Suis pas Charlie

No, non sono Charlie.
Non sono islamofoba, non sono razzista, non sono con chi usa mezzi di comunicazione per esprimere concetti ingiuriosi invocando la libertà di stampa. Libertà di stampa significa libertà di informare sulla verità assodata. Significa libertà da censure di regime ma in nome del diritto all’informazione veritiera. Non significa licenza di accusare, denigrare, offendere. Questo è abuso della propria posizione e esortazione all’odio razziale e di religione. Non è giornalismo, né satira.
Non è libertà di stampa pubblicare notizie infondate o non controllate o gonfiate. Poco conta che a volte, in un secondo momento, seguano delle rettifiche: intanto il male è fatto, i mostri che non erano mostri sono passati in prima pagina sotto gli occhi di tutti, le esternazioni personali e velleitarie hanno preso piede nella testa della gente, ne pilotano l’opinione, si sostituiscono alla capacità critica individuale.
E non è satira infangare sghignazzando dei valori che altri tengono per sacri: la propria famiglia, la propria religione, la propria onorabilità. Per me la satira di Charlie Hebdo ha sbagliato. Qualunque satira per me sbaglia quando sconfina oltre il limite di quel minimo di rispetto e correttezza che il più comune codice etico umano riconosce. Non è il fatto di nascondersi dietro la “satira” che può legittimare l’insulto pesante e volgare, se non addirittura gratuito: anzi, è viltà usare questo strumento critico e i canali di comunicazione di massa per attaccare con disprezzo chi non la pensa come noi.
Io non credo a questo giornalismo e a questa satira. Ne rifiuto l’arbitrio, il protagonismo, il sensazionalismo, l’arroganza e il delirio di onnipotenza. E soprattutto la presunzione di impunibilità.

Non sono ovviamente neanche per il terrorismo: non è questo – non lo è mai – lo strumento per reagire alle offese e alle provocazioni. Quindi non sono né sarò mai di quelli che dicono “Se la sono cercata”. La redazione di Charlie Hebdo? Martiri, sì, ma non della libertà di stampa. Martiri del terrorismo, la cui follia, violenza e irragionevolezza non meritano nemmeno un mio post.

No, non sono Charlie.
Ma penso a Parigi, città violata, e mi dico: ecco chi sono, je suis Paris.

