindarsi mentre lui improvvisava il discorso da tenere, grondante tenerezza per i suoi sudditi.
“Come sto? Come sto? Sono bello? Sono regale? – mi chiedeva ansiosamente.
“Siete un Sole, Maestà – è quello che vuol sentirsi rispondere in questi casi.
“Non sei male neanche tu – ha ammesso, perché è un gran signore – Aspetta, un ultimo tocco…” e mi ha slacciato il grembiule, dopodiché ero pronta. Nel mio vestito da casa, con gli zoccoli dell’orto e tutto. Mi sono buttata in testa la parrucca della domenica, che di solito sta sullo sgabellino del gatto, e siamo usciti, lui davanti ridente e splendente, io dietro reggendogli lo strascico attraverso la piazza.
Al nostro ingresso in chiesa, tutti si sono alzati e si sono inchinati profondamente; lui passava radioso, dispensando saluti e benedicendo i neonati, mentre l’organo piantava a metà un inno sacro e intonava una marcia trionfale. Luigi, arrivato all’altare, si è subito installato sullo scranno dorato del Vescovo e si è aggiustato gli ermellini dando segno di essere pronto a cominciare. Il Parroco, sotto gli occhi allibiti del suo Superiore che aveva perso la parola per lo stupore, gli si è avvicinato con deferenza:
“Maestà, noi qui staremmo cresimando…”
“Benissimo. Date qua l’occorrente, ci penso io. E se c’è qualche battesimo, faccio anche quello”.
Era così felice di fare qualcosa per il suo popolo! I diaconi e i chierichetti subito lo hanno affiancato con turiboli e ampolle, mentre i cresimandi uscivano dai banchi e si mettevano in fila come avevano imparato al catechismo, orgogliosissimi che a ungerli non fosse un Vescovo qualunque ma il Re in persona.
Il Vescovo qualunque stava ritrovando la voce e pareva sull’orlo di una incazzatura per nulla qualunque. A poco è servito che il Parroco cercasse di prenderlo da parte e di spiegargli che il Luigi ha una sua piccola mania, assolutamente innocua, e che in paese tutti lo sanno e gli vogliono bene lo stesso, perché il Luigi, Eminenza mi creda, è un buon cristiano e un pezzo di pane, solo che è diciamo così un pochino fuori di testa. “Ma noi, veda, ci siamo abituati – diceva per placarlo.
“Abituati un corno! – sbotta il Vescovo – Questo è sacrilegio, e vi faccio vedere io!”
E se ne è andato imbufalito, non prima di avere scomunicato l’intero paese e sconsacrato la chiesa.

Così stamattina, quando sono arrivati gli infermieri e il sindaco, costernati ma costretti da ordini superiori, abbiamo capito tutti che era una vendetta del Vescovo, che invece non ha capito niente di come vanno le cose qui da noi. Le cose vanno che il Luigi ha dato un po’ di matto anni fa, per tutta una serie di motivi che chiunque con un minimo di buon senso troverebbe plausibili. Il conte suo papà, lui sì che era matto davvero: aveva titolo, terreni, villa, e si è mangiato tutto in bischerate. Quando è morto, il Luigi si è trovato con un pugno di mosche e tanti debiti, che per pagarli ha cercato di vendere la villa ma primo è sotto la tutela delle Belle Arti e secondo le Belle Arti non gli danno neanche un centesimo per restaurarla così cade in pezzi e non se la compra nessuno. Un quadro, una statua, un mobile, un incunabolo dopo l’altro, si è dovuto vendere tutto. La moglie del Luigi, visto che si era fatta tutta un’altra idea sull’essere contessa, se ne è andata ai primi scricchiolii, e lui è rimasto solo nelle sue quaranta stanze affrescate coi segni dei vuoti sulle pareti.
Le tasse, soprattutto l’ultima, quella sulle prime case, gli hanno dato il colpo di grazia. Una mattina è scappato via da questa vita ingrata e si è rifugiato nella vita di un altro, uno che sentiva più simile a sé nell’animo: un altro Luigi, il quattordicesimo di Francia, uomo elegantissimo fra l’altro, e molto amato dai sudditi.
Io sono la sua fantesca, l’ultima rimasta dello stuolo di domestici dei bei tempi. Mi chiamerei Mariuccia, ma per lui sono la Maintenon, che poi ho letto da qualche parte che era una marchesa, e la cosa non mi dispiace neanche, toh.
A volte sono anche qualcun altro. A tavola, quando gradisce un piatto, mi manda a chiamare il cuoco. Io esco e poi rientro subito, e in quel momento divento il cuoco. E lui mi colma di gratificazioni commoventi.
“La bisque di gamberi era eccellente!”
Era tapioca, senza gamberi.
“Questo soufflé è sublime!”
Era una frittatina di due uova.
“Con questo coq au vin avete superato voi stesso!”
Erano ali di pollo lessate.

