L’albatro – 4 di 4

A volte fui malato. Un’estate, la dissenteria. Sudavo freddo e tremavo, e il mio corpo si svuotava di continuo lasciandomi stremato. In più occasioni mi procurai ferite brutte, talora slabbrate, con gli attrezzi da lavoro. Mi capitò di dover stare inattivo e a riposo sulla branda, alternando la coperta contro i brividi e la fiasca dell’acqua per la febbre che mi prosciugava. Quando non mi vedevano affacciarmi, cominciavano a preoccuparsi, così predisposi un cartello ed ebbi cura di appenderlo al parapetto non appena avvertivo segni di malattia: “Tutto bene, sono solo molto occupato”. Mentivo, un po’ per orgoglio e un po’ per amore.
Una mattina, però, più o meno un anno fa, al risveglio dopo una notte d’inferno in cui ero stato più che altro incosciente a causa di una febbre polmonare, feci una scoperta che mi fece singhiozzare di tenerezza: sulla panchetta accanto al mio letto madido qualcuno aveva deposto un bottiglino di sciroppo e un biglietto: 3 cucchiai al giorno per abbassare la febbre.
Qualcuno, Maxim o il dottore o entrambi, erano saliti a bordo furtivamente per portarmi soccorso, infrangendo le regole e i vincoli finora rispettati da tutti.
Ed è successo ancora, più di recente, e stavolta erano compresse di aspirina o asciugamani puliti, brodo di carne, disinfettanti, un cuscino di piuma d’oca, mutandoni di lana ruvida, liquore d’erbe. Libri, tanti libri. Contro l’ignoranza e l’isolamento.
Approfittano delle mie infermità, dei miei stati di sopore, e si curano di me più di quanto si curino della Legge. Non si fanno sentire né vedere, non si lasciano ringraziare. Di tutto questo non si parla, non si deve parlare. Succede, lo fanno, e io lo accetto in silenzio. Un patto più forte di tutti i patti. Dio lo chiamerebbe Misericordia.

Il resto è nel diario, un quaderno ormai slegato, con i fogli che si staccano e cambiano posto, invertendo e confondendo la cronologia di questi dieci anni, forse quindici.

Aprile
Da tre giorni non vedo Maxim. Il secondo giorno un pescatore mi ha detto che sua moglie sta male. Il terzo giorno che è morta. Non sapevo avesse moglie. Non sapevo fosse malata. Vorrei solo essere con lui. 

Settembre
Sento dire che la guerra è finita, o sta finendo. Di più non si sa, ce lo racconteranno i reduci se e quando torneranno. Questa nave non potrà mai più navigare, questo è certo. Un po’ per volta ho utilizzato tutti i materiali sfruttabili, tramezzi di legno e piastre di ferro, lucerne, pezzi di ricambio, barili, olio, pece, cordami, vernici, manopole di ottone. L’ho mangiata viva. 

Agosto
Ho letto un libro che parla di me. Si intitola Robinson Crusoe. 

Dicembre
Il capo dei gendarmi mi ha regalato una bottiglia per Natale e mi ha messo in guardia. Dice che a guerra finita non finiranno automaticamente anche i miei guai, perché dovrò rispondere del reato di diserzione, clandestinità e furto di beni della Compagnia armatrice. Dice che devo essere paziente e aspettare ancora un po’ finché non si chiariscano le cose. Io invece penso che dopo tanto tempo si saranno dimenticati sia di me che della nave, che ci avranno creduti naufragati e buonanotte. 

Giugno
Ho chiesto consiglio a Maxim. Gli ho detto che vorrei scrivere una lettera a qualcuno perché mi aiuti a risolvere la mia situazione. Non so, un giornale, un ministro, un presidente di qualcosa. La Croce Rossa, eventualmente. Mi ha risposto che il servizio postale ancora non è ripreso del tutto, ma che intanto, se voglio, posso buttar giù qualche brutta copia. Lui me le correggerebbe volentieri. 

Luglio
A volte mi prende il delirio  che mi stiano ingannando tutti. Fin dall’inizio. Mi hanno convinto a restare qua, libero purché rimanga a bordo, e anche adesso che sembra che la guerra sia finita continuano a esortarmi a non fidarmi, a non scendere, ad avere pazienza. Io non lo so più cosa sto aspettando, a cosa serva avere ancora pazienza. Mi chiedo per quale diabolico motivo non vogliano lasciarmi andare. E subito dopo mi do dell’idiota per averlo anche solo pensato. 