La prassi dello scaricabarile nell’educazione dei figli

I bambini.
Oddio, non sono una che stravede per i bambini, non per quelli degli altri, almeno. Ciascuno straveda per i suoi, voglio dire,  e io trovo un po’ forzate certe manifestazioni di commozione e viscerale amore indiscriminati, soprattutto se rivolte ai bambini pasciuti e maleducati che rappresentano la maggioranza di quelli che allignano oggi. Se mi dite i bambini poveri, maltrattati, affamati, sfruttati o orfani, è un altro discorso; benché anche per loro non sia il caso di stravedere a parole e lacrime quanto di agire in concreto, e io nel mio piccolo l’ho fatto e lo faccio, in base alla profonda convinzione che i figli di nessuno siano, al contrario, figli di tutti.
Ma perché sto parlando di bambini? Ah sì, perché la premessa è che davanti a loro non sono il tipo di donna che si sdilinquisce di default. Sono piuttosto il tipo di donna che li considera altrettante persone, da capire e rispettare come gli adulti seppure mutatis mutandis. E naturalmente da guidare: con fermezza e saggezza, ma senza agitare spettri di uomini neri o di orchi mangiabambini.
I bambini li vedo in biblioteca. Ne vengono tanti ogni giorno, dagli zero ai 13 anni; dopo li colloco nella categoria ragazzi, che meriterebbe considerazioni a parte solo che mi viene il nervoso solo a pensarci. Già, sui 13 anni comincio a non sopportarli proprio, diventano dei marziani, dei trogloditi anzi. Forse perché a quell’età si imbozzolano e stanno lì dentro a maturare per uscirne farfalle verso i 18. E da lì si può ricominciare a ragionarci. Anche se.
In biblioteca, a seconda dell’età, vengono soli o accompagnati. E io è di quelli accompagnati che volevo parlare. Perché non sono loro, ma le mamme. Che i bambini giochino, corrano, facciano casino, tirino fuori i libri e li sparpaglino per terra, li calpestino, li colorino con i pennarelli, stacchino le pagine o ci rovescino sopra la cocacola, vabbè non è un bel vedere però uno dice “sono bambini, non sanno quello che fanno”. Ma io dico anche “sono bambini, non sanno quello che fanno però hanno ben una mamma che dovrebbe saperlo lei”. E invece col cavolo. I piccoli vandali saccheggiano e le madri se ne stanno al cellulare. Questo, fanno, le madri. Se poi la gazzarra raggiunge limiti estremi e accidentalmente disturba anche le loro telefonate, il massimo che fanno è – dopo qualche blando avvertimento – coinvolgere ME ricordando ai frutti dei LORO lombi che “la signora si arrabbia e ci manda via”.
Io mi arrabbio?? Io li mando via?? Ma come vi permettete? Certo che mi verrebbe voglia di spezzargli le braccine o di fare viola il loro paffuto culetto, ma non si illudano che lo farò al loro posto, passando oltretutto per la strega che non sono e rischiando di dissuadere i nostri più piccoli utenti dalla frequentazione della biblioteca. Quello è il tipo di madre cieca e sorda che non ha voglia di scomodarsi, il tipo di madre che non ha le palle per rimproverare, il tipo di madre che non si espone di persona e piuttosto raccomanda ai figli di non fare capricci perché sennò Gesù bambino piange o la bibliotecaria (che ovviamente è meno paziente di Gesù bambino) si arrabbia. Il tipo di madre, probabilmente, che per convincerli a mangiare gli spinaci li minaccia nascondendosi dietro l’Uomo Nero, e che quando obbediscono gli dà lo zuccherino e li porta alle giostre. Educazione per delega o per ricatto. Le nuove frontiere del rapporto genitori/figli. E con questo no, non sto invocando le sberle e gli sculaccioni di un tempo, ma solo quella doverosa fermezza che costituisce la base di un imprinting convincente e ragionato.
Ho appena ammesso, con la massima onestà e trasparenza, di non avere una particolare attitudine a essere paziente con i bambini, ma giuro che ne ho poca o nessuna a spaventarli passando da castigamatti, e ancor meno che ho a togliere le castagne dal fuoco a madri scarsamente idonee. Io non mi presto, e non tanto perché esula dal mio mansionario ma proprio per principio.
Ci pensino loro. Una volta passi, la seconda è già cartellino giallo, alla terza non si appellino a me, ma prendano su armi, bagagli e bambini e li portino fuori, al campetto, a giocare all’aria aperta e a fare quel cazzo che gli pare, alla larga dai nostri poveri libri. Col piffero che ve li educo io, i vostri piccoli mostri.

Blacklist

 

Chiamatemi snob, ma io ho una lista lunghissima di crimini linguistici che mi fanno venire la pellagra. Appartengono in genere alla categoria “non-so-né-leggere-né-scrivere-né-articolare-un-pensiero-tutto-mio-per-fortuna-che-ci-sono-i-luoghi-comuni”.
Alcuni esempi illuminanti e ampiamente, quotidianamente e asfissiantemente sfruttati dai giornalisti dei tg (elenco provvisorio e in permanente aggiornamento, sono gradite segnalazioni, astenersi perditempo):

– una manciata di
Ragioniamo terra terra, cos’è che si misura a manciate? A casa mia, ciò che sta in una mano, tipo cereali e legumi, tipo sassi o biglie o bottoni o spiccioli, tipo caramelle o cioccolatini, e nella peggiore delle ipotesi medicinali in pillole. Non certo edifici in muratura (una manciata di case arrampicate sulla collina) o intervalli di tempo (solo una manciata di secondi ci divide ormai dalla mezzanotte).

– mozzafiato
Ma non c’è proprio un altro aggettivo più definito per descrivere un panorama o un thriller? Mozzafiato lasciamolo alle curve delle siliconate, che tanto si accontentano di un linguaggio rudimentale e dubito possano capire certa inarrivabile duttilità ed eleganza della nostra lingua.

– un vero e proprio arsenale
Ahò, ma possibile che tutti i depositi di armi clandestine ricadano sotto questa ritrita definizione? I giornalisti la usano come slogan sensazionalistico mentre commentano i filmati dei carabinieri reduci da (altro slogan) un blitz culminato in un maxisequestro.

umanitario 
Sono perplessa sull’uso di questo aggettivo in riferimento a un evento catastrofico.  Umanitario non significa che coinvolge  molta povera gente, ma che ama e soccorre molta povera gente. Le catastrofi, casomai, le vedo disumane, ma forse sono io che ho l’orecchio troppo esigente.