Perché, Eminenza, dovete capire: lui è così, vive in un mondo tutto suo, felice e dorato, e non chiede niente di impossibile. Chiede solo che glielo lasciamo credere, e in cambio non fa del male a nessuno. Stamattina, quando sono venuti a prenderlo per portarlo dai matti (potevate risparmiarvelo, però), si è fatto trovare in pompa magna, anche se ci era appena arrivato l’ultimo avviso dell’enel che ci toglierà la luce per morosità. Agli infermieri ha chiesto benignamente:
“Dove si va?”
“All’ospedale, Maestà – gli hanno dovuto rispondere, molto amareggiati.
“Ah, benissimo! A trovare i derelitti! Giusto, giusto: porterò loro il mio conforto, voglio che sappiano che sono con loro, che sono uno di loro”.
E li ha seguiti mitemente. Tutti noi avevamo quasi le lacrime agli occhi, e anche fuori, in strada, c’era gente mogia che si era raccolta per salutarlo, fargli ala per l’ultima volta. Luigi sorrideva a tutti, li rincuorava, dava buffetti ai bambini che gli porgevano disegnini colorati, accettava mazzi di papaveri dalle donne e strette di mano dai mariti. In ambulanza l’hanno fatto sedere davanti, perché potesse salutare anche i contadini sui cigli dei campi e le lavandaie sugli argini.
E in mezzo al cielo c’era un Sole, ma un Sole! 

immagine: Le Roi Soleil, di Hyacinthe Rigaud (1701)

Cerca di capire

Da un quadro una storia:
Edward Hopper – Summer evening, 1947


È proprio questa piattezza, questa immobilità, questa voluta assenza di vibrazioni, di una seppur minima brezza, che mi affascina nei quadri di Hopper. Mi affascina quello che affiora evidente dalla fredda geometria dei suoi spigoli, dei suoi volti inespressivi. Mi affascina e mi commuove il sottinteso d’angoscia, un’angoscia giunta a tal punto da trasformarsi non tanto in disperazione (che può essere anche un passaggio transitorio da cui si riemerge) ma in definitivo disconoscimento di qualunque speranza di comunicare. Uomini e donne, le coppie e i singoli e anche i gruppi, nei suoi quadri sono pedine scompagnate di un mondo muto, fissato in un fermo immagine, senza domani. L’ieri si può immaginare, ma sarebbe un gioco sterile.

Quei due sulla veranda in una sera calda come immagino siano calde le estati negli stati americani del sud (lo immagino io, senza mai essere stata in America e senza sapere dove l’artista abbia ambientato il quadro; ma deve essere un posto dove le sere d’estate hanno quel particolare calore che nemmeno il buio allevia, quel particolare calore che inghiotte i gesti, come le braci accartocciano la carta, con lo stesso silenzioso torpore distruttore).
Chi sono, quei due? Chi sono uno per l’altra?
Potrebbero essere due innamorati.
No, non c’è nulla di innamorato fra loro, nulla di romantico.
Lui potrebbe essere passato a trovarla dopo cena, e se così fosse le starebbe raccontando quanto le è mancata tutto il giorno, quanto ha aspettato la sera per tornare dal lavoro, lavarsi, bagnarsi i capelli e correre da lei. Ma avrebbe un altro tono, un altro ardore. Non starebbe seduto sul parapetto. La starebbe abbracciando dentro il buio del prato, un po’ più in là, fuori dalla vista del pittore, fuori da quella luce cruda della veranda che, a lei, spiove sul viso tirato e le infossa gli occhi in due buchi scuri senza fondo.
Potrebbe essere comunque il suo innamorato, e la loro potrebbe essere una crisi. Ecco, lui magari, una mano sul cuore per rafforzare le parole, le starebbe spiegando che c’è stato un equivoco, è solo un po’ di stanchezza, ma niente è cambiato fra loro. Lui la ama sempre. Devi credermi, le starebbe dicendo. Ma lo sforzo di lui è così debole, così poco convincente. Lei invece, la sua bocca ha una smorfia troppo amara, e c’è troppa tensione nel suo corpo tornito di bella statua. Lontana, inavvicinabile.

Oppure è suo marito, e quella è la loro casa, e dentro, in cucina, lei ha lasciato i piatti sporchi sul tavolo per seguirlo fuori. Dobbiamo parlare, le ha detto. E lei sa di cosa. Di quel divano dove lo ha costretto a dormire da un mese. Dove lui si sente solo. E scomodo. Di quel divorzio che per lei è ormai cosa fatta, passo compiuto, decisione non più negoziabile. Vattene o me ne vado io. Lasciami libera, ché non sono più quella che hai sposato. Che è finita. Che è stato uno sbaglio. Non parliamone più, non serve, non si torna indietro. Non promettermi niente, non farmi proposte, non cercare di impietosirmi. Non offrirmi altro tempo per pensarci, perché sei tu, non io, quello che deve capire. Ma tutte queste cose lei non ha più voglia di dirle. Lascia che parli lui, e non lo ascolta neanche più. Ha la testa altrove, al buco nero della sua stanchezza, che lui non immagina neanche. E quando due, un marito e una moglie, non condividono nemmeno questo, allora è proprio finita davvero.