Luglio
E se chiedessi asilo politico? 

Luglio
Ma a chi? 

Novembre
Tosse. 

Novembre
La nave sta andando in malora. Ruggine. Cattivo odore. Non ce la faccio, non ho più voglia. Mi metto sulla branda e faccio buio nella testa. Posso passare interi giorni così. Nella nebbia. 

Novembre
Ancora tosse, schiena indolenzita, testa che mi scoppia. Fa notte troppo presto. A volte sogno i topi, allora mi decido a ispezionare dappertutto, ma per ora nessuna traccia. Se arrivassero anche loro, non 

Febbraio
Freddo secco, rigido. Tutto bianco e d’alabastro. La tosse va meglio. Appetito, niente.

 Febbraio
Quanto mi manca un lungo bagno caldo, quanto. 

Marzo
Rondini!

Uno di questi giorni verranno festanti ad annunciarmi:
“Tutto a posto, è finita, sei libero, puoi scendere a terra!”
E per quel giorno io vorrei essere pronto, aver domato questa tosse, rimpolpato un po’ queste gambe scheletriche, raddrizzato questa schiena ingobbita, cicatrizzato tagli ed escoriazioni, ripassato come si fa a ridere, e preparare per loro una grande festa, farli salire, mostrare loro con orgoglio questo relitto generoso ripulito e lucente, e brindare, consegnare a ognuno piccoli doni (metterli in quelle mani che non ho mai toccato), ballare le loro canzoni suonate con la chitarra e la fisarmonica, girare girare girare fino a rischiare di perdere i sensi, e alla fine abbracciarli tutti e chiedere loro “Tenetemi con voi”.

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L’albatro – 3 di 4

Certe albe verde-azzurre, certe nottate di stelle estive passate in coperta un po’ dormendo e un po’ piangendo, certi cigolii di gomene sfilacciate, cullanti o stridenti a seconda della marea, gli odori dell’acqua stagnante e del ferro riscaldato dal sole, di vecchio combustibile e di alghe fresche al mattino. Le bitte di pietra, i gabbiani di cristallo.
Le case stinte con imposte da bambole, i tetti violacei dimore di cicogne; il fumo dei focolari in inverno, qualche spruzzo di neve, le ventate che scendono impetuose dalle montagne lontane e ruggendo si allargano verso il mare aperto lasciando turbini di foglie e polvere e stracci  e un cielo più vasto e abbacinante. Le lunghe sere di primavera, un muggito lontano dalle stalle, il canto semplice e contadino dei secchi di zinco. Il timbro antico di zoccoli di legno sui selciati sconnessi, le campane della domenica e dei morti, i bambini con lenze improvvisate che imparano a pescare dal molo, a piedi scalzi.
Un paese mai veduto eppure imparato a memoria.

Quando morì il vecchio Elijah, ne ereditai il mestiere e tutti gli arnesi. Mi sistemai un piccolo laboratorio in una cabina con luce e misi in piedi l’unica attività possibile: l’aggiustatutto. Mi facevo mandare su nel cesto o con corde robuste sedie spagliate, madie traballanti, mastelli sfondati, ma anche casseruole da stagnare, orologi incagliati o giocattoli di legno da riparare. Tutti lo impararono presto: se c’è qualcosa di rotto, portatelo a Viktor, sa fare un po’ di tutto e ha tanto tempo. Mi sono mantenuto così in questi anni, in una scambievole assistenza. Dalla mia prigionia a cielo aperto, ho sopperito con le mie alle mani degli uomini – mariti, padri – lontani in guerra.
“Maxim, cosa mi dici della guerra?
“Eh, la guerra. Va e viene”.
La guerra non si vide mai, ma si sapeva che c’era anche quando pareva tacere. Si spegneva qua per riaccendersi a tradimento un po’ più in là, e non si capiva mai chi stesse vincendo.
“Maxim, ma chi è che vince?”
“Non si sa. Devono ancora deciderlo”.
I bambini continuavano ad andare a scuola e a venire sotto la murata a fare i compiti.
A volte sotto la murata venivano anche gruppetti di ragazze, la domenica pomeriggio. Passeggiavano chiacchierando nell’unico giorno di festa, con i loro vestiti rilucidati e rammendati, le gonne coi ricami tradizionali che nascondevano le calze grosse, sui capelli larghi scialli a fiorami con frange di seta. Mi facevano sorrisi e cenni di saluto, ma erano vergognose perché ero un uomo e passavano oltre senza fermarsi. Forse però, allontanandosi ridacchiando a braccetto, fra loro parlavano di me.
Olga no, perché era sordomuta, e con lei usavano il linguaggio dei segni. E io, di Olga mi innamorai. Di quegli amori necessari ma solo sognati, un’invenzione della solitudine e dell’incertezza. Era un volto da riconoscere e cui pensare come fosse cosa mia pur sapendo che non lo era, come i giocattoli costosi nelle vetrine a Natale. Era una buonanotte dolce e malinconica quando scendeva il buio e mi rintanavo come un topo nell’unico letto che mi era concesso.
Più avanti si sposò, con un ragazzo sordomuto come lei, l’unico rimasto in paese perché scartato dall’esercito per la sua menomazione. Ed ebbero anche dei bimbi, che salutavo dal parapetto quando li conducevano a fare i primi passi lungo il molo. Non ero geloso di quella loro felicità, al contrario provavo una gioia dolente e matura nella mia rinuncia, e mi sentivo quasi un saggio custode di quelle giovani vite.

