Il numero 97

L’autobus giallo, il numero 97, rientrò al deposito a fine turno a mezzanotte e 25. Fu solo allora che ci si accorse del cadavere scivolato fra i sedili. Che fosse cadavere era abbastanza evidente, tuttavia lo accertarono quelli del 118 arrivati con l’ambulanza, e subito dopo arrivò anche la gazzella dei carabinieri, chiamata così, per sicurezza.
Il conducente, interrogato, non aveva molto da dire. Era stata una corsa normale, pochi i passeggeri, nessun inconveniente. Dal capolinea era partito vuoto, di questo era sicuro. Lungo il tragitto aveva imbarcato qualche persona per lo più diretta dal centro verso la periferia, come sempre il sabato sera a quell’ora. Un gruppetto di ragazzi, saliti tutti insieme e probabilmente di ritorno da una festicciola, aveva fatto un po’ di chiasso con una chitarra e un mangianastri che passava roba di quei tipi nuovi, quegli inglesi con la frangiona, i bitols, i bitles, insomma quelli lì, i capelloni del momento.
“Ubriachi? – chiese il commissario.
“Forse di Fanta – rispose l’autista, che in trent’anni di servizio aveva visto di tutto succedere sugli autobus, dalle risse ai flirt, dagli scippi ai parti prematuri. Anche qualche morto, aveva visto, ma finora sempre per cause naturali. Questa era la prima volta che aveva trasportato, a sua insaputa, un corpo esanime trafitto da qualcosa di così appuntito da provocargli, come ipotizzarono i paramedici e confermò più tardi il perito autoptico, un’emorragia interna letale.
La scientifica fece i suoi rilievi e non trovò nulla di interessante. La solita sporcizia dei mezzi pubblici, cartacce, gomme appiccicate, resti di merendine. Impronte ce n’erano a iosa, tutte sovrapposte e illeggibili. Il cadavere apparteneva a un uomo presumibilmente fra i 40 e i 50 anni, di proporzioni, peso e lineamenti del tutto comuni. Gli indumenti erano comuni anch’essi, forse un po’ sgualciti, e le tasche risultarono vuote: né documenti né foto o lettere. L’igiene personale appariva discretamente curata, la dentatura era sana e non rivelava alcun pregresso intervento odontoiatrico, la barba non aveva più di tre giorni; sul corpo, nessun anello o medaglietta, nessuna cicatrice chirurgica o tatuaggio o segno particolare. Solo quel forellino netto che trapassava il cappotto, la giacca, la camicia, la canottiera e infine la milza, e che ne aveva provocato il progressivo collasso per dissanguamento.
“Possono esserci volute anche ore prima che crollasse – disse il medico legale – Anzi forse non si è nemmeno accorto di essere stato ferito e può aver camminato a lungo finché non ha avvertito i sintomi dello shock emorragico”.
“L’arma? – chiese laconico il commissario.
“Qualcosa di appuntito e sottile. Direi un cacciavite a stella da elettrotecnico”.
“Grazie Matteo”.
“Figurati Gianni, e buon lavoro”.

Furono convocati i familiari di alcune persone scomparse. Tra i primi si presentò una vecchina che da mesi cercava suo figlio, un mascalzone che viveva alle sue spalle ma alla cui perdita non si rassegnava.
“Eppure… – mormorò dopo alcuni istanti.
“Si faccia coraggio, signora Matilde, e lo guardi ancora. Ė lui?”
“Posso solo dirle che non è mio figlio, grazie a Dio, eppure mi ricorda qualcuno”. Qualcuno che aveva visto la settimana prima, non avrebbe saputo dire esattamente quando, perché lei al cimitero ci andava tutti i giorni. Lo aveva visto là, una mattina presto, quando per i viali non c’era ancora nessuno, e lo aveva notato per via di quella cosa strana che stava facendo.
“Si era tirato su le maniche della camicia e si stava lavando viso e braccia alla fontanella, capisce? E poi si è arrotolato i pantaloni e si è lavato anche i piedi. Alla fontanella. Serio e tranquillo come fosse nel bagno di casa sua. Io mi sono girata dall’altra parte e ho fatto finta di niente per non metterlo in imbarazzo. E inoltre ho le cataratte, quindi non mi sentirei di giurare che fosse proprio lui. Però me lo ricorda. Un barbone? Non direi affatto: sembrava un signore distinto, magari un po’ dimesso, ma distinto, ecco”.
Indagini lungo il percorso del 97, foto diramate in tutti i commissariati della città, della provincia, della regione, del Paese, ricerche negli ambienti degli emarginati e degli informatori, nulla aiutò a chiarire il caso. Lo sconosciuto rimase tale. Un uomo qualunque in buona salute, senza vizi rilevabili dagli esami di laboratorio, senza corrispondenze nei registri dei sospetti, dei pregiudicati, degli scomparsi. L’unica traccia, la testimonianza poco attendibile, di fatto quasi ritrattata, della vecchia signora. Il commissario ne tenne conto anche quando il direttore lo esortò a non perdere altro tempo su quel caso e a tornare piuttosto a occuparsi di omicidi più illustri.
Il sabato successivo, fuori servizio, prese l’ultima corsa del 97, e ripercorse il tragitto dello sconosciuto. attraverso tutta la città, da una periferia all’altra, costeggiando quartieri di ogni tipo, negozi, scuole, cinematografi, palazzine residenziali. Guardava accigliato dai finestrini, in attesa di un’intuizione che non venne.

A letto, nel buio della stanza rigato dai riflessi giallastri dell’insegna di fronte che filtravano fra le stecche delle tapparelle, pensava al suo uomo. Lo vedeva vagabondare per le strade, attraversando piazze, rasentando palazzi grigi, a caso, come uno sceso da un treno alla stazione sbagliata e senza soldi per comprare un altro biglietto. A casa aveva lasciato un lavoro fallito, una moglie assente, nessun vero amico; casomai fastidio, ostilità, rancori, o più di tutto indifferenza. A un uomo così non servivano più i documenti, né un orologio da polso o un portafogli con le foto dei cari, né un indirizzo, delle chiavi, un posto dove tornare ogni sera. Eccolo che vaga incerto, è nuovo del mestiere, non sa come si faccia a diventare un vero barbone, capisce solo che non succede tutto d’un tratto, che ci vuole volontà, la volontà di abbrutirsi, e la perseveranza.  Ė ancora agli inizi, ancora indietro per imparare come si deve saper rinunciare allo spazzolino, al rasoio, alla doccia, come si allestisce un giaciglio tra due cassonetti per coricarsi all’aperto. Forse non è ancora pronto ad abbandonare del tutto la sua dignità. Tentenna, si sta testando, ci arriverà per gradi, passando attraverso la fame e l’accattonaggio che ne sarà l’obbligata conseguenza. Eccolo che si fa sera e non ha ancora mendicato, ha tenuto duro, ma ora ha le ossa stanche e i piedi dolgono. Non si sente all’altezza di accostare quelli come lui, le colonie di reietti che si sono organizzati a dormire sui cartoni, nei cunicoli, nei caseggiati in demolizione. Per stanotte, per qualche notte, cercherà un altro genere di riparo, più discreto, più appartato.
Questi qui dovevano essere piuttosto ricchi e orgogliosi del loro nome se si sono fatti costruire una cappella così ornata. Ha perfino una porta con i vetri fumé, e dentro è una stanzetta di marmo col soffitto a cupola e targhe bronzee alle pareti. Sul pavimento in mosaico, lapidi lisce con svolazzi in oro brunito. Ai quattro angoli, colonnine corinzie reggono trofei di fiori finti. Ma dalle fessure il vento di molti inverni ha soffiato dentro foglie secche e marciume, e le corone d’alloro di plastica sono completamente stinte. Una tomba di famiglia abbandonata nella zona più remota e antica del cimitero, tra altre muschiose dimore eterne di gente che nessuno ricorda neanche più.
Lo sconosciuto trova legittimo prenderne una in prestito per qualche notte. Dormirà al coperto, raggomitolato nel cappotto. Potrà comunque lavarsi alla fontanella, domattina, finché non si sarà abituato a farne a meno. Ed ecco che la seconda sera, non molto più barbone del giorno prima malgrado abbia rimediato mezzo panino sotto una panchina al parco, porta nella nuova casa provvisoria due sacchi di iuta e una coperta raccattati tra i rifiuti nel pressi del mercato. Appende con cura il cappotto a una torcia di rame perché non si stropicci troppo, si prepara il letto, si stende, riesce persino ad addormentarsi senza più pensare a quanto gli piacerebbe radersi.

Il commissario legge dei fogli senza trattenere una sola parola. Ė sicuro che un sopralluogo al cimitero gli permetterebbe di trovare quella cappella e le prove del passaggio del suo uomo. Ma non ne ha parlato con nessuno, e non sa se vuole veramente farlo. Il suo uomo si stava nascondendo, non da qualcuno, non dalla giustizia, ma da se stesso. Stava imparando a perdersi, era questo il suo desiderio. Voleva solo essere libero, libero di non esistere per chi lo aveva già comunque rinnegato. Poi, una sera, all’imbrunire, un altro disgraziato incalzato dal freddo era penetrato nella cappella, lo aveva minacciato per rubargli il posto, quel miserabile riparo tra le ossa dei morti e l’umido dei cipressi. Lui si era difeso, forse gli aveva proposto una temporanea coabitazione, perché era un uomo civile e non aveva ancora imparato la legge della giungla. Ma l’altro era un topo della notte, un randagio incattivito e irragionevole, e dal fondo dei suoi stracci aveva estratto un cacciavite – a stella, sottile, da elettrotecnico – colpendolo fulmineo a un fianco prima di fuggire. L’uomo senza nome non aveva sentito l’arma penetrargli nel corpo. Il freddo e lo shock avevano attutito il colpo. Era rimasto raggomitolato nell’angolo, incredulo e ansimante. Quando, dopo parecchio, aveva cercato di rialzarsi, si era sentito strano, molto debole. La fredda aria notturna non riuscì a rianimarlo. Sto male, pensò. Mi starà venendo un infarto. Devo cercare qualcuno che mi aiuti.
L’autobus giallo era in arrivo carico di luci, che alla sua vista appannata si confondevano in aloni multicolori. Accostare la scala al muro di cinta, salirvi e poi lasciarsi cadere al di là era stato puro e primitivo istinto di sopravvivenza. Ora quell’autobus lo avrebbe portato da qualche parte, dove c’era gente, un pronto soccorso, ossigeno, medicine, salvezza. Quei ragazzi così allegri, così vivi. Cantavano, erano sgraziati e eccitati come gli storni sui campanili. Se avesse avuto ancora un minimo di fiato, un barlume di lucidità, un’ultima goccia di sangue nelle vene, avrebbe potuto ancora chiedere aiuto a loro.