E se fossero, invece, fratello e sorella? E quella la casa dei vecchi genitori, sempre più sordi e esigenti? E se lui avesse deciso di andarsene, di tentare una nuova vita per il suo giovane futuro? Lui può. È un uomo. Può andare in città e cominciare dal basso, dalla gavetta, da qualche rischio.
Tu devi restare, lo capisci, vero? Devi stare con loro, non puoi abbandonarli. Ma io non posso continuare così, devo scappare da questa prigione, riuscire a combinare qualcosa di buono e poi tornare a prenderti quando potrò rendere libera anche te.
E lei lo sa che ha ragione, che deve lasciarlo andare e abituarsi a pensarlo lontano, estraneo, cambiato, mentre a lei resteranno quei due vecchi ormai incapaci di comunicare e di amare, il loro penoso egoismo, la casa che va in pezzi, le pentole nel secchiaio, il bucato alla pompa, il podere, la legnaia, le termiti. E quel caldo, e quel tempo fermo, e quella mancanza di una qualunque minima, umana, tiepida attesa, perché il pittore non l’ha prevista, gliel’ha negata in partenza, in cambio di una stasi che è come un’anestesia. O come il gelo che iberna il cuore e lo incastona in un ghiacciaio eterno.

 Il quadro è del 1947.
Quei due è da 65 anni che stanno cercando di dirsi qualcosa, e non ci riusciranno mai.

Dove siete andati?

Da un quadro una storia:
Maurice Utrillo – Rue Marcadet, circa 1910

Sono tornato.
Il mercantile ha attraccato ieri a Le Havre; la traversata l’ho pagata pulendo sentine e aiutando il cuoco. Ho imparato a cucinare in Louisiana, nella baracca di Papà Joe, dove si faceva da mangiare per i lavoranti delle piantagioni. A Le Havre ho trovato quasi subito un passaggio su un carro che trasportava merci alle Halles di Parigi. Abbiamo viaggiato di notte, siamo entrati in città nella nebbiolina dell’alba, e dopo aver aiutato a scaricare sono rimasto da solo, nelle vie ancora addormentate, a concludere questo lungo viaggio di ritorno. Rue Marcadet. Eccola, ancora distesa nel sonno, nel grigiore di un’ora opaca.
Sono stato via tanti anni, almeno trenta.
I primi tre li ho passati nella Legione straniera, dove vanno i ragazzi in cerca di emozioni forti soprattutto se, come me, non hanno niente e nessuno che li trattenga. Raccolto da un prete, sistemato in un orfanotrofio, affidato tardivamente a una coppia triste e già in età che precocemente mi aveva lasciato orfano per la seconda volta. Dalla Legione mi sono congedato per motivi di salute: una forma lieve di malaria che conferiva alla mia abbronzatura da sole del deserto una sfumatura olivastra. Con la barba, una kefiah e un caftano, passavo facilmente per un arabo. Ho fatto mille mestieri, ho girato mezzo mondo. Ho scortato una spedizione di archeologi inglesi, ho fatto il custode in un hammam di Marrakesh, il croupier in una bisca di Casablanca e il lift in un albergo al Cairo. I turisti stranieri mi lasciavano buone mance. Poi mi sono messo nei guai con una ragazza del posto, e per sfuggire al coltello di suo padre mi sono imbarcato clandestinamente su un piroscafo credendo che andasse a Tolosa. Invece era diretto in Sudamerica.
Ho posato traversine per una ferrovia ai margini della foresta amazzonica. Ho seccato tabacco in una manifattura colombiana. A Buenos Aires, a una riffa di emigrati italiani ho vinto un gallo da combattimento, e per un po’ ci ho fatto dei bei soldi.
A Caracas lustravo scarpe di fronte al palazzo della Borsa. Sul retro del giornale di un cliente un annuncio prometteva fortuna piantando aranceti in Florida; ci sono andato.  È stato un errore: un attacco della vecchia malaria mi ha ridotto male, e l’unica fortuna che ho trovato da quelle parti è stato un vecchio sciamano Seminole che mi ha curato con certi suoi suffumigi aspri, misteriosi ed efficaci.
Mi sono spostato più a nord e a ovest. Sono stato mandriano nelle praterie e tagliaboschi sulle montagne; in Texas ho macellato maiali, a San Francisco ho lavato le botti di una distilleria, a Kansas City ho pulito le gabbie delle tigri di un circo. Ho fatto il bracciante in campagna e lo strillone, il lavapiatti, il facchino in città. Ho provato tutti i mestieri e non ne ho imparato bene nessuno. Non ho mai avuto un lavoro fisso, una casa fissa, una donna fissa. Tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto a metà, rinviando il resto a dopo. C’era tanto tempo davanti, e tante strade, tanti treni, tanti carri bestiame. Le mie mani si sono sporcate di mille sudiciumi diversi, l’unico che non mi restava mai attaccato era quello dei soldi.
Fino a quel giorno, un mese fa. A St. Louis, in un quartiere affollato e caotico in piena ora di punta, mentre stavo spingendo una carriola piena di rifiuti per conto di un robivecchi che sgomberava case da demolire. D’un tratto un uomo che correva trafelato mi ha urtato, c’era qualcuno che lo inseguiva gridando Al ladro! e anzi tutta la gente intorno pareva gridare scalmanata. Questione di un attimo, e il sacchetto che stringeva in pugno è volato nella mia carriola. Il tizio non si è fermato, ha continuato a scappare, confondendosi tra la folla dopo essersi liberato della prova del furto. Quando il primo agente inferocito mi è passato accanto di corsa ho provato a dirglielo, gli ho mostrato il sacco tenendolo bene in vista, ma sia lui che i suoi colleghi arrivati dopo mi hanno spinto in là intimandomi di sparire con le mie carabattole. Sissignore, mi sono detto. Sparisco subito, con le mie carabattole e tutto.
Con quei soldi che nessuno ha chiesto indietro, potrei sistemarmi, ho pensato. Potrei aprire una piccola attività e guadagnarne degli altri. Mi piacerebbe avere un negozietto, una latteria per esempio; oppure una rivendita di vini. Comincerei modestamente, poi mi amplierei. L’idea di una rivendita di vini non mi faceva dormire la notte: mi vedevo, un po’ invecchiato e un po’ ingrassato, un grembiulone e un basco in testa, in una cantinetta con la lampadina nuda sul soffitto, qui, in questa via dove sono cresciuto, in questo paese dove si parla la mia lingua e si annusa un confortante odore di pane fresco per le strade popolari.
Per questo sono tornato, con i soldi nascosti addosso, pagandomi il viaggio col lavoro per non intaccare il mio piccolo tesoro.
Per questo tornato dopo tanti anni e fallimenti, ma non per vedere queste case scolorite, queste file di persiane chiuse, queste serrande sprangate sotto insegne sbiadite, questi marciapiedi deserti.
Dove siete andati, tutti? Avete forse smesso di esistere il giorno in cui me ne sono andato tanti anni fa, perché non vi ho mai ricordati né sognati, non vi ho mai scritto, non mi sono mai più preoccupato per voi? Dove siete andati?
Fatevi vedere, aprite quelle finestre, affacciatevi alle porte, venitemi incontro, abbracciatemi.
Perdonatemi, se potete.