– la morsa del gelo
Ma insomma, sforzatevi un cicinìn, trovate un’altra formuletta, perché questa la recitate drammaticamente quanto meccanicamente a ogni piè sospinto, fino a farle perdere il reale spessore. E per favore siate seri, quando torna un po’ di sereno non annunciatelo con frasette rubate alle poesiole di prima elementare, tipo il sole ha fatto capolino.

attenzionare
Ricordo ancora la corsa in bagno che ho fatto tre anni fa quando, all’apertura dei lavori di un convegno internazionale a Venezia, una docente di Letteratura dell’università di Ca’ Foscari si è compiaciuta di inserire nella sua dotta prolusione questo abominevole verbo.

piuttosto che
Spiegatemi per favore l’uso dissennato di quel malefico piuttosto che, che secondo certa moda vigente sarebbe equivalente al semplice, banale e plebeo o (disgiuntivo). Spiegatemi perché piuttosto ha perso questo suo italico valore per assumere quello di una congiunzione, con tutte le ambiguità del caso. Questo blog lo bandisce, sia chiaro.

assolutamente sì, assolutamente no.
Eddai, pare tanto brutto dire solo o no? Cosa ci aggiunge, l’assolutamente? Un’autorevolezza inconfutabile? Un’enfasi gratuita anche se (o proprio perché) state dicendo, come vien da dubitare, una falsità?

MAIcrosoft
Ma voi dite mAIcroscopio, mAIcrosecondo, mAIcrofrattura? E allora perché ogni microsecondo che passa devo sentir dire MAIcrosoft? Micro viene dal greco, per Zeus!

– su mission, step e quant’altro la mia tastiera si è ribellata. Quando è troppo è troppo, dice, passiamo oltre.

– trovo anacronistico definire anziane le persone già a partire dai 55-60 anni. Allora i novantenni ancora vigili e autosufficienti di cui la vecchia Italia è piena li dovreste definire decrepiti. L’età media e la qualità della vita nella terza e quarta età si sono molto alzate: aggiornatevi, cribbio. Ma non tanto da coniare un ipocrita diversamente adulti, perché so che ne sareste capaci.

– trovo poi ingiustificabile definire premier il presidente del consiglio. Se non sbaglio, la moda è entrata in vigore con Berlusconi, io prima non mi ricordo che si usasse questo anglicismo. Oggi invece, oltre al premier, abbiamo al ministero della giustizia il Guardasigilli e alla presidenza delle regioni dei Governatori (perché non Vicerè, magari?). Il Lavoro è diventato il Welfare. E poco ci manca che il medico legale sia rinominato coroner. Il massimo dell’ipocrisia è aver promosso le entraîneuses a escort. Sono sicura che in italiano esiste il termine corretto per questa categoria, anche se in questo momento non mi viene in mente.
Manie di grandezza di un’italietta proprio piccola piccola, e fondata sulle banane.

ps: anni fa, a un convegno medico, ho sentito un relatore italiano pronunciare all’inglese il vocabolo latino placebo. Con ineffabile disinvoltura, lo ha trasformato in un plassibo che mi procurato all’istante una crisi convulsiva. Da quel giorno non sono stata più la stessa.

La calata dei barbari e il calo della cultura

Ne parla, pur senza esprimere nulla che non sia già evidente a chi ha un minimo di sale in zucca, Pietro Citati sul Corriere cultura di oggi.
A margine, mi permetto di dissentire – ma a puro titolo personale, e anche a nome di alcune casalinghe di Voghera come me – sulla scelta dei due libri portati a esempio di letteratura alta eppure di successo degli ormai arcaici anni settanta. L’insostenibile leggerezza dell’essere l’ho trovato insostenibile e presuntuoso; l’altro, Le nozze di Cadmo e Armonia, dopo un avvio entusiasmante, mi ha stremata.
Inoltre a Kafka aggiungerei, per dirne uno, Steinbeck.
Per fortuna, a scuola fanno leggere Calvino: tutto sta a cosa ci capiscono.

 ps: secondo me, un pezzo come questo di Citati avrebbe potuto scriverlo, rendendolo anche più accattivante ed esaustivo, un qualunque blogger di medio livello.