Il commissario non voleva sapere altro. Non gli interessava un colpevole a tutti i costi: avrebbe significato scoperchiare fatti troppo privati, aprire ferite, confondere idee, e soprattutto mandare in prima pagina un uomo che non voleva più avere una storia. Omicidio di ignoto a opera di sconosciuti.
Caso archiviato.

*  *  *  *  *

Il Giallo non è propriamente il mio genere letterario, ma è quanto richiesto dall’eds della Donna Camèl, e chi sono io per obiettare? Quindi mi adeguo come posso, aggiungendomi ad altri che certamente faranno meglio, come
Dario con [condomini emiliani] Bitols
Hombre
con Ritratto in ocra e carboncino 1 e 2 e 3
Angela con Giallo canarino
Michelarosa
con Il cane bianco
Lillina con Giallo di provincia
Dario con Carmelo Sapienza
Marco con Assassinio sull’Agreste Express
Pendolante con Dolce come la morte 1 e 2
La Donna Camèl con Ah, look at the lonely people 1 e 2 

Kate G.

(dedicato a Kate Gompert, per chi la letto Infinite jest)

Quando riapro gli occhi c’è mia madre seduta in fondo al letto.
Ė tanto che non ci vediamo. Non mi sembra cambiata: è sempre la stessa, anche quando è seduta su una sedia scomoda in fondo a un letto in ospedale pare appena uscita dal parrucchiere e in procinto di raggiungere le amiche in centro.
“Ti sei svegliata, finalmente – dice.
Quello che non dice è:
“Era ora, così adesso posso andarmene”.
E quello che invece avrebbe dovuto dire è:
“Come stai?”
Ma non posso aspettarmelo da lei, e quindi con gran fatica (ho le labbra secchissime) lo chiedo io:
“Come sto?”
“Come stai tu? Come sto io! – esplode durissima, e si alza dalla sedia e invece di venirmi vicina si mette a fare su e giù nella stanza, stringendo i pugni e scuotendo la testa.
“Hai ragione. Come stai, mamma? – chiedo debolmente.
Si ferma a capo del letto e inizia a pontificare agitando le braccia:
“Come sto? Come sto? Sto come una che ogni volta che squilla il telefono pensa ecco è la polizia, ecco è l’ospedale, ecco è l’obitorio… ecco come sto. Sto come una che… non so più neanche io come sto, ecco come sto!”
Chiudo gli occhi ma lacrime ne scivolano fuori lo stesso.
“Mamma, non è come credi, ti posso spiegare… ti posso spiegare? – mormoro.
“Non c’è niente da spiegare. Non mi prendi più in giro, tu. L’hai rifatto, e anche stavolta te la sei cavata. Non c’è altro da aggiungere. Cosa vuoi spiegare? Tu, a me? Ma per favore, lascia stare”.
Raccoglie la borsetta, si rimette il cappottino distinto e si avvia decisa alla porta.
“Ti mando l’infermiera. Spiegalo a lei” – e così se ne va.

L’infermiera arriva subito con i suoi zoccoletti silenziosi, la linda casacca verde, un sorriso umano. Mi dà un buongiorno radioso come se fosse venuta ad alzarmi per andare a scuola in un qualsiasi, soleggiato mattino di primavera. Mi fa delle domande familiari mentre mi controlla la flebo al braccio e la medicazione alla testa; ha mani leggere e tiepide, la sua presa sul mio polso è rassicurante.
“Bene, direi che ora dovresti avere fame. Che ne dici di una bella tazza di tè con qualche biscotto? E più tardi ti aiuterò a sedere in poltrona. Non provarci da sola, mi raccomando: potrebbe girarti la testa”.
Com’è premurosa, com’è normale.
“Aspetti – la fermo – Volevo dire qualcosa, Beh però adesso non mi ricordo più cosa… no no, aspetti, ecco. Volevo sapere come sto”.
E lei (non mi sembra vero) mi risponde:
“Adesso stai bene, è tutto a posto. Ci stiamo prendendo cura di te e tu non devi pensare a niente altro”.
“Ma io volevo spiegare – insisto puerilmente, e cerco di sollevarmi sul cuscino ma la testa sembra troppo pesante.
“Non l’ho fatto apposta, deve credermi. Mi sono trovata nelle circostanze, e ho dovuto farlo. Ho dovuto, capisce? Ė stata legittima difesa. O io o lei. Non ce la facevo più, provi a mettersi nei miei panni, con una che mi capita in casa a ogni ora, quando le pare, e ci fa i suoi comodi per tutto il tempo che vuole. Anni che la sopporto, che la subisco…”
“Stai parlando di tua madre? – mi chiede addolorata.
“No, mia madre non c’entra, mia madre non viene neanche mai a trovarmi. Sto parlando di Kate. Non la sopportavo più. Mi toglieva la libertà, l’aria, tutto. Mi entra in casa, si siede in salotto, oppure mi segue in cucina, in giardino, perfino in bagno, e parla, parla, parla. Parla così tanto e di cose così assurde che mi fa venire la nausea, mi gira la testa, mi si stringe il petto e dopo un po’ vedo tutto nero. Mi manca l’ossigeno. Sento il pavimento diventare molle sotto i piedi come se si stesse aprendo una voragine, e intanto il soffitto si abbassa e le pareti si accartocciano, e io resto asfissiata. Ma lei queste cose non le capisce. Gliele ho dette tante volte, o perlomeno ogni volta che mi ha lasciato parlare. Non mi ascolta, parla sempre lei. Oppure il contrario: viene ma sta zitta tutto il tempo. Mi guarda e sta zitta. Mi guarda dall’angolo dello studio, dalla portafinestra, dall’armadio, dall’oblò della lavatrice, dal pianerottolo delle scale. Ho imparato che per togliermela dai piedi devo inventare una scusa, e così fingo di addormentarmi. Ma non ci riesco, non ci riesco! Lo sa da quanti mesi non dormo?”
L’infermiera si è seduta sul bordo del letto, e mentre farnetico mi liscia piano i capelli dietro le orecchie.
“E non potevo nemmeno denunciarla, capisce, perché con la polizia ho un conto in sospeso, una piccola cosa di droga. Ma adesso le giuro, sono pulita da due anni, due interi anni senza, due anni duri e puri, e nessun rimpianto. Non fumo più, non mi faccio più, non bevo nemmeno alcolici. Rigo dritto.”
“Lo so, cara, lo so: i tuoi esami del sangue parlano chiaro, sei una brava ragazza – mi rassicura, carezzandomi maternamente.
“E allora ieri non ce l’ho fatta più, capisce. Perché mi hanno licenziata per colpa sua, e adesso è veramente troppo. Mi hanno licenziata perché Kate ormai veniva a trovarmi anche sul lavoro e mi costringeva a chiudermi in bagno con lei per discutere, ma i colleghi sentivano la mia voce agitata, a volte gridavo, o singhiozzavo, e si sono spaventati, e hanno cominciato a tenermi d’occhio e qualcuno si è accorto che non facevo bene il mio lavoro, che certi giorni scappavo via prima dell’orario o non mi presentavo per niente. Perché se non dormo non ho neanche più la forza per lavorare, capisce? Capisce cosa mi ha fatto? Mi ha rovinato la vita. E io cosa dovevo fare? Ieri ero sfinita. Ero agli sgoccioli. Non avevo neanche aperto le finestre, né mi ero fatta la doccia, e non avevo mangiato da almeno tre giorni. Lei è venuta lo stesso. Una lite furibonda con l’ultimo fiato che avevo in corpo. Niente, lei rideva, mi prendeva in giro, faceva apposta a restare lì per tormentarmi. Allora l’ho afferrata per i capelli (la sua bocca rideva, rideva!) e ho cercato di sbatterle la testa contro il muro per farla tacere. Forse volevo ucciderla, chi può dirlo. Non ero nelle condizioni di sapere nemmeno io cosa stavo facendo. Ma lei è più forte, lei è agile, lei è piena di salute e di energie, e si è divincolata facilmente, così è stata la mia testa quella che ha sbattuto sul muro. E mentre stavo svenendo nel mio sangue, Kate ancora rideva”.
Ora taccio, chiudo gli occhi, ho detto tutto, ho rivissuto l’incubo. E non so se mi ha fatto bene o male.
“Povera piccola – mi sussurra l’infermiera, avvicinando il suo viso al mio per asciugarmi le lacrime con una garza.
Sento il calore del suo corpo vicinissimo, è un corpo morbido, materno, addestrato al dolore e alla consolazione. Mi sento morire e poi rinascere quando mi abbraccia, stringendo la mia testa malata contro il suo grembo vestito di verde. Lì dentro c’è un utero accogliente e sicuro, un’incubatrice ovattata, il guscio della vita. Mi anniento in questa illusione.

“Dottore, la ragazza della stanza 8, Kate, si è svegliata. Parametri tutti a posto. Se vuole andarla a vedere, c’è un bel po’ da fare”.

*   *   *   *   *   *

Questo racconto contiene qualcosa di verde e qualcosa di inespresso, e pertanto partecipa all’eds della Donna Camèl insieme a:
Opera numero 1 di Angela
La sciarpa di Michele
O’ nipote mascalzone di Hombre
A proposito della Prinz verde di La Donna Camèl
Fili spezzati di Lillina
Consigli di Dario
Onda verde di Calikanto
Due distinti signori in completo elegante di Gabriele
Cambiamenti cromatici di Pendolante
L’ego di Dio de Il Pendolo
Il primo viaggio insieme di Gordon Comstock
La scatola verde di Singlemama
Il dormiente di Pendolante 