I due Arlecchini

Da un quadro una storia:
Pablo Picasso – Il figlio Paulo vestito da Arlecchino, 1924

“Bravo, così. E adesso cerca di stare fermo, che papà ti fa il ritratto”.
Il papà è un grande pittore, e Manuel un bambino molto obbediente. Sa bene cosa vuol dire posare per un ritratto: vuol dire che il papà lo ha considerato così importante da metterlo in uno dei suoi quadri. Vuol anche dire sforzarsi di stare fermo e zitto per un po’, mentre il papà lavora e assume quell’espressione così assorta che sembra rivolta più a un oggetto che a un bambino. Manuel sa che in quei momenti il papà comunica con lui, ma non con gli occhi o con la voce, bensì con il pensiero. Quando lo ritrae, il papà ritrae in realtà non ciò che vede ma ciò che c’è dentro di lui.

Ieri è stato il suo compleanno. La mamma gli ha regalato quel costume da Arlecchino, il papà dei giocattoli di legno fatti con le sue mani. Hanno giocato insieme nella sua cameretta e si sono divertiti un sacco, anche se la mamma sembrava un po’ troppo commossa per un semplice compleanno.
A pranzo sono venuti degli amici: altri pittori, o scrittori, il dottore, uno o due avvocati. La mamma si era messa un vestito sgargiante e dei gioielli molto pesanti; era bellissima, però Manuel capiva che non era felice, che si stava sforzando. Infatti dopo mangiato si è scusata ed è andata in camera sua. Il papà e il dottore, in corridoio, bisbigliavano: “Poverina, pensa sempre al piccolo Miguel”.
Questo piccolo Miguel, raramente nominato e sempre sottovoce, deve essere qualcuno che ha fatto del male alla mamma. Qualcuno di cui si cerca di non parlare in presenza di Manuel, per non fargli venire delle curiosità difficili da sciogliere. Questo, Manuel lo ha capito, Manuel che è un bambino molto obbediente e molto, molto dolce, e che non chiede mai nulla che possa mettere in imbarazzo i grandi.

“Sei stanco di stare così? Vuoi sederti un pochino?”
Manuel fa segno di no con la testa. Non è scomodo, non è stanco. Gli fa piacere essere solo con il papà, occupati a realizzare un’opera d’arte insieme.

Ieri pomeriggio sono arrivati anche gli amichetti, e ci sono stati dolci e bibite e nuovi giochi. La mamma, dopo aver riposato, si è affacciata dal balcone di sopra per guardarli, e stavolta sorrideva. Debolmente, quasi assente, ma sorrideva.