(continua)

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L’albatro – 2 di 4

Maxim mi insegnò la lingua. Una donna con tanti figli piccoli accettò di lavarmi e rammendarmi i panni in cambio di coperte, e le diedi tutte quelle dell’equipaggio, infeltrite. Ricambiavo l’assistenza alimentare come potevo, calando dalla murata ciocchi di legno presi dalla stiva carica o piccoli oggetti di uso comune trovati in cambusa, donando pastrani e cerate lasciati dai marinai la notte della fuga precipitosa. Trascorremmo l’inverno combattendo il freddo ciascuno come poteva: una parte del legname scaldò le casupole più povere del paese, con poco mi arrangiai anche io e ne rimase abbastanza per affrontare almeno un altro anno. A qualche vecchio pescatore donai stivali di gomma e acciarini, e ne fui ripagato addirittura con del vino. Quel giorno mi dissero che era Natale, e che tutti dovevano festeggiare, e oltre al vino mi portarono una ciambella con la glassa di quelle che mangiavano loro. La sorella del prete mi mandò un maglione pesante fatto da lei, ma non si fece vedere perché era donna pia e timidissima.
Tutti questi traffici, i doni reciproci, entravano e uscivano da bordo per un’unica via: attraverso un cesto appeso a un pezzo di fune e calato dalla murata, perché né io né loro mai e poi mai contravvenimmo alla regola del primo giorno. Eravamo due Paesi sovrani e confinanti, con la sbarra abbassata fra di noi. Questo diceva la Legge, e noi ci limitammo a passarci i nostri scambi attraverso il filo spinato virtuale che ci teneva divisi. Per dire le cose come stanno, le nostre mani non si toccarono mai.

Finiva l’inverno e io cominciavo a smaniare. La mia prigione mi stava stretta quando annusavo gli odori della terraferma e la brezza mi portava profumo di erba. Mi tenevo attivo ripulendo parti della nave che nessuno aveva mai curato, liberandomi di ciarpame che cominciava a puzzare di stantio, inventariando quanto di utile restava a bordo e che ormai consideravo tutto il mio avere. Ma non bastava a farmi dormire, e le notti senza altra luce che quella della luna, quando c’era, erano sempre più lunghe e febbrili.
Scrissi un biglietto per Maxim. Lo scrissi perché sapevo che certe cose non avrei mai saputo dirle a voce, con quel nodo in gola che mi soffocava. Glielo calai nel cesto senza una parola, e poi rientrai subito sotto coperta lasciandolo lì sul molo con la faccia accigliata e quel ridicolo pezzo di carta in mano.
Mi chiamò forte, due, tre, quattro volte, finché mi decisi a tornare fuori. Mi sentivo malissimo, mi rendevo conto di essere sul punto di perdere ogni dignità, tutto il mio coraggio, qualunque motivo di vivere.
Avevo scritto:
Maxim ti supplico, fammi fuggire. Una di queste notti io scappo, e tu non cercarmi. Scusa ma non ce la faccio più. Il tuo povero amico Viktor“.
Maxim aveva un’espressione severa, durissima. Agitò il foglio e gridò:
“Cos’è questa idiozia?”
Poi fece una cosa stupefacente: a passi rabbiosi raggiunse l’estremità del molo, scardinò il capanno dei pescatori e ne estrasse una scaletta di legno, che si trascinò dietro col viso paonazzo, e la appoggiò alla fiancata.
“No, cosa fai? – urlai io agitando le braccia.
“Cosa faccio? – ruggì mentre già saliva i primi pioli – Adesso vengo su lì da te e ti do un pugno in mezzo al naso, ecco cosa faccio!”
Era serissimo, deciso e furibondo, lo avrebbe fatto senz’altro, e io ero troppo inerme per reagire.
Non fuggii. Né quella volta né mai.