Questione di feeling

Ieri sera mi sono arresa e ho abbandonato L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon. È inutile: una quarantina di pagine in una settimana sono un segnale evidente di disinteresse. E mi dispiace, perché da questo libro mi aspettavo molto: mi aspettavo una nuova immersione nel postmoderno, mi aspettavo di conoscere un autore considerato fra i predecessori di D.F.Wallace, mi aspettavo che l’incipit – che mi aveva colpito con le sue atmosfere – mantenesse le promesse. Invece ho dovuto constatare che la scrittura di Pynchon non mi parla, non mi dice niente, benché io per avvicinarla mi fossi disposta con le orecchie ben aperte.
Mi dispiace sempre abbandonare un libro, e più ancora un libro considerato importante o in generale un autore universalmente acclamato, e ne ricerco i motivi, che possono essere diversi. A volte capita di voler per forza leggere il libro giusto ma nel momento sbagliato: è il caso in cui la colpa del mancato feeling dipende da me, da fattori personali, da circostanze esterne che condizionano in negativo la mia capacità di ricezione. Può anche capitare che un libro si presenti ostico perché – vai a sapere – sono io che non ci arrivo, non sono all’altezza. Oppure al contrario ho preteso troppo e mi sono fidata di consigli inadatti ai miei gusti o di critiche mercenarie.
Ma spesso il mancato aggancio fra libro e lettore dipende dall’autore stesso, che parla una lingua solo sua e si rivolge solo a se stesso. Si scrive addosso. Ovviamente questo è un criterio quanto mai soggettivo, è una sensazione che il lettore è libero di provare senza sentirsi in dovere di discolparsene. Lo stesso libro ad altri parlerà forte e chiaro e accontenterà le loro aspettative. Questione di gusti, di habitus, di livelli di esperienza e maturità. Questione anche di, per così dire, supporto.
Per esempio, Dante. Non ho avuto fortuna con gli insegnanti, al liceo, cosicché di Dante ho capito la bellezza solo dopo, crescendo da sola.
Viceversa Manzoni non mi è andato giù neanche dopo la scuola (la mia è stata quella nozionistica pre-sessantotto). Manzoni non mi piace perché è zelante, e lo zelo uccide la narrativa.
Altro mostro sacro con cui non parlo è Buzzati. Mi dicono che è un’eresia, ma c’è poco da fare: con Buzzati è un dialogo fra sordi.
E via così.
Da Céline mi aspettavo molto, e mi ha disturbato subito con un senso diffuso di forzatura (cosa che trovo piuttosto puerile).
Proust, che vagheggiavo mi avrebbe scaldata nei lunghi inverni padani, mi ha esasperata per le lungaggini autoreferenziali: diamine, sono una lettrice, non la sua psicoanalista.
Joyce mi spaventa non poco, ma lo sorseggio con cautela e forse la mia umiltà alla lunga avrà successo. Svevo invece è nelle mie corde.
Franzen mi aveva fulminato con Le correzioni ma ultimamente lo avverto freddo e presuntuoso.
Nabokov lo sento indigesto, un altro che parla da dietro un muro o da sopra un pulpito.
Steinbeck lo adoro, Faulkner mi fa sudare.
Roba più spicciola: Tamaro e Mazzantini non le reggo perché ridicole; il fantasy in generale perché noioso; Kundera perché parla in arabo; Baricco perché esala solo fumo; Tiziano Scarpa perché insincero; di Camilleri diffido perché scrive troppo; anche Simenon ha scritto tanto, ma sapeva come fare a non annoiare il lettore. Infatti lo leggo da sempre e non mi stufa mai.
Comunque ieri sera ho aperto Americana, di DeLillo, e per il momento mi sembra che potremmo intenderci, anche se siamo ancora ai preliminari. Purché non durino troppo…

I diritti del lettore secondo Pennac # 9, 10

Posto l’ultima parte delle mie considerazioni in merito ai Diritti Imprescrittibili del Lettore secondo Daniel Pennac.