Manuel è solo un po’ appoggiato di sghembo alla sedia; volendo potrebbe sedersi meglio, ma qualcosa glielo impedisce. Gli capita ogni tanto. Qualche volta vorrebbe sedersi a poppa nella barca del papà, o sulla vecchia altalena in fondo al giardino, ma qualcosa lo trattiene. Ci sono momenti in cui si sente intruso, come se il posto fosse già occupato. Anche adesso, Manuel avverte che c’è già qualcun altro seduto su quella sedia. Le loro spalle si toccano, sono appoggiati uno all’altro, e l’altro ha il suo stesso odore, il suo stesso tepore. Lo ha sentito spesso anche di notte, nel suo letto.
Lui sa chi è: è il piccolo Miguel, di cui nessuno gli vuole parlare.

“Vuoi vedere? Dimmi se ti somiglia – lo invita il papà. Ora che ha finito, la sua espressione è tornata quella dei giochi, della complicità. Il grande pittore ha lasciato il posto al papà affettuoso e giocherellone.
Manuel si guarda nel ritratto. Sì, gli somiglia, ma non è lui.
È Miguel. Il piccolo Miguel.
E Manuel lo sa già, che il papà non cancellerà quel segno leggero, il tratto di una gamba trasparente come quella di un fantasma.
Il ritratto è finito così.
Manuel e Miguel, il giorno del loro compleanno.

Periferia

Da un quadro una storia:
Mario Sironi – Periferia, 1948

In questo quadro non si vede anima viva. Muri ciechi, palazzoni ciechi, finestre cieche, ciminiere cieche. Un cielo, però, che diffonde su tutto una luce grigio-azzurra da prima mattina, quell’ora in cui nei cortili la periferia accende i suoi motorini, le lambrette, le vecchie fiat, e si mette in arrancante movimento verso la città. Operai, commesse, studenti, donne di pulizia, disoccupati in cerca di lavoro. C’è un autobus volonteroso che si spinge fino a quel remoto capolinea e accoglie gli appiedati, assonnati dopo il caffelatte buttato giù già vestiti, già col berretto in testa, già con la testa al giorno da costruire o da subire, sempre uguale fino alla sera, quando i gesti si ripeteranno all’incontrario. Poche parole, più che altro cenni d’intesa tra il fumo delle fiat e dei motorini che si scaldano. I ragazzi con gli zaini dei libri e le mani in tasca sono chiusi nel loro ultimo sogno e non ancora abbastanza svegli per salutarsi, affiancarsi al compagno qualche metro più avanti. Aspettano di svegliarsi in città, nelle sue luci e nei suoi rumori, nella sua fretta che incalza e mette tutti in riga, ciascuno al proprio posto nell’ingranaggio. Senza via di fuga fino a sera. Quando tornano alla spicciolata, un po’ più svegli ma non meno stanchi, un po’ più leggeri ma non meno irrisolti. Alcuni hanno imparato qualcosa in più, o guadagnato qualcosa in meno, o preso un’altra arrabbiatura o incassato un’altra delusione. Tornano per cenare le solite cene e per dormire i soliti sonni, divisi da pareti sottili come in un unico dormitorio. A volte però succedono piccoli miracoli, di quelli che sono possibili ovunque, anche in periferia, a patto di avere vent’anni.

Scendono al capolinea, un piazzale con erbacce e una cerchia di palazzoni popolari, in fondo un tramonto che comincia poi si ferma di nuovo, e resta lì.
“Guarda che cielo…”
Per guardarlo ci vogliono mani in tasca e baveri rialzati, è il modo migliore. E un sorriso assorto.
A lei sembra il cielo di…
“Roma, mi viene in mente Roma. Gli stessi colori. Sei mai stato a Roma?”
“Certo che no, e tu?”
“Certo che no”.

(la fabbrica, la tuta blu, le cuffie. Lui si alza presto per prendere il primo caffè e il primo autobus. Siede dietro il guidatore e lo invidia, lui che non ha mai viaggiato)

“Ma quando arriva ‘sta primavera…”
“Domani”.
“Che bello! Ma dici davvero?”

(oggi al discount le si è inceppato il rotolino di carta della cassa. La gente in coda sbuffava. Lei si è fatta aiutare da una collega perché l’ansia le faceva sudare le mani. Poi ha continuato, ma era arrossita)

“Neanche un bar per bere qualcosa”.
“Vuoi un ice-tea?”
“Eh, grazie. Ma tu?”
“Metà per uno, dai”.

(i ragazzini e un pallone in un cortile. Lui li guarda e intanto si dimentica di bere e si ricorda la fabbrica. Anche lì hanno un pallone per la pausa pranzo, e i ragazzini per giocarci sono uomini cresciuti a stento. È il momento di tirare su un breve fiotto dalla cannuccia e passare la mano)

“Mi stavi guardando?”
“Pensavo che magari ti piacerebbe andare a giocare con loro”.