Telefono casa

E, insomma, io mi sarei rotta.
Questo posto è troppo grande per me sola, e poi è troppo isolato. Per carità, è comodo, con tutti i ritrovati più moderni, tipo che per alzare o abbassare le tapparelle basta premere un tasto, idem per regolare la luce. Coibentazione perfetta, climatizzazione regolabile al millesimo di grado, arredo minimale grazie a armadi e armadietti incassati, un posto per ogni cosa, ordine assoluto e niente impicci in giro. Filodiffusione e televisori in ogni locale; perfino una piccola palestra e un solarium. La vista poi è impagabile, panoramica a 360 gradi, e la zona è tranquillissima, un paradiso.
Però anche il panorama a lungo andare stucca, e fare cyclette da sola mi fa uscire pazza, e questa cosa che non posso neanche svagarmi spolverando perché degli efficientissimi aspiratori nascosti lo fanno al posto mio mi sta facendo sentire inutile.
Certo, con tutta questa tecnologia un guasto è sempre in agguato, e allora sono cazzi, perché hai voglia a trovare un elettricista da queste parti. Per fortuna ho studiato ingegneria elettronica, come voleva mio papà che era un umile meccanico ma bravissimo, e con schede e circuiti me la cavo abbastanza. Per esempio, quando la cyclette è impazzita o il termostato della dispensa è andato in corto.
Qua ce ne sono spesso, di piccoli guasti da riparare. Adesso per esempio tocca alla parabola: ultimamente fa qualche scherzo, gli schermi si riempiono di neve, l’audio impazzisce. Inutile, devo pensarci io.
Prendo la mia cassetta degli attrezzi superfornita, mi copro bene e esco, perché la centralina è sul tetto.
Svito, smanetto precisa e delicata, collego il tester, correggo di qualche mezzo grado, eseguo una seconda diagnosi, aspetto qualche istante… ed ecco, la lucetta verde si accende, bella brillante e sicura. Evvai Molly, mi dico, anche stavolta hai fatto tutto da sola. Sei la migliore, sei.
Peccato che al momento di rientrare la manopola non gira. Provo, riprovo, è sempre stato un movimento semplice, ma stavolta non vuole saperne. No, dai, vuoi vedere che si è incastrata una linguetta e sono chiusa fuori? E ora chi chiamo, che non ho vicini di casa e per di qua non passa mai anima viva?
Provo con la chiave W8.3, la più robusta del mio equipaggiamento, ma so già che per girarla ci vuole una forza che non ho. La forza di un uomo, ci vorrebbe. E infatti non si smuove di un pelo, i polsi mi fanno male e comincio a sudare.
Mi viene da piangere. Mi viene da arrabbiarmi. Mi viene da pensare che col cavolo che rinnovo il contratto alla scadenza, ma mancano ancora sei mesi, accidenti a me. Sei mesi, e dopo chiudo bottega, cambio vita, mi cerco una casetta su misura, vecchiotta, con un giardinetto, un gatto, delle belle tendine alle finestre, una collezione di caffettiere sulla mensola del camino. Mi immagino la mattina in accappatoio aprire la porta per raccogliere il giornale e il latte e salutare la mia vicina che fa altrettanto in vestaglia. Mi immagino uno steccato verde, un droghiere in fondo alla strada, una biblioteca a due isolati, un caffè dove trovarmi con le amiche, il mercatino dell’usato ogni prima domenica del mese, le riunioni del circolo dell’uncinetto il giovedì pomeriggio. Un letto con una trapunta patchwork, una radio in sordina mentre inforno biscotti per Natale, le campane la domenica mattina. Mi immagino una vita di provincia deliziosa e un po’ pettegola, tra parrucchiera e supermercato. Sei mesi, dannazione, sei mesi. E intanto io qua fuori comincio ad ansimare.

Toh, guarda guarda guarda… e chi se lo sarebbe mai aspettato?
Un veicolo passa, rallenta, si ferma.
Oddio, veicolo: più che altro un trabiccolo, un po’ come il triciclo del gelataio che passava d’estate al villaggio.
Il tipo alla guida si affaccia, intuisce che c’è un problema e mi chiede se c’è bisogno di una mano.
Oddio, chiede: non l’ho visto parlare, direi più che altro che gli ho letto nel pensiero.
“Anche due! – esclamo riconoscente.
Allora meglio quattro – gli leggo nel pensiero, mentre ammicca simpaticamente.
Dà un’occhiata competente, annuisce, concorda con me che si tratta della linguetta e in men che non si dica riesce a ruotare la manopola bloccata solo le mani e senza sforzo apparente. La porta si apre liscia come l’olio, e con un fruscio rassicurante.
Lo invito a entrare, vorrei offrirgli qualcosa, ma lui si schermisce (“Come accettato, non si preoccupi“) e intanto si guarda intorno e scopre un groppo di fili che penzolano da un quadro elettrico, poi un pannello del riscaldamento che vibra, una guarnizione della doccia logora e altre due o tre magagnette che ho sempre rimandato di sistemare.
Le sistema lui, tutte quante una dopo l’altra, senza attrezzi, con la massima semplicità, fischiettando.
Non so come sdebitarmi, davvero – gli dico imbarazzata al momento del congedo.
E di che? Se non ci si aiuta tra noi… – mi sorride e se ne va.
Oddio, sorride: la bocca non ce l’ha.
Ma ha due mani d’oro.
Oddio, d’oro: verdi.
E non due: quattro.

*   *   *   *   *   *

Questo racconto contiene qualcosa di verde e qualcosa di inespresso, e pertanto partecipa all’eds della Donna Camèl insieme a:
Opera numero 1 di Angela
La sciarpa di Michele
O’ nipote mascalzone di Hombre
A proposito della Prinz verde di La Donna Camèl
Fili spezzati di Lillina
Consigli di Dario
Onda verde di Calikanto
Due distinti signori in completo elegante di Gabriele
Cambiamenti cromatici di Pendolante
L’ego di Dio de Il Pendolo
Il primo viaggio insieme di Gordon Comstock
La scatola verde di Singlemama 
Il dormiente di Pendolante 

Un mare d’erba

(Vincent Van Gogh: Campo di grano con cipressi, 1889)

Gli dissero di restare sulla soglia, ma era superfluo, perché Jacob conosceva le regole.
Un uomo alto accanto alla finestra dava le spalle alla stanza e guardava fuori, ma anche questo era superfluo dato che non c’era altro da vedere che il grigio del muro di fronte.
L’altro uomo prese un foglio dalla scrivania e lo diede a Jacob:
“Metti una croce qui”.
“So scrivere – mormorò Jacob, e firmò per esteso, lentamente, le dita troppo gonfie e indurite per condurre bene la penna.
Poi gli sbatterono sul petto un fagotto e un altro pezzo di carta:
“Le tue cose. E il lasciapassare”.
La porta si richiuse. Non ci furono saluti, e del resto nulla sarebbe stato più superfluo. Per tutto il tempo, l’uomo alto non si era mai girato e non aveva aperto bocca. Jacob si incamminò lungo il corridoio, nella direzione opposta a quella da cui era venuto.

La strada era una cicatrice di fanghiglia gelata nella vastità della neve. Tutt’intorno solo bianco e piatto a perdita d’occhio; e il colore del cielo era di un bianco solo un po’ più sporco. Il freddo non poteva nemmeno essere descritto, era il padrone di quel mondo, era l’unica condizione conosciuta, e in quanto tale, cioè ineluttabile, Jacob aveva imparato a domarla. Era lui stesso parte di quel gelo. Camminavano insieme.
Per verificare il contenuto del fagotto, attese di essere abbastanza inoltrato nel cammino da non rischiare di essere spiato da qualche torretta. La sua dignità glielo imponeva. Frugò tra gli stracci e vide subito che non era roba sua: forse era appartenuta a qualcun altro che era morto. Avvolto in un brandello di lana scoprì un frammento di sapone. Non c’erano né il suo orologio, né i soldi, né le scarpe foderate di pelo. Si chiese se avesse mai posseduto veramente tutto ciò, o se fosse solo un falso ricordo generato nelle notti insonni. Ripiegò gli stracci e decise di accettarli in memoria di quel morto senza nome cui non sarebbero più serviti.
Sul foglio c’era scritto che poteva viaggiare su un treno senza pagare il biglietto. Validità quindici giorni. C’erano anche altre cose scritte sul foglio, sigle e timbri rossi e blu. C’era il suo nome e la data del giorno. La fissò a lungo, perché era un mistero che solo ora gli si svelava. Ripiegò anche il foglio e lo seppellì in tasca.
La città distava forse una trentina di chilometri. Cominciò a intravederne il profilo irregolare verso metà giornata. Lungo la strada non aveva incontrato nessuno, non aveva avvertito alcun odore né veduto alcuna forma di vita. Entrò in città da un quartiere di stamberghe grigie, dove la neve si scioglieva in rigagnoli scuri. Incrociò gente taciturna e miserabile, che non si voltava a guardarlo. Di molti non avrebbe saputo dire se fossero uomini o donne, giovani o vecchi. Anche loro, come lui, erano coperti di pastrani dimessi, rattoppati, insufficienti; anche loro, come lui, probabilmente non li toglievano nemmeno per dormire. Il fumo che usciva da rari camini aveva uno strano odore, certo non buono, certo non di legna.
Si addentrò nella città cercando la stazione. Era una stanza puzzolente dal pavimento lurido; in un angolo, un gruppo di mendicanti attorniava un braciere avaro. Dietro il vetro giallastro dello sportello, un giovane rivoluzionario strava leggendo un librone. Jacob gli chiese quando sarebbe passato il prossimo treno.
“Dove devi andare? – gli chiese a sua volta il ragazzo.
Jacob glielo disse, ma l’altro non riconobbe il nome. Jacob citò altre località vicine, ma anche queste suonarono sconosciute al giovane. Erano i posti dove era nato e cresciuto, dove aveva prima studiato e poi insegnato a sua volta. Ora pareva non esistessero più, non fossero mai esistiti. O forse, semplicemente, avevano cambiato nome.
“Voglio andare a sud – decise Jacob.
“La linea va da est a ovest. Niente sud”.
“A est cosa c’è?”
“A est non c’è niente. C’è il confine”.
“Allora andrò a ovest. Quando passa il treno per andare a ovest?”
“Non lo sappiamo. Potrebbe essere domani, o fra una settimana. Tu prova a tornare qua ogni tanto. Hai un lasciapassare, suppongo”.
Jacob ripensò a quel foglio stropicciato con quelle sigle lugubri, quei timbri minacciosi, e rispose di no.
“Allora la prossima volta porta i soldi per il biglietto – lo ammonì il giovane, guardandolo con un ghigno cattivo. Aveva capito.

