Madeleine

Nell’ottobre del 1895, agli esordi della mia fortunata carriera di neuropsichiatra, mi imbattei in un caso a dir poco arduo e insieme commovente, che avrebbe cambiato la mia vita in un modo inatteso.
Me ne incaricò il professor Waldenstein, decano all’Hôtel Dieu, del quale ero stato l’allievo prediletto. Si trattava di una giovane donna dell’alta società che aveva perduto la memoria in seguito a un trauma emotivo dei più brutali: il marito era morto annegato sotto i suoi occhi nel mare di Capri durante il viaggio di nozze in Italia, e non riesco davvero ad immaginare un epilogo più straziante per quello che appariva a tutti un perfetto matrimonio d’amore. L’amnesia che l’aveva colpita aveva cancellato dalla sua mente tutti i ricordi antecedenti l’incontro con il futuro marito, risucchiando perciò nell’oblio la sua infanzia e le immagini dei suoi stessi familiari. Essa li riconosceva per tali solo perché le era stato provato che lo erano, ma tuttavia non rammentava di aver mai visto prima i loro volti né pronunciato i loro nomi. Incapace di ambientarsi nella sua famiglia d’origine, si era ritirata nella casa maritale, dove viveva infelice coltivando gli unici ricordi sopravvissuti, che le parlavano di un amore e di una felicità durati così poco e ormai perduti per sempre.
Acconsentii a occuparmi del suo caso dopo averlo frettolosamente classificato come una amnesia isterica, statisticamente abbastanza frequente fra i soggetti di sesso femminile soprattutto se giovani, benestanti e sensibili, e, confidando in un pronto successo, la ricevetti nel mio studio privato al pianterreno della villa di Neuilly dove dimoravo da solo.
Essa quel giorno, come poi tutti i seguenti, indossava un abito nero di ottima fattura e calzava un cappellino dello stesso colore, la cui veletta le copriva il volto lasciando trasparire solo il tenue rosa delle labbra.
Quel primo incontro fu dedicato a raccogliere quanti più dati possibile, ma a fine giornata mi resi conto di avere ben poco in mano: nulla che comunque non mi avesse già anticipato nel dettaglio il mio Maestro, perché dalla bocca e dalla memoria della mia giovane paziente non uscì null’altro di illuminante. E così anche negli appuntamenti seguenti: essa non faceva che ripetere le stesse frasi, rievocare le stesse scene, ribadire la propria impotenza davanti a quel muro nero che le si parava dinnanzi ogni volta che cercava di spingersi indietro nel passato.
“Un muro, voi dite”.
“Un muro. Un muro nero”.
“Nero come? Anche il nero è un colore, e dunque può avere varie tonalità, vari registri, a seconda di quale prevalga fra i suoi tanti componenti… ”
“Nero, signore. Nero. Non ci sono sfumature, è tutto nero”.
“Nero come la notte? La notte ha qualcosa di blu profondo. O come la seta del vostro abito? Però contiene dei riflessi argentei, smorzati ma comunque riconoscibili”.
“Se intendete dire che anche in un pozzo, anche in una grotta, il buio può essere sempre interrotto da qualche lieve bagliore, ebbene non è il mio caso. Il nero del muro che abita in me è definitivo e ineluttabile come l’interno di una tomba molti metri sotto terra, signore”.
La sua patologia persisteva ormai da qualche mese, e si era mostrata refrattaria ai principali rimedi posti in essere: non le avevano giovato né calmanti né eccitanti, né viaggi all’estero né riposi in un chiostro, né soggiorni al mare né in montagna, né applicazioni calde o fredde o elettriche o magnetiche, e nemmeno l’ipnosi. Il muro resisteva nel fondo della sua mente, nero e crudele, solido e beffardo.
“Vi scongiuro – mi supplicava – fate qualcosa. Finora tutto è stato inutile, e il tempo passa privandomi della gioia di vivere. Presto invecchierò senza mai essere stata giovane!”
Ah, essa che paventava la propria vecchiaia non aveva che ventuno anni! Si può immaginare nulla di più straziante? Quanto atroce era il suo destino di ricordare solo un marito oramai perduto e irraggiungibile e di non potersi rifugiare con confidenza nel grembo della famiglia che tanto l’amava e a cui si sentiva estranea? Sarebbe stato preferibile il contrario, e forse sarebbe stato anche più facile da curare.
Avevo adottato fin dall’inizio un mio metodo personale: durante la seduta, le facevo indossare sopra gli occhi una benda nera ben accomodata in modo da precludere il passaggio di qualunque spiraglio di luce. Lo scopo era quello di ricostruire in concreto la sensazione di muro nero e di stimolarla affinché si sforzasse di vedere oltre, di scavare quella superficie e scoprire al di sotto i tenui disegni dell’affresco del suo passato. Pronunciavo parole e nomi di luoghi che avrebbero dovuto rievocarle qualche ricordo fondamentale, oppure le facevo toccare oggetti che avrebbero dovuto esserle familiari, come la bambola preferita di quand’era bambina o il collare dell’adorato cagnolino dei genitori, ma pareva ormai che anche quei tentativi dovessero restare infruttuosi.

Un pomeriggio di tardo autunno (la luce era scesa presto, pioveva a raffiche e il vento dall’Atlantico frustava le imposte), nel corso di un colloquio particolarmente impegnativo accadde qualcosa di sorprendente. Ad un certo punto, mi accorsi che era molto provata e aveva il mento e le mani tremanti.
“Perdonate, ma sono troppo stanca per continuare. E a dire il vero ho molto freddo… – mormorò.
Subito mi adoperai perché si riprendesse, e la sorressi fino alla poltrona più vicina al caminetto, dove ardeva per la verità un fuoco più che sufficiente a riscaldare la stanza, ma evidentemente non il suo piccolo cuore afflitto. Le sistemai sulle ginocchia una coperta da viaggio e le misi in grembo il suo manicotto di pelliccia affinché si scaldasse le gelide manine, poi uscii per ordinare alla mia governante qualcosa di caldo e corroborante. In tutto questo, la mia pallida paziente non aveva mai tolto la benda dagli occhi, e tuttora la teneva, forse per trovare rifugio alla stanchezza in quel vuoto foderato di raso nero senza riflessi.
La governante entrò poco dopo con una tazza di cioccolata fumante, me la consegnò e lasciò che fossi io a offrirla alla giovane sofferente, ma rimase al suo fianco con un tovagliolino candido pronta a nuovi ordini.
Dopo il primo sorso, la spossatezza sembrò prendere il sopravvento, e la testa si reclinò all’indietro sullo schienale imbottito, mentre le sfuggiva un lungo e doloroso sospiro.
Ma subito dopo, tornò a bere il liquido dolce e bollente e stavolta gli dedicò un’attenzione insolita: pareva che le sue papille gustative analizzassero freneticamente densità e sapore e stessero trasmettendo al cervello una corrente di segnali vorticosi. Al terzo sorso, più lungo e concentrato, esalò una parola:
“Cannella”.
“Come avete detto? – chiesi, perplesso.
“Cannella. Cioccolata con la cannella. Una spruzzata di cannella. Un nonnulla di cannella. Il vapore la scioglie e vi entra nel cuore”.
Bevve ancora, sempre cieca eppure visibilmente rianimata. E disse un’altra cosa stupefacente:
“Il capriccio del diavolo. La cannella: il capriccio del diavolo”.
Mentre cercavo di capire se fosse per caso uscita di senno, non mi accorsi del cambiamento avvenuto nell’espressione, solitamente riservata, della governante, che all’udire quelle parole si era impercettibilmente chinata verso la paziente e scrutava incredula il poco che restava visibile del suo volto velato.
“Avete veramente detto il capriccio del diavolo? – chiese con voce rotta dal turbamento.
Ed essa, la paziente smemorata, dal fondo del suo buio confermò con inattesa decisione:
“L’ho detto. La cannella sulla cioccolata è il capriccio del diavolo. Lo diceva sempre la mia bambinaia”.
La sua voce si era fatta sicura e io trasecolai, ma non ero pronto a quanto stava per accadere. Stavo per inserirmi con alcune domande prudenti e studiate per valutare il grado di completezza di quel primo ricordo che pareva affiorare, quando la governante mi rubò la scena e continuò il dialogo relegandomi a semplice ascoltatore.
“E ricordate come si chiamava, la vostra bambinaia? – indagò con trattenuto fervore.
La risposta arrivò dopo un istante:
“Berthe”.
La governante si coprì la bocca con le mani, colta da intensa emozione, ed esclamò:
“Madeleine, siete dunque voi?”
Madeleine si strappò la benda dagli occhi, i loro sguardi si ritrovarono e si riconobbero e davanti a me le due donne si abbracciarono singhiozzando di gioia e coprendosi di epiteti affettuosi ripescati nel passato.
“Madeleine, confettino mio, mia nuvoletta, mia colombella!”
“Berthe, mia fata buona, mio angelo, mia aurora boreale!”
“Avete riconosciuto la mia cioccolata!”
“Nessuno la fa come voi, nessuno ci mette la cannella!”
“E vi siete ricordata di me!”
“Chi mi è stata più vicina di voi quando ero piccina?”
Stravolto dall’epilogo inaspettato, non mi rimase che restare in disparte e assistere a quel fiume di ricordi che si snodava fra le due, a tratti gaio, a tratti commosso. Il muro nero si era dunque infranto? E quale pietosa divinità aveva posto Berthe, la mia decennale governante bretone, al centro di quella straordinaria guarigione? Forse il Caso, il più bizzarro di tutti gli dèi.