(visto da dietro lui è così giovane, assomiglia a suo fratello. Giocavano a nascondersi ma nel piccolo appartamento c’erano pochi nascondigli. Di solito la trovava appiattita fra l’armadio e il termosifone, e dopo un po’ non c’era più gusto a fare quel gioco. E dopo un altro po’ avevano smesso di essere bambini, e si parlavano meno)

“Io a scuola ero brava in italiano. Quando ero alle medie hanno messo un mio tema sul giornalino di classe”.
“Ah. Io da grande volevo fare il meccanico”.
“E invece?”
“E invece sì – sorride scalciando un sasso – Tu, cosa volevi fare? – la guarda dritto in faccia.
“E chi lo sa? – abbassa gli occhi sulle scarpe che smuovono adagio il ghiaino – La professoressa. Forse”.
“E invece? – è serio.
“E invece no – lei ride sincera.

Ma quel cielo tra i palazzi e i pochi alberi ancora spogli… quel cielo non cambia ancora. È una lavagna azzurra e grigia con disegni di nuvole nebbiose in orizzontale, e dietro un po’ di arancio soffuso che non si spegne. Un cane rasenta i muri e sparisce dietro un angolo. Una finestra si accende per qualche istante, poi qualcuno spegne la luce.

“Ci vai al cinema?”
“Oh sì, il sabato, quasi sempre”.
“Allora non vai a ballare. O ci vai la domenica?”

(la domenica c’è da fare. Bisogna aiutare in casa, il papà è di cattivo umore e ha sempre quel mal di testa. Le piacerebbe ascoltare musica mentre riordina la sua stanza, ma non si può disturbare. La domenica non le appartiene.
Lui invece si alza tardi, vergognandosi della sua bocca amara. A pranzo i suoi sospirano che devono andare a trovare la nonna. Alle due è già di sotto a smontare il motorino per vedere cosa ne vien fuori, perché alle cinque gli serve per andare al bar con gli amici)

“Quanti anni hai?”
Lei glielo dice. Gli stessi suoi.
Dove abiti, ce l’hai un ragazzo, e soprattutto cosa ci fai qui?
Queste cose no, non gliele chiede, ha un po’ paura di saperle.

Dalla parte opposta del piazzale la strada va in lieve discesa. Si sente un altro autobus che arriva a dare il cambio, e il primo riparte. I pochi che scendono si infilano in cancelli diversi senza guardarsi.
Forse adesso il tramonto ha ricominciato, ma impercettibile.
Tra poco le famiglie si ritroveranno nelle cucine, i bambini con le mani lavate e le ginocchia no, una pentola che fuma in mezzo al tavolo.
Colpa del cielo che sta scendendo, come tutte le sere. Stasera forse un po’ più piano delle altre.

“Da quanto tempo ci conosciamo?”
Con un mezzo sorriso lei guarda l’orologio:
“Da… da adesso, credo”.

Il pomeriggio si è disteso definitivamente su una riga bassa di ardesia. Strani ritmi, quelli del Tempo. A seguirli ci si perde, o a volte ci si trova, da qualche parte di un universo comunque improbabile, di solito alla sua periferia. Odore di diesel e calicanthus appassiti ai bordi della città, mentre insieme alle finestre si accende un lampione incerto.
A lui viene in mente solo una frase, e vorrebbe tanto che fosse sua:
“Sapessi.
Sapessi com’è strano”.

Francine, o la disfatta

Da un quadro una storia:
Edgar Degas – L’assenzio, 1876

Quando avrò pagato quest’ultimo bicchierino di assenzio, in tasca non mi resterà più un solo centesimo. Cuciti nella fodera della borsetta ci sono giusto i soldi per il biglietto di ritorno.
Non era così che doveva andare.
Nella sua lettera, mia cugina Josette mi diceva: “Vieni in città anche tu, ci si fa la bella vita”. Il suo indirizzo corrispondeva a una affittacamere alsaziana di pessimo carattere, e la stanzetta dove cominciai la mia nuova vita a Parigi era quella dove Josette riceveva tre volte la settimana quello che definiva “la sua fortuna”. La fortuna di Josette aveva un nome e un cognome che qui non è il caso di fare, perché appartenevano a un piccolo deputato della Vandea libertino e sposatissimo. Quando arrivava lui, io dovevo lasciare il campo libero, e me ne andavo in giro alla ricerca di un impiego onesto.
Il primo lo trovai come bambinaia presso una famiglia borghese. Avevano una bimbetta da vestire, pettinare e portare a spasso tutti i pomeriggi: non era difficile, e neanche pesante. Tutto andò liscio fino al giorno in cui, a causa di un acquazzone, rincasammo in anticipo sorprendendo la madre in affettuosa compagnia di un uomo che non era suo marito. Ci andai di mezzo io, che venni licenziata sui due piedi. Il lavoro era distinto, la padrona per niente.
Dalla modista a Saint-Sulpice rimasi qualche mese. Mi ero illusa che il mio lavoro sarebbe consistito nell’assistere e consigliare le signore che si provavano cappellini, invece fui relegata nel retro con altre ragazze, a cucire nastri e fiori di stoffa. Solo che io non sapevo cucire, e dalle mie mani uscivano nastri ciancicati e fiori accartocciati. Le velette, poi, tutte storte, e con punti visibili. In compenso, ero circondata dai pettegolezzi delle lavoranti, che rafforzavano la mia idea sulla serietà delle parigine.
Fiori per fiori, provai da un fiorista, ma fu anche peggio. I miei mazzi erano sbilenchi, e nel tempo che ci mettevo a comporne uno, i fiori freschi erano già appassiti.
Al Bistrot Gaulois durai un mese: l’ultima settimana lavorai gratis per risarcire tutti i piatti e i bicchieri che avevo rotto.
Josette si era trovata un nuovo amico, più generoso del deputato, che l’aveva sistemata in una pensione più confortevole. Così ora dovevo pagare da sola l’affitto per quella topaia dell’alsaziana, e cominciai a scendere sempre più in basso, accettando lavori pesanti e umilianti per i quali non ero adatta. Ho spazzato scale e cortili, ho pulito vetrate di negozi, ho grattato con le unghie i fondi incrostati dei pentoloni della mensa per i poveri. L’ultima padrona che mi ha licenziato è stata una lavandaia zoppa che aiutavo a trasportare mastelli pesantissimi pieni di lenzuola fradice. Mi mandò via quando un manico mi sfuggì di mano e rischiai di azzopparle anche il piede sano. Però le facevo un po’ pena, tanto che mi regalò un paio di straccetti per rattoppare gli orli consumati dei miei due unici vestitucci.