Tutte le mattine tornava a chiedere notizie. Non ne otteneva. Allora usciva nelle strade in cerca di cibo e denaro. Il primo giorno si accodò a una fila di diseredati che attendevano una ciotola di minestra davanti a una caserma diroccata. Jacob ebbe la sua razione; la allungò con un pugno di neve per farla durare più a lungo, e il tozzo di pane lo infilò sotto la maglia per conservarlo. Non mangiava da ventiquattr’ore. Si preparava a mangiare poco o nulla per chissà quanto, tutto il tempo che sarebbe durato il viaggio.
In un camposanto dalle antiche lapidi divelte c’erano dei morti da seppellire, ma il terreno era troppo ghiacciato. Jacob offrì le proprie braccia per un po’ di cibo, e in tre giorni scavò le fosse necessarie.
“Sei forte – gli disse il becchino.
Un vecchio con un braccio amputato non riusciva a riparare la porta della sua casupola. Jacob barattò mezza giornata di lavoro con due cipolle.
“Ci sai fare – gli disse il vecchio.
Appena fuori dall’abitato stavano lavorando a un ponte pericolante.
“Non assumiamo nessuno – lo avvertirono ringhiando.
“Non voglio soldi – disse lui – Mi basta qualcosa da mangiare”.
Sapeva fare tutto, spaccare pietre, costruire muri, trasportare pesi. Mangiava lentamente minestre allungate con la neve, e nascondeva il pane secco sotto gli stracci che lo coprivano. Faceva così provviste per il viaggio su quel treno che non arrivava mai. Gli mancava un acciarino, e questa divenne la sua principale ossessione. La notte dormiva nella stanza puzzolente della stazione insieme ai mendicanti, tutti nell’illusione che il braciere spento rilasciasse ancora un impercettibile tepore; dormiva con un occhio solo per non mancare l’eventuale passaggio di un treno, e intanto pensava a quell’acciarino che non aveva.
Lo ottenne in cambio delle strisce lise di pelo tarmato che staccò, con cupa pazienza, dal collo, dai polsi e dall’orlo del pastrano.

Scavava nei pressi della ferrovia in cerca di radici tra la neve sporca quando udì avvicinarsi un treno.
Lo scorse snodarsi in lontananza lungo una curva ampia, con la colonna di fumo ardesia contro il grigio appena più chiaro del cielo. Quando fu più vicino si accorse che era un convoglio merci dai carri sgangherati e coperti di ruggine e fuliggine. Procedeva lentamente, ma la direzione era quella giusta: ovest.
Jacob si nascose sotto il terrapieno e attese che l’ultimo vagone gli passasse accanto prima di saltarci sopra. Era vuoto, ma aveva trasportato bestiame, e negli angoli era ammonticchiata un po’ di paglia. Il portellone non chiudeva bene, ma perlomeno c’era un tetto sopra la testa. E in ogni caso lì dentro non poteva fare più freddo di fuori.
Dalle fessure Jacob scrutava il paesaggio, sempre uguale, a destra e a sinistra: un deserto plumbeo di neve, inabitato e inabitabile. Di giorno spiava se vi fossero cambiamenti, se apparisse qualche villaggio; di notte nel buio profondo non vide mai accendersi alcuna fiammella, neppure lontana.
La terza o quarta mattina apparvero delle ombre livide all’orizzonte, e l’arrancare del convoglio sembrò rallentare. Si cominciava a salire; laggiù doveva esserci qualche immensa foresta, forse un passo tra alti monti.
Folate di vento spietato insinuavano negli interstizi lame di neve. Con essa si dissetava, e una volta al giorno inghiottiva qualche morso di pane rinsecchito. Dosava le riserve, non conoscendo la durata del viaggio, né la destinazione.
Una notte attraversarono un gruppo di case. Sembravano abbandonate. Una visione fugace sotto una luna altrettanto fugace, poi il buio e le nuvole ripresero le une e l’altra.
Ora dalle fessure si vedeva una foresta intrappolata nella neve, i cui alberi avevano fusti così alti da nascondere il grigiore del cielo. Tra i rami o accanto alle radici non c’erano frulli d’uccello né fruscii di animali. Un bosco impietrito in un gelo arcaico, muto e sinistro.
Di notte accendeva qualche filo di paglia con l’acciarino, ma temeva di morire congelato nel sonno, e per non addormentarsi ripeteva caparbiamente versi di Ovidio, di Puškin.
Di giorno regolava il tempo sullo sferragliare delle lamiere, pensando che se quel rumore si fosse fermato avrebbe cessato di battere anche il suo cuore.
La foresta pareva interminabile. Jacob dovette arrendersi all’evidenza che le sue provviste stavano finendo, e che la fame lo avrebbe messo nelle mani del freddo entro poco tempo. Sarebbe morto così, passando dal torpore al coma e all’assideramento in fondo a un carro bestiame nelle Terre del Diavolo. Non avrebbe più bevuto una tazza di tè bollente sulla veranda davanti al giardino, non avrebbe più suonato il pianoforte nel salottino di sua madre, né terminato di tradurre i suoi amati poeti.
Smise di scrutare dalle fessure. Cercò una posizione protetta in un angolo. Mangiò qualche scaglia di sapone, la sola risorsa rimasta. Accese l’ultimo ciuffo di paglia, e con esso bruciò anche il lasciapassare. Un’unica fiamma vivace e ingannevole li consumò in pochi istanti. Non si accorse di aver permesso ai suoi occhi di chiudersi.

I bambini, cinque o sei, tutti biondissimi, rincorrevano conigli selvatici lungo i binari, e ridevano gioiosi. Il lungo treno si era fermato sbuffando e alcuni uomini stavano caricando acqua e carbone dal serbatoio di rifornimento a lato della ferrovia.
Jacob emerse dal sopore avvertendo che qualcosa era cambiato nei rumori che lo avevano finora accompagnato. Ma non solo, anche nell’aria, e nel tipo di luce che entrava ora a fiotti dalle fessure. Si trascinò a quella più bassa, all’altezza dei suoi occhi, e restò abbagliato.
Fuori era un mare d’erba.
Un sole franco splendeva su una pianura ininterrotta e verdissima, punteggiata di ciliegi in fiore. Poco distante, alcune case basse con gonfi tetti di paglia. Jacob strizzò gli occhi offuscati e si lasciò scivolare lungo la breve scarpata, finendo tra i radi cespugli dove si era impigliato uno dei conigli. I loro occhi stupefatti si incrociarono. Jacob allungò le braccia e lo afferrò: era grasso, tiepido e mansueto. Si mise in piedi a fatica e mosse qualche passo verso i bambini, che si erano fermati e lo guardavano gentili e incuriositi.
“Grazie – disse la bambina più grande, prendendo il coniglio che Jacob le porgeva – Sai, scappano sempre”.
Jacob si guardò intorno, avvertì il tepore dell’aria e del sole sulla sua schiena, attraverso il pastrano incartapecorito e gli strati di stracci. Nella lunga notte della sua coscienza, il viaggio era proseguito e lo aveva traghettato dall’inferno di ghiacci alla vallata dei ciliegi. Si tolse le scarpe con gesti goffi e posò i piedi nudi su quella spiaggia neonata, violandone la verginità con un senso travolgente di stupore.
“Vieni da lontano? – gli chiese gentilmente la bambina.
“Molto lontano. Molto freddo – mormorò lui, riascoltando la propria voce dopo settimane.
“Allora sarai stanco. Vieni con noi – lo invitò lei tendendogli una manina.
Jacob la prese e si avviarono lungo un viottolo, verso le case. Ma le gambe cedettero molto presto, e lui rimase indietro: guardava i bimbi procedere a saltelli sui loro zoccoletti, mentre i suoi piedi scalzi si arrendevano. Cadde in ginocchio come un cavallo abbattuto.

Quando la bambina tornò insieme a due uomini e a una donna, lo trovarono accovacciato nell’erba.
Stava brucando.

*   *   *   *   *   *

Questo racconto contiene qualcosa di verde e qualcosa di inespresso, e pertanto partecipa all’eds della Donna Camèl insieme a:
Opera numero 1 di Angela
La sciarpa di Michele
O’ nipote mascalzone di Hombre
A proposito della Prinz verde di La Donna Camèl
Fili spezzati di Lillina
Consigli di Dario
Onda verde di Calikanto
Due distinti signori in completo elegante di Gabriele
Cambiamenti cromatici di Pendolante 
L’ego di Dio de Il Pendolo 
Il primo viaggio insieme di Gordon Comstock
La scatola verde di Singlemama 
Il dormiente di Pendolante 

I salami della Beppina

La saga continua con questo episodio dedicato in particolare a Hombre che c’ha il cuore tenero per le storie ostetriche.

