Gaudeamus igitur

ibisco

Dominique va in città.
Ha capelli di fili lucidi – riflessi di seta – tirati e lisciati uno a uno fino a far male, e trattenuti da un fermaglio sulla nuca perché il cranio femmineo e modellato si stagli come un cammeo. Il viso le sorride con occhi di notte di plenilunio e denti di melograno. La bocca è un ibisco sfrontato che l’innocenza rende delicato, e non pronuncia parole perché un cuore bambino gliele custodisce. Le spalle ha forti e tenere, e le braccia amorose; due frutti giovani sul torso sottile e gentile; il solco leggero e sicuro della schiena. Una minuscola favilla di luna le brilla nell’ombelico, e il lino color foglia di stagno le carezza i fianchi dalla curva docile, fino alle ginocchia dall’ossatura fragile e forte come una creatura di savana. Le caviglie sono da regina, i piedi di cuoio. Tra le mani dalle dita secche e allungate tiene dei fogli, e gli anelli d’argento che le ornano sono alcuni dei suoi desideri.
Trattiene, sulla porta, l’ultimo sorriso, poi lo lascia aprirsi sul viso color pelle di castagna, perché come castagna scura è il suo colore, e d’oltremare il suo paese.
Ma è mia figlia, e va in città.
Oggi si laurea.