L’assenzio l’ho conosciuto al Quartiere Latino. I pittori squattrinati per i quali posavo ne bevevano spesso, sperperando così i soldi che promettevano alle loro modelle. Fare la modella a Parigi non è così romantico come si potrebbe credere. È un lavoro aleatorio, noiosissimo e stancante, e non paga; a meno di diventare la musa di un vero artista, cosa che però non capitò a me. Prendevo freddo in soffitte luride e venivo pagata in modo più che saltuario. L’assenzio mi aiutava a cancellare un po’ dell’umiliazione e a sentire meno la fame. Mi faceva sentire più leggera, più distaccata, meno sensibile. Ultimamente però i suoi effetti sono diventati visibili anche agli altri: l’ultimo pittore che mi ha esaminata ha trovato che il mio corpo valeva la pena di essere dipinto, ma il mio viso aveva un’aria troppo imbambolata, e lui faceva solo ritratti. Ritratti di donne belle e provocanti, non inespressive come me. Aveva ragione. L’assenzio mi faceva male, ma lo cercavo perché sapeva liberarmi, per un po’, dall’obbligo di pensare.

No, non era così che doveva andare.
Stasera mi restano solo i pochi centesimi per quest’ultimo bicchiere, poi scucirò la fodera della borsetta dove tengo i soldi per il viaggio di ritorno. Me li ha voluti dare mia madre quando sono partita, un anno fa. Io la derisi; lei restò serissima. Con quelli tornerò al paese, alla drogheria di mio padre, al caffelatte di mia madre, alle galline del pollaio, alla messa delle sette; cose povere e sempre uguali, ma sicure.
Ho la testa così stanca e il cuore così intorpidito che non faccio più caso se intorno a me è tutto così grigio, come una nebbia sporca, come un bicchiere sudicio e ormai vuoto.
Ancora un sorso, le ultime gocce, l’ultimo brindisi a un fallimento.
Non vedo l’ora di addormentarmi su quel treno.