La Beppina quel giorno si era svegliata garibaldina, e di buonora si era messa a ribaltar casa, facendo il bucato, arieggiando i materassi, spazzando da cima a fondo, lustrando i vetri.
Dopo mangiato, poi, aveva attaccato coi salami a testa bassa, e l’Anselmo, chiamato a darle una mano, aveva parecchio brontolato:
“Cos’è tutta ‘sta smania, Beppina?”
Ma lei aveva una missione da compiere:
“Voglio che sia tutto a posto e in ordine per quando nasce la creatura. E poi alle donne incinte il movimento ci fa bene”.
Ora di cena, i salami belli paciocchi sono pronti da appendere in cantina a stagionare, e la Beppina ammette finalmente di avere un po’ di mal di schiena e se ne va a letto presto col suo pancione di otto mesi abbondanti.
Verso le due si sveglia infastidita da qualcosa, un crampo, una sensazione di bagnato. Prima se ne sta ferma ferma nel buio, pensando di tirare mattina senza svegliare il marito; ma i crampi sono forti e parlano chiaro.
“Anselmo, Anselmo… – lo scuote – Anselmo svegliati, c’ho le doglie!”
Anselmo salta su tutto spaventato, che è la prima volta e non se l’aspettava di notte.
“Corri a prendere la Pierina, fai presto, che a occhio si son già rotte le acque – lo spinge la Beppina, che adesso si tiene i fianchi e il dolore è sempre più forte.
L’Anselmo si butta giù dal letto goffo come un cinghiale in trappola, farfuglia frasi di raccomandazione, di conforto, si infila gli stivali e si butta il pastrano sopra il pigiama poi si precipita giù per la scala di legno e via di corsa in strada. È sceso tra l’altro un bel nebbione, che siamo quasi ai Santi.
La Pierina non c’è. Il marito si affaccia alla porta col berretto da notte in testa:
“L’è andata in frazione Borghetto per due gemelli, sarà una roba lunga… – annuncia desolato – Ti conviene provare dal dottore”.
Il campanello del dottore suona a vuoto. Due, tre, quattro volte. Non è in casa neanche lui, Madonna del Carmine. E adesso? La Beppina è lassù da sola, il bambino è un po’ in anticipo, bisogna cercare aiuto, presto!
Le strade sono deserte, le imposte sbarrate, chiusa da un pezzo anche l’osteria, i lampioni radi e scialbi nella nebbia bassa, il selciato brilla di umidità, neanche un cane in giro.
All’Anselmo gli viene in mente una cosa, e fa un tentativo. Non è mai stato lì, ma quand’era ragazzo suo cugino gli aveva raccontato tutto: la corsia rossa, le tende di velluto, i profumi dolciastri, il grammofono. La casetta è in fondo al paese, in una stradina appartata. Picchia alla porta, con la testa in fiamme.
Gli apre la Luisona in persona, imbellettata e stanca, con uno dei suoi abiti da sera un po’ sciupati da tante battaglie. Le fa strano, proprio strano, vedere lì l’Anselmo.
“Toh, chi si vede. Cos’è che vuoi a quest’ora?”
“L’è qua il dottore? – chiede lui tutto affannato.
La Luisona fa una risatina sprezzante:
“L’è qua, l’è qua. L’è di sopra ubriaco patocco che vomita in un catino”.
All’Anselmo ci scappa un’imprecazione, subito redarguita dalla Luisona, che in casa sua non vuol sentire bestemmie.
“E adesso cosa faccio? La Beppina sta per sgravare e non trovo nessuno che ci aiuti!”
“La levatrice?”
“In frazione Borghetto con due gemelli”.
La Luisona non si perde d’animo:
“Stai calmo, vengo io – e si infila il cappottino rosso e anche il cappellino dello stesso colore con una piumetta civettuola. Già sulla porta, dà ordini alle ragazze:
“Virginia, Cesira, una secchiata di acqua fredda e tanto caffè forte, di corsa. Rimettetemi in sesto il dottore e speditemelo dalla Beppina. Ma veloci, eh”.
La Beppina quando si vede entrare in camera la donna del peccato si imbestia subito col marito:
“Mo’ come ti sei permesso? Io quella là non la voglio! – ma subito dopo un crampo fortissimo le toglie il fiato e ricade sui cuscini smaniando.
“Non far la difficile, Beppina, che son qua per aiutarti. Fidati, c’ho una certa pratica – le dice la Luisona, che già prende in mano la situazione.
Tra le gambe della Beppina si affaccia qualcosa.
“Qua ci siamo, la testa sta uscendo – annuncia la Luisona, calmissima e professionale. Poi si rivolge all’Anselmo:
“Portami asciugamani, lenzuola, qualcosa insomma. Puliti, eh. E metti a scaldare un po’ d’acqua – gli ordina.
L’Anselmo va, esegue e torna. La Beppina ormai è in un mondo tutto suo, di dolore e paura, e lui si sente un estraneo impotente e un po’ grullo.
“Metti qua, bravo – dice la Luisona, che intanto sta trafficando tra le gambe della Beppina, le tira su la camicia, le tasta la pancia.
Un altro crampo, un urlo seguito da un lamento lungo che si spegne in un ansito.
La Luisona si alza, va dall’Anselmo, gli mette le mani sulle spalle e lo spinge via:
“Te, fuori. Queste son cose da donne. Resta sul pianerottolo e vieni solo se ti chiamo – gli ordina perentoria.
Da dietro la porta l’Anselmo sente ancora quelle urla, quei guaiti, a intervalli vicinissimi, e la voce roca e rassicurante della Luisona che dirige le fasi misteriose dell’avvenimento.
“Dai che questa è l’ultima, spingi forte, di più, spingi spingi… eccoci! – la sente a un certo punto, e allora non aspetta di essere chiamato, ma entra di botto come il vento, giusto per vedere qualcosa di viscido sgusciare dal corpo di sua moglie nelle braccia della Luisona. Ha il cordone attorcigliato intorno al collo, e per lunghi istanti ansimanti la Luisona lotta furiosamente per sgrovigliarlo. Finalmente ce la fa, ma la creatura è grigiastra e non respira.
“Dammi una forbice, un coltello, qualcosa!”
“Cosa gli vuoi fare? – chiede agghiacciato l’Anselmo.
“Gli taglio il cordone, asino. Ecco fatto”.
La creatura non reagisce. La Luisona massaggia, massaggia, assesta colpetti sulla schiena, si sporca di sangue e siero il vestito rosso, e intanto la Beppina si riprende e mugola chiedendo del suo bambino.
“Ė una femmina – comunica la Luisona senza smettere di rianimare, ma la piccola ancora non respira.
“Acqua calda e acqua fredda. Due catini. Di corsa! – ordina a questo punto.
Poi, ispirata da qualche dio, immerge il corpicino alternativamente nell’uno e nell’altro, freddo, caldo, freddo, caldo, tre, quattro, più volte, sperando di scatenare qualcosa.
“Sentite, io per sicurezza direi di battezzarla subito – dice schietta a un certo punto – Com’è che la chiamate?”
“E chi è che la battezza? Dovrò mica andare a chiamare anche il prete? – sgrana gli occhi l’Anselmo, impietrito.
“In caso di pericolo di vita, può battezzare chiunque, asino – la voce della Beppina, dal letto, è esausta ma ferma e ragionevole.
“Luisona, battezzamela tu. Si chiamerà Flora – aggiunge, e alla Luisona le vengono le lacrime agli occhi.
“Nel nome del Padre, Figlio e Spirito Santo amen”.
“Amen”.
“Amen”.
E ecco, la neonata getta il primo vagito, e poi attacca un pianto urlato a pieni polmoni e stringe i pugnetti e protesta vivamente contro i metodi empirici e poco riguardosi che hanno permesso la sua venuta al mondo.

Flora, nata, rinata, battezzata, lavata e avvolta in panni caldi, è adesso in braccio alla mamma, a sua volta cambiata, ripettinata e raddolcita.
L’Anselmo, ancora stravolto ma adesso per la felicità, accompagna giù la Luisona.
“Come posso… – inizia a chiedere, ma lei lo ferma subito.
“A posto così, non ti preoccupare – e se ne va nelle sue scarpe rosse da maitresse, scontrandosi nel viottolo col dottore che arriva solo ora, i capelli bagnati e il passo un po’ rigido.
“Le manderò dei bei salami – pensa l’Anselmo – I salami della Beppina”.
Poi gli viene in mente che mandare salami alla tenutaria di un bordello non è mica tanto di buon gusto, e ripiega su una dozzina di bottiglie di vino novello.

* * *

Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
Dario con Lisa Borletti
Dario con Turi Pappalardo
Dario con Lucevan li occhi suoi più che la stella
Gordon Comstock con Il peccato più grande
Fulvia con Biancaneve
Hombre con Present continuous
Gabriele con Cave cave Deus videt
Angela con Pensiero stupendo
Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi
Pendolante con Generazioni
Michela con Apple
Cielo con Il pantone. Altro che rosso
Lillina con Iago
Hombre con I primi nove venerdì del mese
Calikanto con Tabarin
La Donna Camèl con La casa rossa
Leuconoe con Sogno di un pomeriggio di mezz’autunno
Marco con Il treno rivelatore
Kermit con Aspettando Geova
Singlemama con La Messa della domenica

Mille papaveri rossi

Se avete letto il post precedente e vi siete chiesti mo’ chi è sta Gisa, qui sotto ve lo racconto.

La Gisa era una brava ragazza, in paese lo sapevano tutti. Una seria, onesta, che andava dritta per la sua strada senza grilli per la testa né debolezze. E queste doti nel suo caso erano ancora più luminose perché, oltre al resto, la Gisa era anche bella, bella proprio come un’attrice del cinema. Con quei capelli mossi naturali, gli occhi profondi, la bocca rossa, il corpo morbido sopra e sotto una vita stretta da ragazza, le gambe belle da guardare anche se portava zoccolacci o scarponi. Due vestiti solo, aveva: quello a fiori per l’estate e quello nero per l’inverno, e li teneva per la domenica. Per i lavori nei campi si metteva un paio di pantaloni frusti e una camicia vecchia di suo papà, e vangava e trasportava fascine come un uomo. La domenica lavava tutto nel mastello e stendeva nell’orto. Gli uomini le riservavano sguardi eloquenti e bisbigliavano tra loro, ma nessuno aveva il coraggio di mancarle di rispetto, anzi tutto il paese provava nei suoi confronti un sentimento di ammirazione e protezione.
La Gisa era una brava ragazza e portava addosso un’espressione ardita e severa, soprattutto per nascondere la disperazione. Suo marito glielo avevano ammazzato i tedeschi che era sposata da tre mesi, neanche il tempo di restare incinta. E lei, dal gran dolore, aveva deciso di mettersi con i partigiani. Gli portava notizie e rifornimenti su per la montagna, arrampicandosi per la mulattiera con gli scarponi e lo zaino. Quel che le chiedevano di fare, lo faceva senza batter ciglio, come se non le importasse rischiare, o magari come se non avesse il minimo dubbio sulla necessità di farlo. C’aveva paura di niente, la Gisa.

Nella baracca c’erano tutti: il Gufo, il Ciuca, il Manassa, l’Anselmo… tutti. Era buio, notte di luna nuova e nuvole strappate che lasciavano intravedere solo due o tre stelle nebbiose.
Di fuori grida una civetta, due volte, poi altre due.
“La Gisa! – avverte l’Anselmo, e gli uomini si alzano e prudentemente impugnano le armi, casomai sia una trappola.
Invece eccola, è la Gisa che si fa riconoscere e sguscia dentro, col respiro ancora accelerato dall’ultimo pendio. Tutti  la guardano, e sono tesi perché se lo aspettano quello che deve dire, se lo aspettano da giorni.
“Un camion e due jeep, dieci uomini in tutto, partono dalla Certosa a mezzanotte”.
È questo il messaggio stringato e drammatico della Gisa.
Poi si avvicina al tavolo e svuota lo zaino, mentre gli uomini cominciano a parlare tra loro, a fare conti.
“A mezzanotte dalla Certosa, vuol dire che scollineranno alla Forcola verso le due – ragiona l’Anselmo.
“Tagliando per la Pratona, di buon passo siamo là in un’ora – assicura il Gufo.
Gli uomini si guardano cercando ognuno nello sguardo dell’altro una conferma alla propria determinazione.
E intanto la Gisa rovescia sul tavolo sigarette e salami, e dallo zaino estrae con cura due fiaschi.
“Il vino da parte dell’arciprete – annuncia seria – Le sigarette invece ve le mandano le ragazze della Luisona”.
“Ragazzi – dice l’Anselmo con voce grave – se volete scrivere due righe alle famiglie e darcele alla Gisa vi do un quarto d’ora, che poi si parte”.
In silenzio, con gli occhi stretti, tutti si appartano negli angoli con un pezzo di carta, passandosi un mozzicone di matita dopo aver scritto gli ultimi saluti. Cara mamma, cara moglie, mia bella Ninetta.
Solo uno, il più giovane, prende la porta e esce nel buio. L’Anselmo e la Gisa si guardano.
“Cosa l’ha il Muccino?”
“È la prima volta. Avrà paura”.
Il Muccino è la recluta, sedici anni, lo chiamano così perché i bambocci hanno sempre il moccio al naso. Ma anche gli uomini fatti hanno paura prima di andare in azione.
La Gisa le si stringe il cuore, ma vuol far vedere che è una di loro, una combattente, e mantiene in faccia un’espressione dura:
“Vado a parlarci io – dice.
Fuori è buio e fresco. Il Muccino è solo un’ombra più nera accoccolata su un masso sotto un cielo immenso e invisibile.
Parlano un po’, poche parole strette, la laconicità dei soldati.
“Non ho paura. Solo che non ho voglia di morire troppo presto – chiarisce il Muccino, e in effetti sembra più arrabbiato che spaventato.
La Gisa si stringe sulle spalle la giacchetta di suo marito, pensando che nessuno può capire meglio di lei quello che sta succedendo al ragazzo. Dovrebbe essere a casa, nel suo letto, con i genitori che parlottano serenamente in cucina, con i libri di scuola ancora aperti sul tavolo, con il pallone da calcio dentro l’armadio, la canna da pesca appoggiata al muro nell’angolo.
“Vieni un po’ qua – gli dice, e lo prende per mano, lo conduce fra i cespugli, lo attira a terra, se lo fa stendere accanto. È col suo corpo che gli impartisce il battesimo del fuoco.