9. Il diritto di leggere a voce alta

Su questo diritto non mi pronuncio perché non ne sento, personalmente, il bisogno. Non leggo a voce alta perché non sono io, non è la mia voce, che darebbe voce al libro, ma è il libro stesso che mi parla nella mente, e con la sua voce. È lui che parla, e io devo solo ascoltarlo. Allo stesso modo, non riesco ad ascoltare un libro letto da altri: è come se, passando attraverso la voce, la pronuncia, la declamazione di un altro, il libro perdesse qualcosa della sua identità e arrivasse a me mediato da un estraneo, quando invece ciò che mi aspetto dalla lettura è lo stabilirsi di un ponte diretto e molto privato fra me e il racconto, senza suggeritori né spettatori. Ricordo molto bene quando e perché ho imparato a leggere: ero ancora troppo piccola per la scuola, ma già non mi bastavano più le storie raccontate da altri, i libri letti da altri. Volevo impossessarmi io di quelle storie e quegli oggetti chiamati libri, volevo gestirli, spadroneggiarli e tuffarmici dentro di persona, volevo essere io a esplorarli e a trovarne il significato, il mio significato e non l’interpretazione di qualcun altro; probabilmente non mi rendevo conto – a cinque anni – che già allora il mio rapporto con la lettura era quello di una profonda interazione, uno scambio intenso e senza intermediari.

10. Il diritto di tacere

Pennac si riferisce alla facoltà di non rispondere cui può appellarsi un lettore interpellato su un libro letto, o meglio sulla sostanza di cui è fatto il rapporto che lo lega alla lettura. Anche lui, Pennac, sa benissimo che si tratta di un rapporto troppo intimo per venir condiviso facilmente, per venir addirittura reso a parole senza timore di un travisamento. E’ un po’ quello che dicevo nelle mie considerazioni sulla lettura ad alta voce: tra lettore e libro intercorre un legame troppo personale per poter essere ridotto a formule o soggetto a giustificazioni. Nella lettura ciascuno proietta un po’ o molto o a volte tutto di sé, in particolare gli aspetti più nascosti o inconfessati, e più ancora quelli nebulosi, non chiari nemmeno a lui stesso. Di tutto questo non è lecito chiedere un rendiconto: teniamoci dunque il nostro segreto e la nostra rivelazione privata, che solo a noi può giovare, al nostro microcosmo che è sempre e comunque sostanzialmente diverso da qualunque altro. Dei libri che leggiamo parleremo, è certo, anche a voce alta, anche con ardore, o ne scriveremo recensioni perfino ragionate e documentate, ma sarà un parlare della superficie, di ciò che è già chiaro e comprensibile a tutti; il nucleo, ciò che solo noi sappiamo averci smosso dentro e perché, è un tesoro inesprimibile ed è solo ed esclusivamente affar nostro.

Chiudo con un invito probabilmente superfluo:
leggete e diffondete COME UN ROMANZO di Daniel Pennac.