Nei giorni seguenti, la mia paziente compì rapidi e risolutivi progressi. Berthe la seguì amorevolmente nel percorso di riavvicinamento alla famiglia e i risultati non si fecero attendere.
Allo scadere del tempo di lutto, presentai a Madeleine la mia proposta di matrimonio ed essa accettò con cuore gonfio d’amore. Lo stesso amore che mi dedica da ormai quarant’anni e che si è manifestato nella nascita dei nostri tre figli e recentemente in quella dei nostri primi nipoti.
Berthe è rimasta sempre con noi, e quando la sua tenace salute bretone ha cominciato a venir meno l’abbiamo tenuta come una di famiglia, accudendola con affetto e gratitudine quanto lei aveva accudito tutti noi. Ci ha lasciato l’anno scorso, molto compianta. Negli ultimi tempi, una grave forma di artrite diffusa l’aveva immobilizzata a letto, ed essa, mostrandoci le sue povere mani deformi e ormai inutilizzabili, ci ammoniva con affetto:
“I ricordi non spariscono, tutt’al più si nascondono. I miei, li vedete, sono tutti qui: nelle mie ossa”.

(nell’immagine: Sul balcone, di Berthe Morisot)

E via, partecipiamo a questo eds Nero di Natale della solita stregonessa Donna Camèl, non lasciamoli soli, gli altri. Che sono:
Hombre con Ti prego, non chiamarmi Barbie
Dario con Zebre e savane
Leuconoe con Placida come il fiume
Pendolante
con Natale con soffritto
Kermitilrospo
con Pedalata nera
Fulvia
con Il quadro capovolto – 2a parte
Lillina
con Una vita segnata
Calikanto
con Nero livido
La Donna Camèl
con Se tu mi amassi
Singlemama
con Dissolvenza in nero
Angela
con Chi è di scena
Angela
(ancora) con Taccido 

Povero Edipo

Era lei, e non era lei.
A prima vista, era lei senza dubbio. Sua l’acconciatura severa, la fierezza del collo e delle spalle, la regalità delle mani intrecciate in grembo; e suo il pallido zinco degli occhi.
Ermanno Sigismondi, sessantenne azzimato e celibe, per l’occasione nel suo completo primaverile grigio con la fascia nera da lutto ancora al braccio, studiava il ritratto di sua madre provando un sottile smarrimento. Certo, il pittore, prendendo a modello una fotografia di qualche anno addietro, l’aveva gratificata di un incarnato più luminoso di quanto non fosse stato nella realtà dei lunghi mesi di malattia, e le aveva discretamente lisciato qualche profonda ruga e riempito gli zigomi fattisi ossuti. Concessioni pietose,  necessarie e comunque concertate di comune accordo fin dall’inizio.
Ma non stava in questi artifizi cosmetici il motivo dello straniamento del figlio di fronte all’immagine della madre. C’era dell’altro, qualcosa di non immediatamente identificabile, qualcosa di molesto e imbarazzante, qualcosa che lo respingeva.
– Che ne dite, è somigliante?
Il Maestro sembrava aver posto la domanda solo per colmare il silenzio assorto che si era formato tra loro; in verità era più che convinto della bontà del suo lavoro, e placidamente seduto su una vecchia poltrona accarezzava un gatto rosso.
Ermanno si girò a guardarli. Ecco, gli venne da pensare: quei due lì, gatto e padrone, quei due sì che si somigliano. Non è strano? Eppure, lo stesso sguardo sornione, lo stesso mezzo sorriso… anche il gatto sembra sorridere. Poco poco, un sorrisetto canzonatorio, che si forma nel segreto della mente, non in quello del cuore.
Tornò a guardare il ritratto, infastidito, a disagio, sentendo salire una specie di umiliazione. Era venuto per visionare un’opera da lui stesso commissionata, ma ora gli pareva di essere lui sotto processo, e a giudicarlo erano un ritratto enigmatico, un pittore presuntuoso e un gatto strafottente.
– Mia madre era una gran donna – esordì, millantando sicurezza – Vedova a neanche trent’anni. Mi ha cresciuto da sola come meglio non avrei potuto desiderare. Ha preso in mano gli affari di papà e ha costruito un impero. Manifattura di tessuti pregiati, esportiamo in tutto il mondo. Fabbriche, uffici, negozi. Disegnatori e operai, impiegati e commessi, un esercito di dipendenti cui ha dato lavoro. Onorificenze, medaglie. Un’icona nel mondo dell’imprenditoria. Al suo posto di comando fino all’ultimo. Instancabile, inarrestabile…
– … implacabile.
– Come?
– Volevo dire, una donna di carattere, si corresse blandamente il pittore. Il gatto si leccò delicatamente il labbro superiore, senza apparente motivo.
– E una madre attenta, generosa. Non mi è mancato nulla. Ottimi collegi, viaggi all’estero, l’equitazione, il tennis, gli ambienti altolocati. Mi ha insegnato come diventare degno di succederle, ma so bene che non potrò mai confrontarmi con lei. Nessuno lo potrebbe. Mia madre era una donna speciale. Era l’unica donna. L’unica. Perché credete che non mi sia mai sposato?
– Lo so. Me ne avete già parlato il giorno del nostro primo incontro, ribatté il pittore – Ed è proprio su queste notizie, oltre che sulla fotografia, che mi sono basato per realizzare il ritratto. Ora però mi sembra di capire che non lo trovate somigliante, o sbaglio?
– Non saprei. Le somiglia, e non le somiglia. Ė lei, e non è lei.
– Io credo di avere colto tutto. Ma voi forse intendete dire che le manca qualcosa? – il pittore sembrava volergli pazientemente venire incontro, eppure la sua condiscendenza suonava un po’ come quella che si usa rivolgendosi agli sciocchi.
Le manca qualcosa. Le manca qualcosa. Ermanno lo intuiva, ma non riusciva a identificarlo. Scrutava le grinze della tela, ancora umide di colore, e ammetteva con se stesso come non vi fosse nulla da eccepire circa la grana della pelle, la precisione geometrica dell’attaccatura dei capelli, la simmetria dei lineamenti, ma era altrove il senso del suo disagio.
– Il sorriso – mormorò ad un tratto, come folgorato – Il sorriso.
– Quale sorriso? – il pittore si scosse e lasciò gatto e poltrona, portandosi accanto al cavalletto con sguardo sospettoso.
– Mia madre. Non sorride, vedete? Lo dicevo io che mancava qualcosa: il sorriso, manca. Il sorriso.
Il pittore scosse gentilmente il capo.
– Ė vero, manca. Ma voi non mi avete mai parlato di sorrisi. Vostra madre sorrideva? Rideva? Le veniva mai voglia di cantare? Non me ne avete parlato.
– Nella fotografia il sorriso c’è! – protestò Ermanno, trionfante – Siete stato voi a non raffigurarlo. Ora pretendo che rimediate a questo errore intollerabile, davvero intollerabile.
La testa del pittore faceva no no, ma gentilmente, quasi con compassione.
– Mi avevate chiesto di ispirarmi alla fotografia, non di copiarla tale e quale. Per quello sarebbe bastato duplicare il negativo. Ma voi vi siete rivolto a un artista, e lasciate che questo artista vi dica che quello non è un sorriso. Il sorriso viene da dentro, non è solo un movimento volontario dei muscoli della bocca. Ė altro, il sorriso. Credetemi, mi spiace molto dovervelo far notare.
– E a me non spiace affatto dovervi dire che vi ritengo incapace di ritrarre un sorriso. Santo Cielo, la cosa più facile del mondo!
– Lo dite voi, replicò dolcemente il pittore. Era anziano e aveva troppa esperienza per mettersi a discutere con un figlio illuso e frustrato.
– Datemi un pennello, uno piccolo, e vi faccio vedere io – ordinò spericolatamente Ermanno, mentre ormai la disperazione gli dava alla testa e lo spingeva a sragionare.
Ma per quanto tenesse ferma la mano e cercasse di modellare con la massima meticolosità gli angoli di quella bocca, essi continuavano a restare rigidi, a resistere al richiamo della tenerezza, e quelle labbra che avevano dispensato ordini imperiosi e rimbrotti taglienti, che avevano generato timore e sudditanza, che avevano trasmesso a tutti la determinazione e l’orgoglio di una donna dispotica, invece di incurvarsi nell’abbandono di un gesto d’amore si indurivano sempre più in una smorfia maligna, nel ghigno cinico di una megera ricca e crudele. E, soprattutto, su quel volto devastato dalle pennellate maldestre continuava a dominare lo sguardo glaciale di quei due occhi color zinco, fissi nella volontà di non partecipare minimamente allo sforzo di un sorriso fosse pure di convenienza. Il dipinto non poteva fare altro che denunciare al mondo intero l’assenza di un’anima.
Ermanno gettò il pennello, affranto. Il quadro era rovinato: la madre non riusciva proprio a sorridere, non lo aveva mai fatto in vita e non si sarebbe certo arresa a farlo adesso, in morte, a opera di un pennello. D’ora in poi lo avrebbe sempre guardato dalla cornice sopra il caminetto con quell’espressione di spietatezza a malapena camuffata.
– Quella santa donna si rivolterà nella tomba… ,  mormorò andandosene sconsolato.