È mattina presto quando il Tobia sfreccia in bicicletta davanti alla casa della Gisa che sta dando il mangime alle galline e le fa un gesto vittorioso, che significa “Missione compiuta, tutti salvi!”
La Gisa stringe le labbra e si sente il cuore ballare in petto. Stanotte poi non ha mica dormito, è stata sveglia a girarsi nel letto aspettando mattina per sapere qualcosa. Ora che la notizia è arrivata, può fare il resto.
Si mette il vestito della domenica e prende la strada del camposanto.
“Faustino non so neanch’io cosa dirti. Lì sul momento ho sentito che era la cosa giusta e l’ho fatto. E ancora adesso non sono mica pentita. Poi se per qualcuno è peccato, pazienza”.
Il viottolo sassoso è in lieve pendio, la Gisa si sente leggera e salta da un ciottolo all’altro come se guadasse un torrente. A quell’ora la campagna ha un odore buonissimo, la vita un sapore di pane appena sfornato.
Il tedesco intrappolato dietro le linee sbuca fuori da un fosso come un topo incarognito. Ha un’arma in mano e una faccia feroce da affamato.
La Gisa si blocca, intercetta lo sguardo allucinato che le fruga il corpo e capisce tutto. Ma come il Muccino non ha paura, è solo molto, molto arrabbiata.
L’uomo si avvicina col respiro grosso e gli occhi arrossati.
“Ah no, eh, a te non te la do! – esclama la Gisa con forza, esasperata, sprezzante. Non ne può più, è sempre la stessa storia. E mo’ basta, eh.
Improvviso, un mazzo di fiori rossi le fiorisce sul petto: uno, due, dieci, un’unica chiazza, un macabro bouquet da sposa.
Cade sul ciglio, gli occhi rivolti alla chioma dei pioppi, al cielo intrecciato fra i rami più alti. Sempre più bianco, sempre più bianco.

L’han sepolta nel suo abito da sposa, han gettato sulla tomba mille papaveri rossi.

*   *   *

Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
Dario con Lisa Borletti
Dario con Turi Pappalardo
Dario con Lucevan li occhi suoi più che la stella
Gordon Comstock con Il peccato più grande
Fulvia con Biancaneve
Hombre con Present continuous
Gabriele con Cave cave Deus videt
Angela con Pensiero stupendo
Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi
Pendolante con Generazioni
Michela con Apple
Cielo con Il pantone. Altro che rosso
Lillina con Iago
Hombre con I primi nove venerdì del mese
Calikanto con Tabarin 
La Donna Camèl con La casa rossa
Leuconoe con Sogno di un pomeriggio di mezz’autunno
Marco con Il treno rivelatore
Kermit con Aspettando Geova
Singlemama con La Messa della domenica

L’amore ai tempi dei nonni

Mio nonno Anselmo era una bella sagoma. Rosso di capelli, rosso in faccia, rosso il fazzoletto che portava sempre al collo. Rossa e ardente la sua fede comunista, che lo spingeva spesso a manifestazioni esuberanti non solo verbali.
La nonna Beppina, cattolica strettamente praticante, non era però da meno quanto a carattere, e quando diceva NO era NO. E quella sera il NO era assoluto e scandalizzato davanti alla richiesta, peraltro legittima, del suo sposo.
“Mo’ cosa ti salta in mente, proprio oggi che siamo stati a un funerale? – trasecola, interrompendo un attimo il suo rituale riordino dei vestiti prima di coricarsi. In camicia, lunga fino alle caviglie, le maniche con lo sbuffo tirate sui polsi, i bottoni ben chiusi fino al mento, le calze di cotone grosso ancora addosso; le avrebbe tolte solo una volta spenta la luce e recitato le preghiere, mezz’oretta di preghiere che Anselmo sopporta con paziente abitudine.
Il funerale – di quelli in grande, con la fanfara, i cavalli neri coi pennacchi, il gonfalone e la messa solenne – era quello del Venanzi, decrepito maestro elementare di più generazioni. Un sant’uomo, per quanto scorbutico, e a volte – si diceva – intemperante quanto a punizioni fisiche sui suoi scolari.
“Adesso mo’ cosa c’entra il Venanzi, aveva duecento anni e non era mica uno di famiglia! – protesta il nonno, che, ricordiamocelo, all’epoca avrà avuto sì e no un quarantacinque anni ed era uomo di grande vigore e sanissimi appetiti.
“E allora? Merita rispetto. Te non lo sai che è peccato fare certe cose il giorno di un funerale?”
“Certe cose, certe cose… fare all’amore col proprio marito non è mica certe cose, non è mica peccato, non è mica scritto sul catechismo!”
Alt, il catechismo. Su questo terreno minato, la nonna non accetta provocazioni. In piedi, con le mani bellicosamente sui fianchi, accanto al comò con le foto di famiglia e il Sacro Cuore di Gesù, sbotta con veemenza:
“Cosa parli di catechismo te che sei comunista? Dovresti vergognarti, dovresti!”
Il nonno su questo si scalda:
“Sarò anche comunista ma sono un buon cristiano. Ti ho sposata in chiesa, ho fatto battezzare i nostri figli, non bestemmio, non mi ubriaco,  a Natale e Pasqua vengo a messa, all’arciprete ci ho pure riparato il tetto della canonica a gratis, cos’altro devo fare, eh? Mo’ dimmelo te che sai tutto, sai! – e giù a dare pugni sulle lenzuola, a agitare le braccia verso il soffitto.
La Beppina mica molla, eh no.
“Sì, un buon cristiano… senti un po’, da quanto è che non ti confessi? – attacca.
“Mi sono confessato per il matrimonio. Mi sono messo in regola quella volta là, e da allora ho sempre rigato dritto. Peccati nuovi non ne ho da confessare, io. C’ho mica tempo per fare peccato, io, tutto il giorno a lavorare nei campi per mantenere la famiglia!”
Su questo ha ragione, la Beppina lo sa. Diciotto anni di matrimonio, la miseria in tempo di guerra, quattro figli da crescere, e lui, l’Anselmo, sempre a spaccarsi la schiena per loro, per lei, che la portava in palmo di mano.
Ma stasera ha un genio maligno che la pizzica sotto pelle, una voglia di litigare che non se la ricordava da anni, da quando erano giovani e lui la faceva arrabbiare perché le entrava in cucina con gli stivali della stalla.
“E i pensieracci, li hai confessati anche quelli?”
È un colpo basso, tirare in ballo le tentazioni della carne. Ma la Beppina ben conosce il temperamento sanguigno degli uomini del paese, e non resiste a giocarsi quest’ultima carta.
L’Anselmo reagisce strano, quasi perdendo il fiato. La sua voce è più sommessa, ora, e piena di dolore:
“Beppina, cosa dici. Io a te ti voglio bene, non ti ho mai mancato di rispetto, non ti ho mai tradito. Questa cosa qua te la potevi proprio risparmiare… – è improvvisamente smontato, la collera è passata in delusione, la frecciata lo coglie innocente, indifeso, incompreso. È lui a sentirsi tradito, in questa strana scaramuccia che sta prendendo una piega squallida.
“Beh, non dico tradito, ma non venirmi neanche a dire che le belle tose non le guardi quando passano, eh – cerca di rimediare la Beppina, con una voce scontrosa. E, malauguratamente, aggiunge:
“La Gisa, tanto per dire…”
All’Anselmo gli si riaccende in un attimo tutto il fuoco:
“Ah no, la Gisa no, non la devi neanche nominare la Gisa! La Gisa era una brava ragazza”.
E la Beppina, che si è già pentita, si morde le labbra e si scusa:
“Hai ragione, non dovevo, m’è scappata…”
Ma ormai la frittata è fatta. L’Anselmo la chiude lì:
“Basta, mi hai fatto passare la voglia – e si gira sul fianco tirandosi le lenzuola fin sulle spalle e lasciando la moglie contrita e imbarazzata a cercare con lo sguardo un po’ di indulgenza nell’immagine dell’Assunta sopra il letto. Ma l’Assunta la rimanda al Sacro Cuore di Gesù sopra il comò, e quello la rimbalza alla foto in cornice del loro matrimonio, con quel vestito goffo e accollato che somiglia tanto alla camiciona da notte di oggi. Forse è quella la risposta.
“Oltretutto – riprende l’Anselmo guardando il muro – secondo me sul catechismo c’è scritta un’altra cosa. C’è scritto “saranno una carne sola”. E allora sai cosa ti dico: che sei te a fare peccato. Bon, buonanotte”.
La Beppina non sa cosa fare. Quello che vede del marito è la nuca sopra il colletto liso del pigiama, quella striscia di pelle scottata dal sole e quei primi capelli grigi fra i ricci rossi che le fanno tanta tenerezza.
Le vien da pensare alle creature, i miei zii e zie fra i quattro e i quindici anni che dormono nello stanzone di fianco, due per letto, uno da testa e uno da piedi. All’Anselmo quando era sui monti con i partigiani e ogni tanto scendeva giù a notte fonda rischiando la vita solo per salutarla e spiare i bambini addormentati.
Smorza la luce e si infila a letto attenta a non smuovere troppo le lenzuola. A occhi chiusi, nel buio pieno di lucine che pulsano al ritmo del suo sangue, prova a dire un Pateravegloria più sentito del solito, si fa tre volte il segno della croce, bacia il rosario, lo mette sul comodino.
“Peccato per peccato… – pensa.
E la sua mano, leggera come quella di una timida sposa, cerca la spalla del marito.

Nove mesi dopo è nata mia madre, ed è stata lei a raccontarmi questa storia quando sono diventata grandicella e ho cominciato a farle certe domande su come nascono i bambini. Lei dice di aver sentito tutto dall’ovetto dove stava, in attesa di due genitori che la venissero a prendere. E io, adesso che sono incinta, non credo che se lo sia solo immaginato.