L’indomani mi sentivo convalescente, ma accadde qualcosa che mi fece guarire del tutto.
Maxim si presentò sul molo nel primo pomeriggio, stavolta seguito da cinque o sei dei suoi scolari: ragazzetti goffi di famiglie povere, con le guance rosse e i piedi irrequieti.
“Ti dispiace – mi chiese tranquillamente, come se il giorno prima non fosse successo nulla – ti dispiace se mi metto qui a fare un po’ di doposcuola a questi piccoli asini?”
Si era portato uno sgabellino, e i discepoli si sedettero per terra come gli indiani, aprendo sulle gambe i loro quadernetti ciancicati. Io assistetti a quell’ora di doposcuola con la commozione e la gratitudine di un figliol prodigo, e imparai anche qualcosa.
Quella notte fu l’ultima inutilmente insonne: la passai a cercare i pezzi di legno adatti e a inchiodarli col martello fino a costruire seggiolini per tutti, e una sedia più grande per il maestro. Alle due del pomeriggio, quando tornarono, li calai uno per uno con la corda e i ragazzi fecero un baccano da non credere. Maxim si pulì gli occhiali con il fazzoletto, o forse gli bruciavano un pochino gli occhi, non so.

(continua)

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L’albatro – 1 di 4

La ruggine sta avanzando tutto intorno, e dentro di me.
I primi tempi la contrastavo con tutte le mie energie; ero giovane, avevo tempo da buttare e rabbia da sfogare, avevo ideali confusi e bisogno di tenermi attivo per non dare di matto. Ogni giorno pulivo, grattavo, lucidavo, fino a farmi sanguinare le mani. Percorrevo la nave da poppa a prua e in tutti i suoi cunicoli, alla caccia dei segni del degrado che sapevo inevitabili. Tenere vivo e sano questo piccolo mercantile che è tutta la mia casa e la mia prigione era un punto d’orgoglio, era lo scopo del mio tempo interminabile e l’unica buona ragione per alzarmi ogni mattina dalla branda. Per anni, per decine e decine di stagioni, contro l’ossidazione, il salso, il marciume, il disfacimento. Con pochi arnesi, alcuni inventati, e con le unghie e la collera che coltivavo per tenere indietro la disperazione.