 Ermenegilda Sigismondi si rigirò effettivamente nella tomba, la tomba di famiglia vegliata da angeli di marmo e fregi di bronzo massiccio, ma solo per cercare una posizione più comoda. Lei sola sapeva la verità. Tutti gli altri, al diavolo. Ah ah ah!

* * *

Questo pezzo, scritto per l’EDS Non cosa ho veduto, ma come l’ho veduto proposto dalla tellurica Donna Camèl, si unisce a:
Cuncittina, di Dario
Dove una madre, di Hombre
Trasposizione di un amore, di Lillina
Foto di classe, di Pendolante
Il fazzoletto bianco, di Pendolante
L’amore informale di due anime in guerra con se stesse, di Lillina
Essere nutria oggi, di La Donna Camèl
Il fotografo, di Effe 

(nell’immagine: Jacqueline with flowers, di Pablo Picasso)

Sono io, sei tu?

– Pronto?
– Ciao Andreina, sono io.
– Chi parla, scusi?
– Sono io, la Olga.
– E chi sta cercando?
– Sto cercando l’Andreina. Non sei l’Andreina?
– No, mi dispiace, qui non c’è nessuna Andreina. Deve avere sbagliato numero.
– Oh, mi scusi tanto.
– Si figuri. 

– Pronto?
– Andreina?
– No, signora, non sono Andreina. Sono quella di prima.
– Non mi dica che ho sbagliato di nuovo!
– Succede.
– Non so come scusarmi, mi creda.
– Non c’è problema. Buona giornata. 

– Pronto?
– Andreina? Finalmente sei tu, ho riconosciuto la voce. Pensa che ho sbagliato numero due volte, sono così impacciata con questo telefono nuovo…
– Signora guardi che sono anco…
– Tutte e due le volte mi ha risposto la stessa signora, una persona gentilissima per fortuna, non se l’è presa perché l’ho disturbata. E magari l’avrò interrotta in qualcosa di importante…
– In effetti stavo mescolando la besciam…
– Ma è stata molto paziente, devo dire. Devo avere sbagliato numero, un po’ perché ci vedo così così e un po’ perché ancora non mi sono abituata a questo telefono con i bottoni. Mi trovavo meglio col mio vecchio apparecchio con il disco che girava, se proprio non vedevo bene i numeri contavo i buchi con la punta dell’indice.
– Signora, prima che continui lasci che le dica che ha sba…
– Non è che ti disturbo a quest’ora, vero? Se hai un po’ di tempo avrei delle cose da raccontarti. Anzitutto come avrai capito non sono più a casa mia. Eh sì, te lo avevo detto che prima o poi… infatti ho fatto il grande passo, mi sono trasferita qua la settimana scorsa. Mio figlio era tanto che insisteva, così alla fine mi sono convinta.
– Signora, se si ferma un attimo le posso spiega…
– Per essere un bel posto, è un bel posto, niente da dire. Mi fanno tutto. Mi lavano, mi vestono, mi servono in tavola. Tutto pulito, tutto organizzato. Ho una camera abbastanza luminosa, un po’ piccolina se vogliamo, ma mi permettono di tenere il mio televisore, la mia poltrona, qualche oggetto. Il telefono è della casa, di quelli nuovi coi bottoni. Ho un mio numero privato, posso chiamare e ricevere quanto voglio. La bolletta la pago a parte, il resto è tutto compreso nella retta, anche la lavanderia. Ma aspetta, non ti ho nemmeno chiesto come stai.
– Io signora sto benissimo ma starei ancora meglio se mi lasciasse parlare e mi ascol…
– Perciò puoi chiamarmi quando vuoi, meglio ancora se vieni a trovarmi ogni tanto. Magari avvisami prima perché non vorrei essere in giro; sai qui ci portano fuori in passeggiata, c’è un grande giardino con le panchine all’ombra, anche un laghetto con i pesci rossi. Tanti di quei fiori, vedessi! Io ormai i miei non riuscivo più a seguirli, i gerani li ho dati tutti alla portinaia prima di venir via.
– Adesso metto giù.
– L’unica cosa che non mi piace di questo giardino è che è pieno di vecchi in carrozzina. Io almeno cammino ancora con le mie gambe. Con il bastone, si intende, e a passi molto prudenti. Però sto benissimo in piedi da sola. Quei vecchi mi fanno una tristezza che non ti dico. Io sarei rimasta a casa mia ancora un po’, ma mio figlio era preoccupato perché a volte mi dimentico le cose, il gas acceso, la porta aperta, sai queste piccole sbadataggini. A te non succede?
– A me succede che ho il gas acceso e la besciamella si è già bruciata, almeno quella che non è traboccata.
– Vedi? Succede a tutti. Noi poi che abbiamo una certa età. A proposito, come va il tuo ginocchio? Io ho avuto la sciatica tutto l’inverno. Un male, ma un male. Adesso qua dicono che potrei fare anche della ginnastica, loro hanno la palestra, il massaggiatore e così via. Però a te lo posso dire: sono extra che costano, e non me li posso permettere. Poi a cosa vuoi che serva la ginnastica alla mia età. Quando ero giovane andavo a ballare, ti ricordi? Venivi anche tu, ci si divertiva, i giovanotti ci corteggiavano… Eh, altri tempi, cara Andreina. Adesso c’è l’artrosi, c’è la cosa, l’ischemia, che vuoi farci.
– Continui pure, ho spento il gas.
– Un’altra cosa che mi dà un po’ fastidio è che le suore qua ci portano per forza a messa la domenica. Tu lo sai cosa penso io di queste cose. L’ultima volta che sono entrata in una chiesa è stato per sfuggire a un rastrellamento dei tedeschi nel quarantaquattro.
– Eh la miseria!
– Però cosa vuoi, queste suorine sono così carine, così convinte di fare del bene. E a me cosa costa accontentarle? Niente, mi costa, anche perché la domenica non è che qua ci siano tanti altri svaghi. Oh Dio, sì, c’è il teatrino, oppure un film o un po’ di musica, ma ti devo confessare che sto diventando un po’ sorda e non riesco a sentire tutto quello che dicono.
– Ah, è un po’ sorda! Ecco perché non mi ascolta.
– In compenso si mangia discretamente, e c’è anche una buona scelta. La sera però non si scappa: minestrina, sempre minestrina. Una malinconia, proprio. Per non parlare delle sigarette. Vietate. Si può fumare solo in giardino, ma anche in quel caso ti guardano male.
– Cazzo, l’idea di non poter fumare quando ne ho voglia mi fa venire i brividi. Lei come fa a resistere?
– C’è una signora qui, due stanze più in giù della mia, che all’inizio mi pareva una persona interessante. Fumatrice anche lei. Un paio di volte abbiamo chiacchierato un po’ in giardino, ma è un tantino sorda anche lei, e poi è in carrozzina. Si chiama Iole, è di buona famiglia, deve avere dei bei soldi. Io per fortuna ho la pensione, poi c’è la Regione che paga una quota della retta.
– Beh, è stata fortunata.
– Fai due conti e pensa se può convenire anche a te. Sarebbe bello che venissi qua anche tu, staremmo insieme e ci faremmo un sacco di compagnia. Sai che belle chiacchierate?
– Ci devo pensare. Non so se mi prenderebbero, dato che ho solo quantasei anni.
– A una certa età l’ho capito anche io che si ha diritto a un po’ di riposo, a farsi servire e riverire. Certo, non è come a casa propria, ma almeno non ci si deve preoccupare più di niente. E i figli stanno in pace anche loro. A proposito i tuoi come stanno? Saranno grandi ormai.
– Figli? Non ho mica figli, io.
– Lorenzo me lo ricordo, tanto carino, tanto studioso. Adesso sarà già alle medie. No, aspetta, Non si chiamava Lorenzo, e poi forse era tuo nipote. Eh sì per forza! Ah la mia memoria!
– Non lo dica a me…
– Salutamelo tanto, sai. Adesso però ti devo lasciare perché fra poco mi vengono a prendere per farmi il bagno. Bagno completo una volta la settimana. Mi tagliano anche le unghie, pensa. Mi viene comodissimo perché non ci vedo mica tanto bene, sai.
– Va bene, riferirò a Lorenzo. Sarà molto contento.
– Un’altra cosa. Se decidi di venire a trovarmi, guarda che domani ho intenzione di andare dalla parrucchiera con la Iole. Abbiamo anche la parrucchiera, sai? Al piano terra. Anche il barbiere. Anche un bel bar e il giornalaio. Oggi il bagno e domani la messa in piega, così se vieni mi trovi in ordine.
– Già, la parrucchiera… devo andarci anche io, devo decidermi. È che non ho mai tempo.
– Allora ti saluto. Grazie per la chiacchierata, mi ha fatto bene. Qui il tempo non passa mai. Ti aspetto, eh?
– Sì, magari un giorno di questi. Buona giornata, Olga, e stammi bene.
– Buona giornata anche a te, carissima.
– E, Olga?
– Dimmi, Andreina.
– Anche a me ha fatto bene parlare con te. Chiamami pure ogni volta che vuoi. Mi trovi sempre.