*   *   *

Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
Dario con Lisa Borletti
Dario con Turi Pappalardo
Dario con Lucevan li occhi suoi più che la stella
Gordon Comstock con Il peccato più grande
Fulvia con Biancaneve
Hombre con Present continuous
Gabriele con Cave cave Deus videt
Angela con Pensiero stupendo
Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi 
Pendolante con Generazioni 
Michela con Apple
Cielo con Il pantone. Altro che rosso
Lillina con Iago
Hombre con I primi nove venerdì del mese
Calikanto con Tabarin 
La Donna Camèl con La casa rossa
Leuconoe con Sogno di un pomeriggio di mezz’autunno
Marco con Il treno rivelatore
Kermit con Aspettando Geova
Singlemama con La Messa della domenica

Red velvet

Quinta ginnasio, quest’autunno sono passata dai calzettoni alle calze di nylon, ma per il resto poco è cambiato: cerchietto fra i capelli, gonna scozzese a pieghe e si esce solo il sabato pomeriggio, ma entro le sette a casa.
Con i compagni si va al cinema: il biglietto si porta via quasi tutta la paghetta, ne resta sì e no per un astuccio di caramelle. Sono sempre i maschi, vocianti e sguaiati, a decidere cosa si va a vedere, e sono sempre film western o d’azione quelli che scelgono. Noi femmine ancora non conosciamo il potere innato di influenzarli, e li seguiamo un po’ passive. Col nostro pezzettino di carta in mano passiamo sotto il controllo dell’addetto, che finalmente scosta la cortina di velluto rosso che per noi rappresenta una specie di frontiera iniziatica da varcare col batticuore, e ci lascia entrare nella sala. Occupiamo un’intera fila tra le ultime, sparpagliando cappotti e ombrelli e spintonandoci come a ricreazione. I maschi cominciano subito a mimare le scene, simulando sparatorie e scazzottate e disturbando tutti mentre noi ragazze, annoiate, sbucciamo caramelle fino a riempirci la bocca di un sapore di saponetta che se ne andrà via solo l’indomani.
Per tutto l’inverno va così, il sabato a fare gli spacconi al cinema e la domenica a studiare greco e latino.
Verso primavera si sono formate alcune maldestre simpatie, e la fila si sgrana: un paio di coppiette si siedono più in là e guardano il film le mani nelle mani, gli occhi lucidi di emozione nel buio della sala.
Quando esce Il dottor Zivago, noi femmine ci coalizziamo e per una volta riusciamo a imporci. Il film è corposo, le balalaike spezzano il cuore, i paesaggi ipnotizzano. Quando Yuri, sotto una tormenta di neve, scorge da lontano tre figure e le raggiunge, stremato, per scoprire che non sono i suoi cari ma tre estranei, i maschi hanno un bel ridacchiare, ma sono commossi anche loro.
Stella si è appartata due file dietro, nell’angolo più oscuro, con Sergio della 1A. Quando usciamo è molto tardi perché il film è lungo, e abbiamo tutti i volti in fiamme, ma i suoi occhi sono i più lucidi, sul suo viso le chiazze rosse sono le più rosse. Mi prende per il braccio e mi chiede di accompagnarla alla fermata.
“Se ti dico una cosa, mi prometti di tenere il segreto?”
“Certo”.
E lei, mentre ci affrettiamo verso la fermata dell’autobus, continua:
“Sai, io e Sergio…”
“Sì?”
“Io e Sergio…”
“Vi siete baciati? È questo che volevi dirmi?”
Ho ancora uno strano calore alla nuca al ricordo dei baci di Yuri e Lara, immagini così vivide e in primissimo piano da mettere in imbarazzo.
“No, di più”.
“Di più cosa?”
Lei non risponde, e io sento il cuore che parte in una tachicardia molesta.
“Avete fatto l’amore? – chiedo, con una voce che non riconosco come mia perché ha pronunciato per la prima volta una frase proibita, da adulti, nebulosa nel contenuto ma intimamente perversa. L’amore che conosco è quello di Giacomo per Silvia o di Didone per Enea, incorporeo, pudico, fatto di parole sublimi che si fermano sull’orlo di un abisso recondito. E le ragazzine per bene si fermano anche loro, perché è ancora troppo presto per saperne di più.
“Non proprio, ma quasi. Gli ho fatto quella cosa che sai – rivela Stella, che sembra non vedere l’ora di vuotare il sacco.
Solo che io non lo so proprio, non immagino nemmeno lontanamente cosa possa essere quella cosa di cui parla.
“Ma sì che lo sai, quella cosa che piace tanto ai ragazzi… Dai, non puoi non saperlo, non puoi essere così ingenua! – e ridacchia, ma male.
Arriva l’autobus, lei mi stacca e lo prende al volo, raccomandandomi ancora il segreto.
Torno a casa frastornata e febbricitante, con la sensazione di aver offerto un’inetta, inconsapevole complicità a qualcosa di orribile, una colpa abbietta, un peccato immondo.
Ma il segreto, che con me è al sicuro perché non l’ho capito, è anche nelle mani di quel bastardo di Sergio, che non ha perso tempo a vantarsene con mezzo mondo, così finalmente ci arrivo anche io, da mezze frasi, battute spinte e disegnini osceni che girano tra i banchi il lunedì alla prima ora.
Stella, come al solito in ritardo, fa il suo ingresso in classe con una nuova spavalderia, guardando dalla parte dei maschi con un’aria provocante e da quella di noi femmine con un sorriso di superiorità. Io sono rossa come il fuoco e provo un odioso formicolio su tutto il corpo. Quando mi si siede vicina mi scosto e evito ogni contatto. Presto si rende conto che anche le altre l’hanno giudicata ed esiliata, e il suo trionfo si smonta in un bagno di vergogna che la consegna, del tutto indifesa e indifendibile, al dileggio volgare dei maschi.
La compagnia si disgrega, il sabato non ci si incontra più sotto i portici. Ognuno trova altri giri, altri legami, e la breve stagione dell’innocenza si stempera altrove, cercando di dimenticare il modo increscioso con cui si è conclusa.

Ho diciotto anni, porto i collant di Mary Quant e ho un ragazzo a posto, terz’anno di lettere, che il sabato pomeriggio fa il catechista. Mia madre lo approva perché è serio e di buona famiglia.
Usciamo la domenica e passeggiamo, passeggiamo tanto. Lui mi bacia su una panchina al parco e mi scalda le mani. Al cinema non andiamo mai.
“Perdonami, ma soffro un po’ di claustrofobia – mi ha spiegato tutto spiacente e confuso.
E io l’ho abbracciato forte rispondendogli:
“Anch’io, anch’io!”

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Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
Dario con Lisa Borletti
Dario con Turi Pappalardo
Dario con Lucevan li occhi suoi più che la stella
Gordon Comstock con Il peccato più grande
Fulvia con Biancaneve
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Gabriele con Cave cave Deus videt
Angela con Pensiero stupendo
Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi 
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Kermit con Aspettando Geova
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Gloria mundi

“Eminenza, mi ha fatto chiamare?”
Il cardinal Bottazzi, ben contenuto nella poltroncina di velluto cremisi dietro l’ampia scrivania, giocherella con un sigaro e accoglie sogghignando il giovane segretario.
“Vieni vieni, don Venceslao, ti volevo giusto parlare”.
Don Venceslao è un bellissimo prete, giovane, atletico, impeccabile, con un’espressione maschia eppure spirituale sul volto ottimamente rasato. Dalla sua famiglia, gli Ubaldini di Sant’Ubaldo, sono usciti nei secoli prelati, diplomatici, pianisti. Da quella del cardinal Bottazzi, funzionari del catasto e produttori di celebri insaccati. Solidità economica, buone conoscenze, corporature poderose e facilità a rapporti conviviali calorosi e ben unti.
“Allora, ci siamo, domani si va a Roma – introduce il cardinale, inserendo una nota di golosa aspettativa. Il sigaro rotola fra le dita grassocce, in attesa del momento più azzeccato per essere tranciato e religiosamente acceso.
“È tutto pronto, Eminenza – lo rassicura il segretario in tono neutro e professionale. Gli sembrerebbe fuori luogo condividere palesemente la gioiosa impazienza che il suo superiore, invece, non cerca nemmeno di nascondere.
“Con i discorsi a che punto sei?”
“Li ho qui, se li vuole vedere – e Venceslao posa sulla scrivania una distinta cartellina di Bristol color crema.
“Mi fido, mi fido, li leggerò domani in aereo. E cosa ci hai messo dentro?”
“Di tutto, Eminenza, come mi ha detto lei”.
“La pace nel mondo? La giustizia, la solidarietà, i diritti umani? L’infanzia abbandonata? Il terzo mondo, il terrorismo, la perdita dei valori?”
“Tutto, Eminenza, tutto. Tutto quello che può servire per discorsi, dichiarazioni, interviste. A seconda del bisogno e del contesto, basterà mettere insieme i punti più opportuni”.
“E ci penserai tu, vero? Sei bravissimo in queste cose. Da quanto tempo è che sei il mio segretario?”
“Saranno cinque anni a settembre, Eminenza. Bontà vostra”.
“Il miglior segretario che abbia mai avuto – decreta il cardinale, con grassa soddisfazione. E avverte che è arrivato il momento di gustarsi quel profumatissimo sigaro.
“Ti dispiace, Venceslao? – l’Eminenza porge il sigaro e osserva pregustando il gesto esperto con cui l’impareggiabile segretario lo libera dall’involucro e lo decapita con precisione chirurgica.
“Tu non fumi, vero? – gli chiede con amichevole complicità.
“Occasionalmente qualche sigaretta, se devo essere sincero – risponde Venceslao badando a non tradire l’imbarazzo che quella ammissione sempre gli procura. Il fatto è che una sigaretta è l’unica tentazione cui si permette di cedere ogni tanto, quando lo stress del suo difficile ministero sale oltre i livelli di guardia. In quei momenti, sente urgente il bisogno di uscire dal suo studio – moderno, cablato, tecnologico, un ufficio attrezzatissimo e alienante – e correre fuori, nel giardino interno del Palazzo, per respirare l’aria di tutti e annusare gli odori delle piante e della vita normale. Spesso c’è un giardiniere che ramazza foglie dai vialetti, e se si tratta del vecchio Procopio si siedono vicini su un muretto e fumano insieme una sigaretta liberatoria, scambiando poche frasi che non tengono conto della differenza di rango fra loro, e nemmeno di età.
Il gran cardinale tira la prima boccata con gli occhi socchiusi dal piacere e si assesta meglio sullo schienale della poltrona. Poi, con un sorriso vagamente canagliesco, si rivolge di nuovo al giovane:
“Me lo voglio proprio godere, perché, sai, questo potrebbe essere l’ultimo”.
“Ha deciso di smettere, Eminenza? – si informa premuroso Venceslao.
“No, no, cosa dici, (piccola pausa strategica), è che se mi fanno Papa non potrò più farlo – e quasi ammicca – Perché, tu non pensi che io abbia buone probabilità? – chiede con aria innocente.
Venceslao si è irrigidito: “Non saprei, Eminenza. Queste sono cose che riguardano lo Spirito Santo, noi possiamo solo pregare”.
“Giusto, giusto, preghiamo, pregheremo. Lei mi raccomando preghi molto. E se tutto va bene, se da questo Conclave esco Papa, per lei ci sarà molto presto il cardinalato. Se lo merita!”