Attraccammo una notte senza luna, con le luci spente e i motori al minimo, in un porto nemico che non era la nostra reale destinazione. Era però il più vicino da raggiungere quando il marconista ricevette il messaggio dell’entrata in guerra. Eravamo in alto mare, trasportavamo legname, e nei giorni precedenti una burrasca ci aveva rivelato quanto poco fosse affidabile il nostro piccolo cargo. Il capitano forse perdette la testa quando decise di staccare la radio e di prendere terra ovunque fosse, purché il prima possibile.
Nessuno ci udì ormeggiare. Il paese disteso lungo il porticciolo era chiuso nel buio del coprifuoco. Gli uomini dell’equipaggio sgattaiolarono giù dalla passerella e si dileguarono alla spicciolata, ognuno verso una sorte diversa che li portava comunque a sparire nelle tenebre, come topi o ladri, come disertori o prigionieri evasi, inseguiti dal demone della Paura.
Io, clandestino su questa nave, non vidi nulla di tutto questo, ma dal mio nascondiglio dietro una paratia sentivo le voci e i rumori, e il resto lo immaginai e l’alba me lo confermò, quando finalmente riuscii a spostare i cassoni che mi incastravano e ad abbattere la porticina a furia di calci e spallate. Sul molo si era raccolta un po’ di gente, e osservavano la nave straniera arrivata di notte, chiaramente abbandonata.
Ma a poppa alitava appena nell’aria fredda la bandiera di un Paese neutrale (una scelta di comodo che mai come ora si rivelava opportuna), e ciò conferiva alla nave fantasma il privilegio dell’extraterritorialità, rendendola intoccabile con tutto il suo contenuto. Me compreso. Questo me lo spiegò il maestro della scuola, chiamato a fare da interprete perché loro e io parlavamo due lingue diverse.
“Come ti chiami?”
“Viktor!”
Gridavamo, lui dal molo e io dall’alto della murata, non ancora ben consapevole dell’effetto sconcertante che faceva il mio aspetto denutrito, straccione e allucinato.
“Io Maxim. Dove sono gli altri?”
“Scappati”.
“Lo sai dove sei?”
“No. Ma posso immaginare che i nostri due Paesi siano in guerra uno contro l’altro”.
“È così. Perciò ascoltami bene: qui il comandante dei gendarmi dice che se scendi a terra ha il dovere di farti prigioniero. Questo è quello che mi ha ordinato di dirti. Io però aggiungo che se invece resti a bordo nessuno potrà toccarti, perché il cargo è registrato presso un Paese neutrale e quindi è come se tu fossi in un’ambasciata, cioè al riparo. Finché resti lì godi una specie di immunità. Hai capito bene?”
“Sì, ho capito bene.”
“E allora, cosa pensi di fare?”
“Se resto a bordo non mi succederà niente?”
“Non ti succederà niente. Certo, dovrai cavartela da solo, perché nessuno potrà salire… ne hai da mangiare?”
“Provviste? Penso di sì…”
“Acqua? Da scaldarti? Hai una radio?”
“Credo che l’abbiano messa fuori uso prima di lasciare la nave, e anche tutta la strumentazione”.
“Beh, pensaci. Se hai qualcosa da comunicare, fammi chiamare. Ti ricordi come mi chiamo?”
“Maxim”.

Maxim è stato il mio primo amico. Non fosse stato per lui, forse avrei aspettato il buio e avrei tentato di lasciare il mio riparo la notte seguente, buttandomi alla cieca verso i boschi, le montagne, incontro a un ignoto inimmaginabile.
Maxim i primi tempi veniva al molo tutti i giorni a sentire come me la cavavo e a portarmi qualche notizia, anche se ne arrivavano poche. La guerra era cominciata, ma era lontana. Gli unici effetti erano una certa paralisi nei trasporti e un iniziale isolamento, ma in qualche modo la secondarietà del porticciolo e la sua insignificanza strategica lo tenevano fuori dagli eventi bellici. A volte, in quel primo inverno, nelle giornate più limpide si vedevano lampi e colonne di fumo dietro le vette delle montagne, ma lontanissimo. In paese la vita continuava i suoi gesti arcaici, spartiti fra le donne e i vecchi. Gli uomini validi erano stati in gran parte richiamati, e restavano il prete, il medico, i pescatori anziani.
A bordo provviste ne avevo; non grandi cose, le cose che si mangiano sulle navi da trasporto, cose conservate, secche, insapori e monotone. Non mi feci molti scrupoli a servirmene, anche se sentivo la mancanza di cibi freschi.
Dopo i primi giorni, cominciai a pensare al baratto: alla gente che veniva sul molo incuriosita facevo vedere le mie scatolette e a gesti proponevo di scambiarle con altro. Ebbi latte fresco e pane di casa in cambio di lattine di zuppa e di carne. E quando terminai le provviste di bordo, il pane continuò ad arrivare, insieme a qualche ortaggio fresco, qualche quarto di pollo la domenica, e soprattutto fiaschi di acqua pulita, di pozzo. L’acqua non me la fecero mai mancare: si creò presto fra me e il paese un semplice legame di solidarietà, un rapporto di reciproca adozione. Erano persone pacifiche e oneste, risolvevano i loro casi al modo di una volta, col buon senso e con lo spirito della comunità. Non fummo mai in guerra, loro e io. La guerra ci sfiorava senza vederci né interessarsi a noi, dimenticati in quel lembo di terra di nessun valore né importanza, rimasto quasi estraneo al tempo che passava e cambiava sconvolgendo ogni cosa.

(continua)

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