Donne in quarta

Su, fate i bravi, non siate banali, trattenevi dall’alludere, ammiccando, alla storiella delle volpe e dell’uva; lasciatemi dire, piuttosto, cosa penso della pubblicità mendace. E mi riferisco a quella perpetrata da certe scrittrici (gli uomini li prenderò casomai in considerazione in seguito) che invadono la quarta di copertina con affascinanti ritratti di sé medesime volti ad accreditare presso il pubblico dei lettori una propria immagine sublimata. Io, di costoro, diffido.
Per raggiungere l’effetto più incisivo, la scrittrice si affiderà al suo agente, generalmente un bel marpione. Costui le suggerirà tutti i dettagli cui attenersi, dal maquillage all’abbigliamento, dall’espressione del viso alla posizione delle mani, e curerà con altrettanta minuzia la scelta dello sfondo.
Per esempio, la scrittrice italiana nasce avvantaggiata. Per cominciare, potrà/dovrà avvalersi di uno pseudonimo affascinante corredato da due o anche tre cognomi dal sapore vagamente rinascimentale, o al minimo umbertiano. Si farà ritrarre in abiti  esclusivi ma sobri, niente gioielli o al più un anello, importante, che confonda le idee sul suo stato civile, e alle spalle potrà scegliere il panorama più consono alla sua cifra stilistica. Se il suo genere è la narrativa d’atmosfera, si farà trovare su una terrazza colma di piante verdi e affacciata sui tetti di Roma, seduta a un tavolino davanti a una tradizionale macchina per scrivere e a una pila di libri visibilmente vissuti. Se i suoi romanzi contengono un certo tasso erotico e le sue eroine sono donne decise e spietate, riceverà il fotografo in un luminoso appartamento milanese tutto cromo e cristalli; in questo caso è concesso un paio di orecchini sadomaso, e eventualmente l’ostentazione delle gambe inguainate in seta fumé. Nell’angolo del divano, è raccomandata la presenza, casuale, di una copia del Sole 24 Ore. La mistica che canta l’amore impossibile oppure il fantasy crepuscolare sarà sorpresa dall’obiettivo nella nicchia di una finestra affacciata su una valletta umbra o toscana, e porterà una gonnellona a fiori e una sciarpa a frange oppure un amuleto esoterico. L’ora migliore, il tramonto autunnale. Si alluderà, discretamente, alla vicinanza con una antica abbazia diroccata e forse infestata da fantasmi medievali.
La scrittrice francese esibirà un boudoir sulla rive Gauche stipato di abat-jour con le perline e di bomboniere d’argento; la sua postazione di lavoro sarà un prezioso tavolino antico spiritosamente sdrammatizzato da un femminile disordine di carte e posacenere fra i quali è opportuno venga installato un gatto placido dal pelo folto (un angora o un persiano vanno benissimo, si possono noleggiare facilmente in un buon negozio di animali). Indispensabile che da un angolo della finestra in fondo si intuisca lo svettare della torre Eiffel. O in alternativa che i cieli siano bigi e vi si veda fumare, dai mille comignoli,  Parigi. Quella che invece giocasse il personaggio schivo, si sarà ritirata in una dimora di campagna in Provenza e si presenterà in una linda cucina aperta su un giardino dove pascolano candide oche e prospera la lavanda. Farà la sua bella figura anche un cesto rustico di mele posato casualmente su una sedia impagliata.
Anche la scrittrice inglese punterà molto sulla natura, prediligendo la vecchia villa georgiana e il prato impeccabile. Ma si renderà ancora più plausibile fra le pareti foderate di libri del suo studiolo, in cui non mancheranno per alcun motivo un caminetto, un levriero e una collezione di teiere. Se è in età, imiterà l’acconciatura della Regina e avrà una stola di cachemire a cingerle morbidamente le spalle. Il tweed invece è da scartare perché ormai fuori moda.
Di scrittrici americane esistono varie tipologie. Quella di successo che descrive ambienti e vicende altolocate da soap-opera gronderà gioielli vistosi e un look da red carpet; la più avanzata versione di Photoshop le garantirà un incarnato radioso e levigato da eterna Barbie anche in età ampiamente postmenopausale. Il salone hollywoodiano alle sue spalle sarà arredato con mobili antichi, leziosi, pacchiani, sovraccarichi di fiori e portafotografie. L’intellettuale tormentata avrà trovato pace e ispirazione nei quieti boschi del Connecticut o sulla costa del Maine; d’obbligo un maglione sformato, un paio di sneakers e un’espressione pensierosa con lo sguardo rivolto all’oceano livido e inquieto in fondo a un molo di legno, fra gabbiani, ventaccio e nuvole basse. La nuova stella del firmamento postmoderno invece brillerà in un attico lievemente e volutamente malconcio al Village, con arredi improbabili, stravaganti e multicolori e gaiamente ornato di megaposter di rockstars. Sono ammessi bicchieri sporchi per terra accanto al futon, ma si dovrà intuire che hanno contenuto solo perrier o gatorade. Tira molto anche lo sfondo di un allegro ranch con cani, puledrini e tanti figli, almeno cinque, metà dei quali evidentemente adottati; questa location si presta particolarmente alla scrittrice leggera, brillante e politicamente corretta.

Tutte le ambientazioni summenzionate, soprammobili compresi, possono essere affittate tramite apposite lussuose agenzie per il pomeriggio necessario alla mise en scène, oppure riprodotte secondo modelli standard in un teatro di posa di proprietà della casa editrice. Per la tariffa, trattativa riservata, ma ci pensa il marpione (l’agente).
In tutti i casi, nessuno escluso, nelle quattro righe di didascalia al ritratto il soggetto riuscirà a comunicare al pubblico un unico e univoco messaggio, valido a tutte le latitudini: che non si capacita del successo, che non è minimamente interessata al denaro, che la scrittura l’ha aiutata a crescere, che alle serate mondane preferisce la quiete di casa sua e che deve tutto alla sua meravigliosa famiglia che l’ha sempre sostenuta con amore e pazienza.
Fa niente se detto soggetto è fisicamente una cozza, anagraficamente una zitellona e culturalmente un’impedita. Fa niente se detesta i bambini e gli animali e invece adora sbronzarsi e giocare a bridge. Dove non arriva Photoshop, il marpione arriverà a scritturare una controfigura.