In giardino è sceso l’imbrunire e le foglie sul vialetto sono fradice di umidità. Il vecchio Procopio le sta raccogliendo con la scopa e le deposita sulla carriola. Si siedono accanto sulla panca di pietra vicino alla statua della Madonna, estraggono ciascuno dalla tasca il proprio pacchetto di sigarette e accendono da un unico cerino..
“Dice che diventerà Papa – sospira Venceslao pensieroso, guardando lontano.
“Reverendo, con tutto il rispetto quello lì l’è matto – sentenzia francamente il saggio Procopio.
Venceslao pensa agli enormi armadi di rovere che custodiscono il ricco guardaroba cardinalizio: le mantelline rosse, gli zucchetti, i piviali ricamati, le cotte con altissimi pizzi. Quella mattina ha passato tutto in rassegna per allestire i bagagli, e si è dilungato a sfiorare la nobiltà dei tessuti e la regalità del porpora. Il cardinale sogna invece di vestire tutto di bianco, e in quel caso che ne sarà di tutti quei costosi paramenti firmati? Venceslao chiude gli occhi e si immagina allo specchio, vestito di rosso, maestoso, ammantato di potere. Si vede un po’ più vecchio, appesantito, col viso arrotondato e roseo come quello di un neonato pasciuto, con gioielli d’oro da far luccicare alla folla, con le mani grassocce e molli da porgere al bacio di ambasciatori e potenti.
Poi in un altro specchio rivede se stesso ragazzo, seminarista in vacanza nella tenuta di famiglia, intento a studiare su antichi volumi nella biblioteca del padre, sordo ai richiami delle cugine che lo vorrebbero sul campo di tennis. E ancora la pieve del trecento dove canta la sua prima messa, e dove più avanti celebra il matrimonio di suo fratello e le esequie di sua madre. Castità, povertà, obbedienza. Domine non sum dignus.
Si scuote, cancella tutto, quello che prova è una specie di brivido ma non è febbre; casomai consapevolezza.
“Forse dovrei andare a confessarmi – annuncia a Procopio, spegnendo la sigaretta. Si affretta verso la cappella, sorridendo al pensiero che in Vaticano probabilmente è vietato fumare.

*   *   *

Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
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Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi 
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Michela con Apple
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Lillina con Iago
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Le buonanime

Io fino a due anni fa facevo la postina. Che portare la posta a Venezia non è mica un scherso come in teraferma. Prima di tuto in teraferma hanno i motorini, e qua no; qua tuto a piedi, su e giù dai ponti, dentro e fuori le calli, e l’acqua alta e i numeri civici balordi che se non conosci a memoria tuto il labirinto ti trovi a girare in tondo come un imbriago. A noi a un certo punto ci hano dato un carello tipo per la spesa, almeno quelo, no come una volta che avevamo la borsa a tracolla che pesava un acidente. Ma anche col carello non è per gnente un scherso fare i gradini, provate voi di teraferma.
Poi un giorno mentre tiravo su il carello in retromarcia sul ponte dei Ferri un ebete di un garzone che spingeva in giù il carello suo di frutta e verdura ci è scapato di mano e mi è finito adosso tuto belo pesante sul calcagno destro, un male dell’ostrega che sono quasi svenuta.
Sei mesi avanti e indietro dall’ospedale ho fato, per via che il tendine si è belo che roto, e dàgli di operassioni e gessi e fisioterapie, gnente da fare, sono rimasta zoppa, orcocàn.
E sicome che sono come si dice categoria proteta per via di quele due o tre rotelline difetose che ho in testa dala nassita, il Comune mi ha trovato un altro lavoro da far meno fatica, quatro ore al giorno la matina presto, a pulire i musei.
Mi va anche bene perché c’è i assensori e poi non è gnanche tanto dificcile, basta passare con calma una bela scopa e un straccio bagnato, non c’è gnanche mobili da spostare.
L’altro giorno c’era un nebione della malora e dai finestroni del museo Corèr si vedeva tuto bianco, che i vetri non sembravano gnanche sporchi. Ero là che tiravo il straccio su un pavimento quando sento qualcuno fare il mio nome.
“Vardé vardé siora mare, la Ceschina!”
Guardo di qua, guardo di là, nesuno. Saranno le mie rotelline, ho pensato, e ho ripreso a lavorare.
Ma quella là insisteva, con una vocetta da maestrina, tuta smorfiosa:
“Ceschina, sei proprio tu! E non ci saluti?”
Salutare chi, che intorno non c’era nesuno, solo quadri da spolverare.
“Guarda qua, Ceschina, siamo le tue buonanime – mi sento dire.
E infati erano delle buonanime ma di qualcun altro, non certo mie, dentro un quadro tacato sul muro, un quadro anche belo devo dire, con ste belle figurine tute in ghingheri sedute in salotto, che guardavano proprio dala mia parte. Ho piantato lì il spassolone e ci ho risposto educatamente:
“Sì sono la Ceschina ma voi chi sareste che non vi ho mai visto?”
“Eh, tu non ci conosci ma noi sappiamo tutto di te, vero siora mare? – dice la donna giovane, quela col vestito bianco e il ventaglio.
Siora mare è quela di sinistra, con la scuffia in testa e un gato in braccio.
“Ceschina, ti presento le tue bisavole: mia figlia Ortensia e i miei nipoti Zanetta, Carlina, Eleonora e Maffeo. Io sono la bisavola Eugenia e questo è il gatto Momi. Ti piacciono i gatti, vero?”
“Eccome che mi piacciono, ho un gato anch’io e guarda che combinassione si chiama Momi anche lui!”
“A Venezia i gatti si chiamano quasi tutti Momi – dice la figlia, l’Ortensia, con l’aria di una che i gati ci fano un po’ senso, sta smorfiosa.
Il fantolino vestito da bambolotto ataca a ridachiare, e sua mama ci fa:
“Tasi ti, buratìn!”
La fiola granda, la Zanetta, vuol far la sua figura e dice:
“Certo che la Ceschina ha proprio un’aria di famiglia: è zoppa anche lei come l’avo Bartolomeo”.
E qua tute cominciano a contarsela, guardandomi come se fussi una casseta di sardèle sul banco del pessivendolo, e io capisco e no capisco, parlano di certa gente che davero non ho mai sentito prima.
“Non dire stupidessi, l’avo Bartolomeo era zoppo perché a Lepanto si era preso delle schegge di cannone in una gamba. Piuttosto come l’ava Prosdocima, che era badessa a Santa Maria delle Grazie e aveva la gotta”.
“Le mani però sono quelle dell’avo Barba Frutariòl, che aveva banco e bottega a Rialto”.
“Gran lavoratore anche lui!”
“Sì ma gli occhi? Precisi a quelli dell’ava Dolfina, che abitava giusto di fronte alla Veronica, la Veronica Franco”.
“Stessi capelli dell’ava Lucinda, che aveva sposato quel tessitore alla Giudecca. E il naso mi ricorda tanto quello dell’avo Pompeo che dirigeva il coro a San Marco. Dico bene?”
“Senti però, Ceschina – mi fa la vecchia con un modino tuto afetuoso – scusa se te lo dico, ma quel camiciotto celestino non ti sta mica bene, sai. Ti sbatte. Ah, se potessi andare di là, ho una cassapanca piena di damaschi e merletti, ti regalerei volentieri qualche braccio di stoffa per farti un bell’abito come si deve!”
“E io – si mete in mezo il magiordomo sull’angolo della porta – offrirei ben volentieri alle Vostre Signorie una cioccolata, un rosolio, ma purtroppo il Maestro mi ha messo qua in piedi, né dentro né fuori, e non posso servire nessuno…”
Io sono là tuta esterefata che li ascolto, le bele cose che dicono, le maniere da signoroni, tuta quela bela creanza, e un poco mi vergogno col mio camisoto celeste e il spassolone.
“Ma voi come fate a sapere tute queste cose della famiglia?”
“Eh, mia cara, noi siamo qua da tanto di quel tempo, vediamo tanta di quella gente, ascoltiamo tante di quelle storie…”
“E giriamo il mondo, anche. Parigi, Londra, Madrid, San Pietroburgo… All’estero i musei sono pieni di italiani, qua invece vengono quasi solo i foresti. Mah.”
“Ma siamo proprio sicuri che siamo parenti? Perché a me mi par tanto strano…”
“Sicuri, sicuri. Venezia è piccola e siamo tutti un po’ parenti. Avevi sì o no un bisnonno orologiaio a San Marcuola? Ecco, quello era pronipote di un pronipote di questo fantolino qua, Maffeo, che adesso se la ride come un macaco”.
“Ma senti che notissia… Se ce la raconto ala Sonia sicuro che non ci crede…”
La Sonia è la mia compagna di pulissie; al momento è due salette più in là che finisce di lavare per tera, ma fra due minuti verà a chiamarmi perché è ora di andar via.
Bisogna salutarsi, perché a le buonanime non ci piace che i estranei ascoltano i fati nostri, e fra i complimenti mi fano tante racomandassioni:
“Ceschina, i capelli: fatteli più vaporosi!”
“Ceschina, un bell’impacco di glicerina sulle mani tutte le sere!”
“Ceschina, la cipria!!!”
“E stai bella dritta con la schiena!”
Poi ariva la Sonia e quelli si fano tuti muti, mi sembrano anche un po’ più pallidi, sono tornati fissi imobili dentro il quadro, là in posa come prima più di prima.
“Cafè? – mi fa la Sonia davanti al distributore.
E io: “Macché cafè, oggi ti ofro io la ciocolatta al Florian, qua in Piassa!”
“Ciò, e da quando ti xé deventada ‘na Signora? – la Sonia spalanca i ochi.
Mi meto a ridare:
“Sempre stada, vecia mia, sempre stada”.

(nell’immagine, Pietro Longhi: La famiglia Sagredo, 1752)