Amore mio, non spegnere quella luce

Da un quadro una storia:
René Magritte – L’Impero delle luci, 1954

In quella casa che ora dicono vittima di un incantesimo avevano vissuto due persone speciali, e c’è chi sostiene che ci abitino ancora i loro spiriti. Erano arrivati come fuggiaschi – lui un gentiluomo come mai ne ho conosciuti, lei una dama di diafana bellezza con timidi occhi di smeraldo – per vivere in discrezione la loro passione adultera. L’esilio cui li aveva condannati la buona società si era trasformato in una bolla di paradiso che li proteggeva dalle maldicenze e dall’incomprensione. Vivevano l’uno per l’altra; non ricevevano visite e non ne facevano. Bastavano a se stessi, rinunciando a porsi termini nel futuro perché la loro condizione colpevole concedeva solo un fragile presente. Ed essi lo riempivano di tutte le cose che amavano e che potevano permettersi; facevano colazione sul tavolino di pietra del giardino, circondati da fiori selvatici su cui ronzavano le api, poi lui apriva il cavalletto e dipingeva lei che, seduta sulla panchina, ricamava cuscini di seta, oppure dondolava sull’altalena trattenendosi il fiocco delicato del cappello di paglia. A volte uscivano in macchina con un cesto di vivande – lui con guanti di capretto, lei con sciarpa di voile intorno al collo – per un déjeuner sur l’herbe in qualche loro posto segreto, un prato di papaveri o una valletta lungo il fiume. Nei pomeriggi uggiosi d’autunno, dalle finestre del salotto venivano le note di un pianoforte e una voce d’angelo che intonava romanze. Nelle notti più limpide d’estate lui puntava un telescopio dalla torretta e insieme, abbracciati, scrutavano le stelle in impercettibile movimento verso il loro tramonto. Gli uccelli abitavano le fronde del grande tiglio, e il laghetto sereno ospitava gioiosi pesci rossi e placide ninfee, dalle stesse pallide sfumature degli abiti di lei, che amava il lilla, il glicine, la lavanda.
Poi un giorno l’incidente. Fu forse l’improvvisa puntura di un insetto, oppure il guizzo di una innocua biscia di fosso che gli attraversò il sentiero, a far imbizzarrire il cavallo, e l’amazzone cadde. Il suo debole grido di sorpresa fu l’ultima sua voce che egli avrebbe udito.
Il dottore, con volto grave, pronunciò una formula misericordiosa: “Se passa la notte, vivrà”.
E quella notte la luce nella stanza al primo piano rimase sempre accesa, mentre egli aspettava il verdetto della profezia che gli avrebbe portato l’alba con il canto della prima allodola. Il sole sfiorava i muri della casa quando gli occhi di smeraldo si riaprirono, ma non si risvegliò il suo corpo, inerte e insensibile sopra un letto che ora sembrava troppo maestoso per confortare tutta quella fragilità. Nessuna scintilla animò le braccia, le gambe, il volto dolente, né quel giorno né i successivi. Il dottore tornò, strinse le labbra, e i due uomini si guardarono senza dir niente.
Io fui chiamata da una lettera, una grafia malgrado tutto elegante e un tono malgrado tutto sobrio. Avevo da poco lasciato la casa del barone M., dopo averlo assistito fino alla morte, e la vedova mi aveva raccomandata in qualità di – così ebbe la bontà di definirmi – “infermiera competente, zelante e discreta”. Vidi subito che avrei avuto ben poco da fare, perché a tutto pensava lui. Non la lasciava un istante. Il suo posto era stabilmente in quella stanza, dove gli servivo i pasti e assistevo mentre lui cercava di imboccare la sua amata. La pettinava lungamente, le profumava i polsi, mi indicava quale camicia farle indossare, ogni giorno nuova, le leggeva libri dalla pila che aveva accumulato accanto alla poltrona, le raccontava l’avanzare della stagione e i colori del giardino. Le parlava ininterrottamente d’amore. Lei era solo quegli occhi di smeraldo, che battevano le ciglia solo ogni tanto e diventavano sempre più simili a pallidi laghi asfissiati. Per ore e ore affidava a lui i suoi arti inerti, le sue mani da madonna stremata, e lui accarezzava e massaggiava senza sosta, per comunicare vita e calore a quei nervi e muscoli e articolazioni insensibili, per allontanare il più possibile il momento in cui avrebbero cominciato inesorabilmente a rattrappirsi. Io riuscivo a dargli il cambio solo quando, dopo avergli messo di nascosto qualcosa nel tè, lo vedevo assopirsi in brevi e inutili riposi.
Il tempo si fermò, la bolla di paradiso si era offuscata e non lasciava più passare i raggi del sole. Il mondo era tutto lì, una goccia d’acqua che si andava seccando fra le loro mani strette e quegli sguardi senza risposta.
Finché un mattino, scendendo dalla mia cameretta sotto il tetto, scoprii che se ne erano andati. Il letto era rifatto, la stanza era in ordine, dagli armadi non mancava nulla, ma mancavano loro. Spariti senza far rumore né lasciare biglietti o altre tracce. Li cercai ovunque, anche in giardino; un giardino ancora immerso nel buio della notte appena trascorsa benché il cielo fosse azzurro e chiaro fra le nuvole e il mio orologio segnasse le nove in punto. L’acqua del laghetto era ferma, e rifletteva le finestre chiuse, tranne quelle due al primo piano, dove ancora era accesa la luce, così come ancora splendeva silenzioso il lampioncino esterno, forse in attesa che tornassero. Ma non tornarono.
Da vecchia infermiera consumata e realista, mi convinsi che erano partiti per un convalescenziario, magari sul Baltico, dove lunghe cure riabilitative avrebbero ottenuto il miracolo. Ma sapevo di mentire a me stessa. Non era lì che erano andati. Erano molto più vicini, non si erano mai allontanati. Si erano solo trasformati in qualcos’altro, qualcosa di solido e tenace come quell’amore che voleva sopravvivere alla malattia. Forse erano dolcemente annegati nell’antico specchio sopra il caminetto, o si erano confusi tra i personaggi della quadreria degli avi nello studio o fra le pagine dei libri della biblioteca; o magari si erano metamorfosati in una statuetta di Venere avvinghiata dall’edera.
Oppure si erano semplicemente sublimati nel fulgore di quel lampadario e di quel lampione, che continuano a segnare la notte di una casa dove nessuno suonerà più il pianoforte per due amanti tragicamente belli e innamorati.