Cosa di cui mai sentirà il bisogno una come Margherita Hack, Dio la benedica per l’onestà e lo spirito.
Ecco, di lei sì che mi fido.

L’età dell’argento

Da un quadro una storia:
Henri Matisse – Mme Matisse, 1913

Grazie, sì, adesso sto bene. Mi sono rimessa abbastanza, da qualche giorno ho anche ripreso a uscire, adesso poi con questo sole tiepido, queste prime giornate di primavera… Ho preso l’abitudine di mettermi qui, a questo tavolino tranquillo nel parco. Mi faccio servire un tè, mi leggo un libro, mi guardo intorno, respiro. Insomma sto meglio, anche internamente. Come serenità, intendo.
È stato un inverno un po’ così, difficilino; sa, quella tosse che non passava mai. In famiglia poi abbiamo sempre avuto tutti i polmoni un po’ delicati: il povero papà è morto giovane in un sanatorio svizzero, lei capisce dunque. La mia comunque è stata solo una brutta bronchite. Vede? mi porto sempre dietro una sciarpina, per prudenza.
Sì, sono stata dieci giorni in ospedale, più che altro per precauzione. Il cuore non c’entrava, per fortuna quello è a posto. Dice però il mio dottore che mangio troppo poco, così mi fa fare delle curette a casa. Le iniezioni viene a farmele la sua infermiera in persona, una carissima signora con la mano d’oro. Poi ho tante amiche, ci sentiamo, vengono a trovarmi, oppure vado io da loro. Mia sorella è venuta a stare con me qualche giorno, appena uscita dall’ospedale, e ci siamo fatte molta compagnia. Come quando eravamo ragazzine, abbiamo passato pomeriggi leggendo libri ad alta voce.
Mio figlio insiste che mi trasferisca da lui, in campagna. Hanno una casa grande con tanto verde intorno, un posto tranquillissimo. Dice che l’aria di città mi fa male, con tutto questo smog, questa umidità. Non che gli dia torto, sa. Però cosa vuol mai, non è che abbia tutta questa voglia di cambiare. Alla mia età, poi. Ottanta, carissima, ottanta. Lei lo farebbe? Sia sincera: lascerebbe la casa dove ha vissuto quasi una vita?
Lo smog, capisco; però qui ho tutto, tutto quello che mi serve, tutte le cose che amo. Le mie abitudini, le mie comodità. Il dottore, le dicevo, che mi conosce da tanti anni; le amiche; un appartamento grande con un bel terrazzo pieno di piante, tutti i miei libri, i miei quadri, i miei armadi pieni di cose, il mio studiolo così confortevole col pianoforte e la collezione di fermacarte di cristallo. La mia libertà, capisce. La mia intimità. Sono doni che cercherò di difendere più a lungo possibile, proprio per cercare in questo modo di fermare la vecchiaia.
Sola no, non mi sento sola. Non mi sento affatto sola, e non lo sono realmente. Mi sentirei più isolata in una villa di campagna, dopo aver vissuto tanti anni in un palazzo di città.
Quando era vivo mio marito, abbiamo viaggiato molto. Sono stata in alberghi di lusso nelle più grandi capitali del mondo, ho visitato musei e castelli, però sa, ogni volta che tornavamo a casa era un bel momento. Ritrovare gli odori e i rumori di casa propria dopo un viaggio, beh è impagabile.
Non so, tutt’al più potrei pensare di svernare in Riviera l’anno prossimo. Ma è presto per pensarci, non crede? Per adesso mi godo questo inizio di primavera in città. Mi sento proprio benino. Aspetto le rondini, questione di giorni.

Se una sera d’inverno il premio Nobel…

Così comincia la breve relazione che leggerò il 3 febbraio davanti al pubblico di lettori e amici della biblioteca, in una serata di cultura e intrattenimento in cui cercheremo di riscrivere il premio Nobel per la letteratura a modo nostro. Ci sarà chi presenterà la candidatura di Sandor Marai, chi quella di Philip Roth, di Marguerite Yourcenar e di Anita Nair. Io presento David Foster Wallace, per il quale ho un debito di gratitudine per avermi prima scossa, poi innamorata e deliziata con il suo mondo così allucinato eppure così umano. E siccome ognuno di noi ha a disposizione solo 14 minuti e l’impresa di condensare è ardua, sono previste altrettante serate monotematiche di approfondimento nei prossimi mesi; un impegno al quale  mi sto già preparando con rispetto e con amore.

Se mai l’austera Accademia di Svezia gli avesse assegnato il Nobel per la letteratura, mi piace immaginare che David Foster Wallace si sarebbe presentato a ritirare il premio nella sua tenuta abituale – capelli raccolti in un codino, bandana sulla fronte, guance non rasate, felpa con il logo dell’università, scarpe da ginnastica – e accompagnato dai suoi due cani, che adorava al punto da affermare di aver bisogno di averli tra i piedi quando scriveva.
Mi piace immaginare che, dopo la cerimonia, si sarebbe concesso – per rilassarsi – una masticatina di tabacco che poi avrebbe sputato nella vecchia tazza da caffè che si portava spesso dietro; un vizio che lo faceva sentire in colpa e dal quale si era quasi del tutto svezzato, ma l’occasione eccezionale avrebbe giustificato uno strappo alla regola.
Mi piace immaginare che avrebbe devoluto l’assegno del premio a una di quelle strutture che si occupano del recupero di soggetti con dipendenza da alcol, farmaci o sostanze stupefacenti, come quelle descritte con straziante precisione in quel capolavoro che è il suo Infinite jest.
Mi piace immaginare che il prestigioso e compitissimo parterre non si sarebbe scandalizzato per il suo aspetto trasandato, non lo avrebbe censurato come un eccentrico, irriverente anticonformista, ma avrebbe visto in lui l’espressione di un’anima trasparente e leale al punto da apparire quasi indifesa, e comunque assolutamente libera e autentica.
Mi piace immaginare.
Ma la realtà è che David Foster Wallace non riceverà più alcun premio se non alla memoria, perché si è tolto la vita nel 2008 a soli quarantasei anni, impiccandosi nella sua casa in California. Un atto estremo che familiari e amici da anni paventavano, perché quanti lo conoscevano bene conoscevano anche il tormento che devastava questo ragazzone prestante, sportivo, brillante e scanzonato, e ormai giunto alla notorietà internazionale e al successo di pubblico come scrittore: la depressione. Una depressione evidentemente endogena, una malattia bastarda che lo accompagnava fin dall’adolescenza e che gli aveva fatto conoscere i reparti psichiatrici e la schiavitù degli psicofarmaci. Negli ultimi anni, l’assuefazione ai farmaci antidepressivi e il fallimento di ogni ulteriore tentativo terapeutico aveva fatto di lui un depresso incurabile. E la sua scelta così drastica fra la vita (o meglio la non-vita, perché tale è la vita di un depresso a quello stadio) e la morte è un suicidio annunciato, forse già previsto in questo brano tratto da Infinite jest, il suo romanzo-fiume e il più acclamato, uscito nel 1996, in cui viene descritta la depressione con toni asciutti ma tragicamente rispondenti a verità:

La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette “per sfiducia” o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli in strada che guardano in su e urlano “No!” e “Aspetta!” riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta.

Priscilla Hoffercourt-Bohle, nata Rotterwald

Nella casa-museo di Priscilla Hoffercourt-Bohle, nata Rotterwald, a Neuilly, vi è una amenissima sala da musica, le cui due ampie finestre ai lati del camino affacciano su quell’ala particolarmente ombrosa e segreta del giardino in cui sorge, su una piccola e verde altura artificiale, la riproduzione di un tempietto neo-ellenistico a pianta deliziosamente circolare e – ça va sans dire – circondato da un fossatello dove ninfee, cigni e sciami stagionali di effemeridi convenientemente allignano.
In detta sala (ombreggiata in mauve e contrassegnata dal numero 8 nella piantina del dépliant), sono raccolte numerosissime le testimonianze della passione della dama Priscilla per la musica (e i musicisti), che la portò a frequentare con instancabile piacere i ridotti dei maggiori teatri di Francia, Italia, Austria e perfino Argentina e Singapore. Fra i ritratti fotografici degli artisti – la massima parte in abiti di scena – figura più volte quello particolarmente adorno del mezzosoprano Odile Tallion, con la quale la H.B. intrattenne una scandalosa e notoria relazione negli anni delle rispettive menopause.
Nell’angolo sud-est, è stato ricollocato, in tempi recenti e a cura di alcuni premurosi eredi, lo Steinway intorno al quale amici, amanti e amatori si raccoglievano all’ascolto e alla conversazione nel corso degli ispirati pomeriggi musicali tenuti dalla baronessa Hoffercourt-Bohle, nata Rotterwald, in particolare nelle settimane quaresimali del decennio 1909-1920, e cioè prima che un imprevisto dissesto finanziario imponesse l’alienazione del pianoforte e con esso di altri oggetti e arredi della casa, che al contrario di esso non furono più riscattati. È a quel periodo, oscuro ma passeggero, che risale la presenza del grammofono a tromba e del tavolino di bambù laccato in testa di moro che lo sostiene: dozzinali nella fattura, entrambi furono dono di un anonimo inelegante, ma ricco e pratico, ammiratore personale della baronessa, il quale nel biglietto di accompagnamento si definiva “un viaggiatore irriducibile e un devoto alla Bellezza”.
Degne di menzione le quattro seggioline Luigi Filippo, scompagnate e superstiti di un totale di diciassette, i due sofà simmetrici a sorprendenti fiorami cinesi blu e oro e la coppa di opale a striature sanguigne che, al centro della mensola del camino, contiene alcuni pezzi unici di una collezione di bigiotteria di lusso appositamente disegnata e realizzata dalla manifattura Bondi&Castle su ordinazione del barone Hoffercourt-Bohle all’indomani della clamorosa fuga di lei – per motivi mai dichiarati – durante il viaggio di nozze a Buenos Aires, e recapitata a tempo di record come dono d’addio e costosa lapide a quel brevissimo matrimonio.
Ma l’interesse principale di questa sala da musica, come sanno i visitatori meno sprovveduti, risiede nella presenza, sulla parete di faccia alla porta, sopra il corrucciato camino e fra le due finestre prospicienti il malinconico boschetto, di due dipinti a olio raffiguranti il Professor Xavier Rotterwald, illustre psichiatra e criminologo nonché Decano dell’Hôtel Dieu, e la sua intrigante sposa Lavinia Bergeron, ritratti in occasione del decennale delle nozze dal Maestro marsigliese Marcel Filippi e che, nelle intenzioni, avrebbero dovuto coronare la storica galleria di famiglia esposta lungo lo scalone e il corridoio del primo piano.
La storia di quei dipinti è risaputa: si trattava in origine di una tela unica, di notevoli dimensioni, sulla quale i due coniugi, di profilo e uno di fronte all’altra, erano fissati nell’atto di porgersi le mani in un gesto di reciproco omaggio e promessa di fedeltà. Tuttavia, proprio nei mesi successivi al completamento dell’opera avvenne la tragedia che tanto brutalmente segnò la vita dell’unicogenita Priscilla, allorché la madre gettò lo scandalo sulla famiglia fuggendo con un giovane e inaffidabile assistente del marito, di estrazione vandeana e plebea. La società benpensante non ne fu particolarmente sorpresa, poiché il vergognoso episodio non faceva che confermare la già espressa e unanime disapprovazione per quell’azzardata unione fra un esponente del mondo della cultura e la fin troppo bella figlia di una portinaia di rue Mouffetard, le cui origini maldestramente si era cercato di camuffare ai tempi del fidanzamento e dell’affrettato matrimonio riparatore. Il Professore, colpito due volte nell’orgoglio e – si disse – una volta ma più che sufficiente anche nelle finanze, ne fu sopraffatto al punto che pose fine ai suoi giorni con un colpo di pistola alla testa sul bordo del letto della sua camera privata al secondo piano (non ombreggiata né numerata nella piantina del dépliant, in quanto non aperta al pubblico) lasciando la figlia sola, libera e comunque soddisfacentemente ricca. Di lei allora quindicenne si presero temporaneamente  cura due zie, le eccentriche gemelle Rotterwald, che la condussero in viaggio in Nord Africa e in Asia Minore per oltre un anno, e al ritorno aprirono un salotto letterario nella loro casa di rue du Temple adorna di scadenti souvenirs.
Priscilla, animo indipendente, da quel momento prese in mano le redini della propria vita, e iniziò la disordinata frequentazione degli ambienti più pittoreschi della Parigi di allora, spendendo dapprima gli anni della sua avvenenza presso taverne e atelier di pittori spiantati (tra i quali l’efebico Bonhiver e l’allucinato Radzinski al cui successo provvide generosamente) e più avanti quelli della maturità in un andirivieni tra camerini di teatro e sale da gioco, dove alternativamente aumentò d’emblé le sue fortune ma anche incontrò fulminei tracolli di milioni di vecchi franchi. A copertura di uno di tali imbarazzanti incidenti, accettò la proposta di matrimonio del lussemburghese baffuto barone Hoffercourt-Bohle, che tuttavia non seppe renderla felice e fu liquidato spietatamente in tempi brevi, come più sopra ricordato. È a quest’ultimo traumatizzante avvenimento che viene fatta risalire la repentina decisione di tagliare in due il dipinto dei genitori, che Priscilla (come si intuisce da farneticanti e frammentarie confessioni riportate nel suo diario) ormai vedeva come i primi artefici del suo stesso squilibrio e cui non sapeva perdonare l’espressione di perpetuo amore con la quale parevano, da lassù, fissarsi negli occhi. In seguito raccontò con un certo orgoglio di avere provveduto alla bisogna con le proprie mani, armate di cesoie da giardino, e di avere lo stesso giorno commissionato due nuove cornici a un ebanista di rue de la Reine, il quale appese i due mezzi oli sulla stessa parete di prima, uno accanto all’altro ma in ordine inverso, talché i due deplorati personaggi si volgessero per sempre la schiena e indicassero così, per il resto del tempo a venire, l’ineluttabilità del loro addio. 

Al termine della visita a questa suggestiva dimora, in cui tutto ancora parla della vita ardente e disordinata di una straordinaria protagonista della Belle Époque, ci sentiamo di indicare ai visitatori più smaliziati un ambiente altrettanto affascinante ed esclusivo nelle vicinanze, dove gustare splendide huîtres dell’atlantico e pâtisserie maison: La Coupole dorée, 213 rue Monjuif, M.° Sablons. Réservation conseillée. À partir de 40 euros.

Le donne

Sargent_uscita di chiesa

Le donne ficcano le tazzine della colazione nella lavastoviglie, si tirano una riga di rimmel sugli occhi attenti, si specchiano il rossetto nel retrovisore, rovistano un cellulare in borsa e mandano sms ai semafori.
Aprono porte con sorrisi seri e gambe decise, accavallano collant nerofumo sotto le scrivanie, appoggiano piccoli stretti occhiali in fondo al naso, giocano con le dita e i braccialetti.
Portano a casa sacchetti di lattine e insalata, stappano le bottiglie con cautela poi fanno scorrere molta acqua fredda sulle mani e ci mettono su un cerotto.
Raddrizzano i quadri e gli angoli del copriletto, e intanto gli si smaglia una calza e camminano a piedi nudi.
Accarezzano irresistibili oggetti di poco conto e fiori quasi aperti, ma con la punta delle dita come sanno fare loro.
Si riscaldano con una tazza in mano appoggiate al termosifone e aspettano pensando vago.
Con le amiche si raccontano bugie molto belle da inventare e da ascoltare, storie di uomini che le hanno lasciate e di molti altri venuti dopo. Si baciano con le guance, si tengono sotto braccio se piove, si aspettano davanti alle vetrine, poi non sempre entrano.
Con i bambini stanno attente, vorrebbero toccarli e prenderli in braccio, ma le madri non sono d’accordo perché poi piangono.
Comprano giornali da buttare sul sedile posteriore e più avanti nel cestino, sospirando di noia, ed esosi gioielli falsi agli ambulanti perché hanno un senso materno da esprimere, e come sovrapprezzo un sorriso di amicizia.
Inciampano in tacchi da sera con bocche splendenti per far contento chi le guarda, che si ricordi di loro per un attimo, anche se molto in là nel tempo.
Mentono innocenti o sviano le parole, ansiose di non far troppo male se non vengono comprese.
Ingoiano di nascosto pasticche per dormire o per dimagrire, vergognandosi un po’ di essere fatte così, diverse da quegli uomini che le vorrebbero diverse.
A quelli, agli uomini che attraversano le loro strade piene di sole e di voglie aggrovigliate, promettono di mantenere promesse non loro, e ci mettono il cuore; poi cade una stella e gli scivola di mano un piatto da asciugare e raccolgono cocci dimenticando di desiderare.

Gli uomini guardano come camminano e non sanno dove vanno. O gli contano gli anni negli occhi e poi si chiedono se c’è tempo. Oppure non vedono niente e si infilano in un bar a bere qualcosa da soli.

Eugenia, o il tè’

Prenderò volentieri, cara Eugenia,
una tazza di tè
dal tuo servizio a rose lievi,
trasparenti
Un tè gentile, al tiglio, alla verbena,
un tè latte e limone
e due praline, ma non più di due
(sai la mia età)
una di queste con i ghirigori
di marzapane
e l’altra, se permetti,
fondente alla violetta,
persistente al palato come un buon ricordo.
Da Vienna, vedo, ti hanno scritto
le signorine Hoffman, tue cugine
per parte di tua madre
(che pianista, ai tempi in cui tua nonna
andava a corte, si racconta;
tu fosti più modesta, suonavi dalle suore
un po’ di armonium che stonava,
e non ne avevi colpa)
Un quadrifoglio ti han mandato,
delizioso pensiero,
raccolto nel giardino del presbiterio.
La tovaglia a crochet procede bene,
a trafori e ghirlande,
pronta – suppongo – per Natale
se non ti impicceranno quei lavori
che fai per gli altri,
gli orli ed i rammendi,
colletti nuovi per camicie vecchie,
pagati poco da clienti usurai.
La pendola resiste, non hai cuore
– e fai bene –
di darla via come quei pochi argenti,
me li ricordo sai,
che facevano bello il tuo salotto
prima della guerra,
e i Limoges e i tappeti,
i paralumi a gocce di Boemia,
le volpi, le velette,
le perle in doppio giro,
e gli orecchini di corallo.
Ti resta ancora, e me ne consolo,
il sofà a fiori e frange
il poggiapiedi di velluto verde
il carillon veneziano
e la radio in cucina, là sulla credenza
forse vuota, o con poco.
Io giusto ieri ho venduto
l’ultimo quadro, quello con il faro
ed il naufragio.
Naufrago anch’io, che credi?
Ma sorrido
di questo tè gentile e profumato,
delle tue rughe e delle mie,
dell’artrite alle mani che ci fa sorelle,
delle scarpe da risuolare,
se possibile,
ora che piove spesso.
Io? Niente di speciale.
Sono stata
alla biblioteca,
poi da te per sollevarmi un poco
prima di ritornare,
ché la sera
il custode tarda sempre
a portarmi di sopra la legna per il fuoco.
Se scrivi a Vienna, manda i miei saluti.

In memoria

È MORTO
PIER MARIA PASINETTI
VENEZIANO, SCRITTORE E MIO MAESTRO

Poco più di un anno fa ho avuto la fortuna di conoscerlo di persona: un desiderio che coltivavo da decenni, da quando ho scoperto i suoi romanzi così straordinari e così veneziani, ai tempi del ginnasio.
E poco fa il telegiornale regionale ha annunciato la sua morte, alla venerabile età di 93 anni.
Stasera sono triste per lui, che mi mancherà. Così gli dedico questa pagina del mio blog ripostando la cronaca di quell’unico incontro, del quale manterrò il più affettuoso e riconoscente dei ricordi.
Se qualcuno desidera conoscere meglio questo Autore eccellente ma schivo e per nulla presenzialista, sul mio sito, nella sezione libri letti, troverà alcune recensioni che lo riguardano.

14 giugno 2005, Venezia, Aula Magna dell’Ateneo Veneto: alle ore 18, presentazione dell’ultimo romanzo di Pier Maria Pasinetti, “A proposito di Astolfo”, edito da Helvetia e nelle librerie in questi giorni.

Il portone monumentale dell’Ateneo Veneto è scrostato e sprangato, sembrerebbe da secoli. Un caffè lì vicino ha accampato davanti due file di tavolini e sedie impagliate, oggi deserti perché pioviggina. L’ingresso, allora, è in calle; giro l’angolo, abbandono la luminosità plumbea di campo san Fantin e percorro alcuni metri in una luce bassa, da corridoio di teatro. La porticina a vetri è stretta e anonima, illuminata dall’interno da luci altrettanto basse e discrete, come quando vengono calate per segnalare l’inizio di uno spettacolo. Spazio angusto, quasi domestico; sembra l’ingresso di una casa veneziana, con una scala lunga e stretta che sale ripida verso un pianerottolo, poi gira e si perde. Ma subito a destra un’altra porta, più ampia e spalancata: la sala dell’Aula Magna, col rosso delle poltroncine (semplici sedie severamente allineate) e gli affreschi sulle alte pareti attorno ai finestroni opachi. Soffitto a cassettoni altrettanto affrescato, inserti di marmo in giro, senso di una solennità equilibrata, non invadente. Bellezza, insomma, ma non autoreferenziale, in una città in cui la bellezza è tratto di natura e non tronfia ricerca.
Non c’è ancora nessuno. Mi sembra di essere entrata in una chiesa prima di un rito. Al posto del sacrestano, Daniela si aggira festosa ma in ritardo con locandine e dépliants da distribuire; un abbraccio – siamo emozionate entrambe – e poi le do una mano come si trattasse di imbandire una festa scolastica. Arriva il libraio con una sacca delle copie del nuovo libro che tra poco verrà celebrato; lo conosco, il libraio, titolare della più veneziana delle librerie veneziane, antro stretto e vivissimo dove i volumi sono ammucchiati dappertutto, ospiti o protagonisti – amici, meglio – e non merce senza nome né calore.
Arrivano altri, ora più rapidamente e a gruppi. L’atmosfera aumenta di tono e temperatura, persone che si conoscono oppure si riconoscono solo per il fatto di essere comunque in questo posto significativo, simbolo della storia e della cultura veneziana e non solo da qualcosa come duecento anni. Per lo più donne e non giovani, espressione di quello che più tardi qualcuno, sulla pedana, annuncerà come “l’harem di Pasinetti”: scopro anche io che è sul pubblico femminile che hanno avuto da sempre più presa le storie e lo stile di questo Autore, che in effetti a molte splendide figure femminili ha dedicato ritratti leggeri, ironici e innamorati in ognuno dei suoi romanzi. Giovani, pochissimi. Non frequentano questo genere di incontri oppure non frequentano questo genere di letteratura, il romanzo, che in Italia oggi come oggi è del resto così scarsamente e mediocremente interpretato. Oppure ancora non conoscono Pasinetti, scrittore di razza ma da sempre indifferente alla pubblicità, osservatore distratto e incidentale della sua stessa fama, araba fenice nel mondo letterario della sua patria, dalla quale ha vissuto lontano la maggior parte dell’anno nella maggior parte degli ultimi 40 o 50 anni.
C’è un minimo di ritardo. Annunciano che il Maestro è arrivato in Ateneo e ora sta riposando qualche minuto prima di presentarsi. Corrono i sussurri, le confidenze, le informazioni locali: ultranovantenne, da tempo malandato in salute, il femore in tempi recenti, stato più di là che di qua, ma lucido sapesse: lu-ci-dis-si-mo. E scrive ancora, le sue memorie adesso; c’è già un titolo (un titolo di coda) che a pelle intuisco come la struggente anteprima del suo addio, “Fatepartire le immagini”. Io intanto con la mia macchinina digitale faccio alcune prove, neanche a dirlo fallimentari.
Poi entra. Entra in scena da una porticina laterale, sorretto da persone amorose e compiaciute, mettendo avanti prima delle gambe impacciate un curioso bastone verde chiaro, cui si appoggia con curiosità lui stesso, quasi a non riconoscergli altra identità che quella di un giocattolo di gusto improbabile che qualcuno ha insistito per giudicare confacente alla sua inferma età. È alto e diritto malgrado ciò, conserva il portamento del bell’uomo che è stato e che ci restituiscono le rare fotografie pubbliche. Indossa una camicia aperta e un cardigan di lana grigio scuro: indossa cioè il suo ruolo di vecchio e familiare pensionato veneziano, e insieme l’aria domestica di un padre o di un nonno strappato per un’ora alla sua sedia di cucina, alla radio accesa, al giornale spiegato sul tavolo con accanto una scatolina di mentine, o pasticche per il cuore. Nel sedersi con teatrale sollievo sulla poltroncina centrale, emette un sospiro teatrale anch’esso nella sua autoironia: “Semo qua!”, cioè siamo qua, finalmente; seduti comodi dopo la stancata, la camminata, questa fatica di arrivare fino a noi che è una delle quotidiane sue fatiche necessarie, in una città dove si invecchia a piedi arrancando senza misericordia, se non si vuole restare fermi del tutto dietro una finestra.
Dalla mia sedia subito sotto la pedana, piccola io e insaccato lui in una poltrona fonda, e per di più con un microfono davanti, vedo e guardo e non me ne stacco fino alla fine solo il suo viso, vagamente sconcertato mentre ascolta dubbioso i colti panegirici dei suoi due ospiti. Sembra colto di sorpresa e poco convinto che le loro ordinate analisi riguardino lui; sembra chiedersi se non stiano esagerando per quella pelosa cortesia che si deve ai vecchi, per di più malandati. Infatti, invitato, commenta: “Beh, ciò, se è tutto vero allora vuol dire che son proprio bravo!”. La platea si estasia e lo adora.
Altre cose, dice, poche e un po’ slegate, col tono di smitizzare, di prendere le distanze dalla celebrazione, di indicare la strada sensata e più congeniale dell’ironia, del ridimensionamento affettuoso. A chi cerca di attribuirgli metafore e di ottenere da lui spiegazioni, chiavi, messaggi, non dà molta corda, avvertendo – ma come dovesse essere evidente a tutti – che le sue storie, nomi/cognomi/località/amori & lutti compresi, sono inventate, tutte inventate. Dal suo sornione incanto si scuote un attimo per intervenire su una parola che non gli è sfuggita e che trova fuori luogo: il termine laico, cui – citando se stesso – assegna il valore di parola-zero. Sul tema della morale e del trascendente, che qualcuno invoca con un certo azzardo, ha un monito saldissimo da affermare, e ce lo trasmette con un improvviso destarsi del tono di voce, che ora è serissimo e fermo davanti a questa semplice immensa verità: “Bisogna sempre agire in modo da rendersi minimamente presentabili a se stessi”. Rifiuta il confronto col soprannaturale, la morale di Pasinetti, e ribadisce la centralità della coscienza, del qui, dell’oggi. La platea incamera, riflette, tende a condividere. Io, nel mio piccolo, mi alzerei in piedi, ma non mi vedrebbe nessuno. Neanche lui che all’inizio ci ha informati esilarato di avere con sé solo gli occhiali per vicino.
I discorsi, applauditi, si esauriscono, le domande dalla sala ottengono risposte ormai per lo più umoristiche ed evasive: il Vecchio non ci sta, ai confronti animati e dottorali, persiste nella sua tattica naturale, quella di ridurre il rito alle dimensioni di un incontro familiare, ai toni semplici e pacati che in fondo spiegano meglio e di più.
Prima del commiato, gli si fanno attorno molti con l’offerta di auguri e la richiesta di dediche. Ho la mia copia in mano e sento il viso che mi si scalda, che brilla credo, mentre lo avvicino anche io. Senza sgomitare, trovo un pertugio: lo trovo perché si è girato e ha incontrato i miei occhi, facendomi un cenno. Mi faccio avanti, lo saluto “Maestro”, vorrei dirgli che lo amo, ma lui lo sa, perché mi prende una mano fra le sue e mi guarda fisso e mi comunica che noi due ci conosciamo. Non è vero, ma ci credo. Mi chiede il mio nome, e mi conferma che ci conosciamo, anzi mi esorta a cercare con lui nel passato l’anello di congiunzione. Mi soggioga. Sto al gioco: elenchiamo incerti ma speranzosi alcuni omonimi, collocandoli nel tempo, nello spazio, nelle parentele, nelle professioni. Risaliamo – ma per me è un viaggio ormai sublunare – a certe conoscenze veneziane di suo padre, remotamente medico in questa città, e questa pare la chiave che chiarisce e conforta entrambi. Non è vero, ma ci credo. Ora qualcuno dietro preme e sbuffa, ma la mia mano è sempre tra le sue in quel modo così naturale e riposato che sembra fare di me una sua parente di sangue, vissuta lontana per tanto tempo e ora tornata, come lui del resto, alla base, alle mura domestiche, al posto giusto. Sono io che devo accomiatarmi, dopo aver raccolto il libro dove ora c’è per sempre una frase di affetto e augurio e la sua firma che per la malfermità della mano – mi spiega – da tempo usa abbreviare. Sguscio via, altri se lo inghiottono, non mi giro neanche più, saluto rapidamente qualcuno ed esco in calle, ancora non è notte, stringendomi dentro già una nostalgia.
Avrei voluto aspettare che se ne andassero tutti, poi porgergli il suo buffo bastone verde e sorreggerlo per un gomito – lui così più alto di me – mentre lo accompagnavo adagio verso casa, alla sua sedia di cucina, alla sua tazza di caffè d’orzo, alle pastiglie per la gamba, per il cuore, per i ricordi. In mezzo a un campiello, lo so, si sarebbe fermato per declamare come al teatrino dei preti qualcosa del Macbeth, ma in inglese, così non lo avrei capito ma ugualmente me lo sarei bevuto di gusto.
Invece avevo un treno in attesa, un interregionale delle venti e qualcosa, semivuoto. Quando è partito imboccando il ponte sulla laguna per approdare in terraferma, ero già a pagina 36.


Questa è la sua scheda biografica:

P.M. Pasinetti

Veneziano, quindi cosmopolita per nascita, Pasinetti ha diviso la sua vita fra Venezia e gli Stati Uniti, dove ha tenuto corsi di letteratura generale nella sede di Los Angeles della University of California. L’Università di Yale gli ha conferito il dottorato.
Tra i diversi riconoscimenti ricevuti ricordiamo il premio del National Institute of Arts and Letters di New York, il premio Scanno, il premio Amelia, il premio Pisa, il premio Ecureuil. Ha ottenuto per due volte il premio Selezione Campiello.
Ha pubblicato diversi romanzi: il primo, Rosso veneziano (1957) ottiene già un buon successo al punto che ne cura egli stesso la traduzione in inglese per il mercato americano.
La prima versione de La confusione esce nel 1964, ma viene successivamente riveduta e riedita nel 1988 col titolo Il sorriso del Leone.
Con Il ponte dell’Accademia (1968), offre la prima netta e sorprendente indicazione di un nuovo e più efficace uso del linguaggio, di una scelta (geniale) di forme verbali e strutturali basate sì su una straordinaria padronanza del mezzo, ma proprio grazie a essa volte a sfruttarne ancora meglio e per vie prima poco esplorate le potenzialità espressive.
Segue nel 1971 Domani improvvisamente, che rappresenta un ulteriore progresso e una nuova sorpresa nel percorso letterario di PMP, il quale anche qua sperimenta in modo originale e felicissimo una invidiabile libertà di scrittura, magistrale modello per una narrativa – quella italiana – spesso ripetitiva e asfittica.
È del 1979 Il Centro e del 1983 Dorsoduro, che prende il titolo da un sestiere di Venezia amatissimo e legato alle sue molte memorie; poi ancora nel 1993 Melodramma, curiosamente ambientato nell’ottocento, e più recentemente Piccole veneziane complicate nel 1996, anno in cui consegue il prestigioso premio Ecureuil.
Solo quest’anno (2005) viene a pubblicazione, per le Edizioni Helvetia, anche la sua ultima opera, A proposito di Astolfo, ulteriore esempio della sua capacità di innovare e rinnovarsi.
Altri suoi libri sono: L’ira di Dio (tre racconti, 1943); Dall’estrema America (reportage, 1974); Life for Arts (saggio critico, 1985).
Insieme al fratello Francesco, noto cineasta che fu tra i fondatori del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, in giovane età aveva fondato la rivista “Il Ventuno”. Dopo la morte prematura del fratello è rimasto sempre legato al mondo del cinema, scrivendo diverse sceneggiature e collaborando con grandi registi.
Recentemente rientrato dagli Stati Uniti, si era stabilito in via definitiva nella sua Venezia, dove è nato nel lontano 1913.