I diritti del lettore secondo Pennac # 8

A proposito del Diritto numero 8…

8. Il diritto di spizzicare

Diritto ampiamente esercitabile nelle librerie e nelle biblioteche, e non solo per evitare di comprare a scatola chiusa ma prima di tutto perché il vero lettore è uno che di fronte a tanta grazia di libri esposti perde la testa e li vorrebbe annusare, toccare, sfogliare, accarezzare, conoscere, assaggiare tutti. Li vorrebbe quasi abbracciare, sopraffatto dalla commozione di trovarsi circondato da tanti amici. E per non trascurarne qualcuno, gli vien voglia di spizzicarne più possibile, per procurarsi l’illusione di portarsi a casa almeno un pezzetto, un segno, una traccia, un ricordo di ognuno.
A casa è ancora più facile: basta ammassare libri anche a casaccio vicino al letto o alla poltrona, e passare le serate soprattutto d’inverno a saltabeccare dall’uno all’altro secondo l’estro del momento. Perché c’è un libro per ogni occasione della vita e anche per ogni circostanza della giornata e per ogni variazione di umore: la mattina si può (è un diritto) sentirsi attratti da Melville, il pomeriggio da Benni, la sera da Agata Christhie e in piena notte da E.A.Poe, e il solito vero lettore impara presto a destreggiarsi fra i diversi stili e intrecci senza perdere il filo.
Senza contare che spizzicare libri, al contrario di spizzicare cioccolatini o patatine che porta facilmente a nausea, ha i suoi vantaggi: ogni libro contiene messaggi e riferimenti che allargano la mente e le suggeriscono nuove strade, nuove ricerche. I libri, lo sostengo da sempre, sono un po’ tutti imparentati fra loro, figli della stessa voglia di raccontare, stupire, incuriosire, e a sapersi ben disporre risulta facile riconoscere in ciascuno dei legami, dei richiami, che portano – sulla via di questa curiosità – ad altri libri che trattino oppure approfondiscano temi simili, o viceversa propongano argomenti in netta antitesi. Seguendo queste tracce, questi suggerimenti, queste associazioni di idee, si comincia per esempio con lo sfogliare una biografia storica e critica di Giulio Cesare scritta da Antonio Spinosa, poi, passando per le ricostruzioni avvincenti e verosimili di Colleen McCullough, si approda con animo ormai appassionato al teatro di Shakespeare, ma sono ammesse e raccomandate ampie digressioni nei tomi del liceo da cui si traduceva il nostro De Bello Gallico quotidiano e, con più divertimento, nel campo del fumetto o meglio nell’accampamento di Asterix.
E alla fine saremo ricchi di sempre più numerosi input, perché di Spinosa c’è molto altro da leggere, anzi c’è tutto il settore delle biografie storiche da esplorare, così come i romanzi della McCullough risultano buoni riempitivi per le stagioni morte, e come di Shakespeare ci si rende conto di non aver mai letto né riletto abbastanza, e di Asterix non si può non ammettere di essere innamorati e ammiratori.
Insomma, si spizzicano libri come si trangugiano pop corn, con la differenza che i secondi al massimo provocano mal di pancia, mentre i libri… beh, sì: provocano dipendenza. Ma volete mettere, che magnifica droga?

I diritti del lettore secondo Pennac # 7

Diritti del Lettore (D. Pennac): siamo al settimo.

7. Il diritto di leggere ovunque

Ovunque non è poi un problema, per il vero lettore.
Il vero lettore non ha bisogno di particolari comodità per leggere; ottima la poltrona in studio o in salotto, oppure il letto o la sdraio o anche due bei cuscini su un tappeto, ma il vero lettore legge tranquillamente anche in autobus, in metropolitana, in treno, in aereo, su barche, traghetti, navi da crociera, in sale d’aspetto e su panchine dei giardini; il vero lettore legge seduto, sdraiato, stravaccato, raggomitolato, ma anche in piedi sotto le pensiline e addirittura camminando, se convenientemente addestrato.
Da tutti questi posti e da tutti questi modi, il vero lettore esce e si affranca quando entra nel suo libro; dentro le pagine, un altro mondo, forse un’altra strada, un’altra pensilina, un’altra sala d’aspetto, oppure un giardino o un deserto, un salone da ballo o una soffitta, comunque sia per lui sarà un altro dove, e non ne prova mai disagio. Sa sempre dove stare, il lettore, e ci sta bene, ci sta da dio, dimentica il resto, non avverte scomodità, non si lamenta di sedili duri o correnti d’aria.
Il problema non è dove, ma casomai quando.
Il vero lettore dovrebbe avere il diritto di leggere ogni volta che lo desidera, e di farlo in pace, senza invasioni o interruzioni, senza la distrazione di passanti e impiccioni, senza l’obbligo di guardare l’orologio e di affrettarsi perché è ora di pranzo o di lezione o d’altro. Il vero lettore soffre fisicamente a dover chiudere il suo libro perché lo reclamano a tavola o perché la sua luce accesa alle tre di notte disturba chi dorme.
Il vero problema del vero lettore – il vero diritto da regolamentare – sono i rumori di fondo.

I diritti del lettore secondo Pennac # 6

Continuo con i Diritti del Lettore secondo Daniel Pennac. Oggi tocca al sesto.

6. Il diritto al bovarismo (malattia testualmente contagiosa)

Ma in fondo il bovarismo non è  un diritto, bensì una vera e propria motivazione alla lettura. Io ne approfitto senza risparmio, e i miei libri più amati sono ovviamente quelli che mi permettono di esercitare il mio bovarismo dalla prima all’ultima pagina.
Bovarismo significa, in buona sintesi, immedesimazione, ma di regola la si intende in senso deteriore, ossia nel suo essere eccessiva e quindi connotarsi come vizio o debolezza adolescenziale, da immaturi, da sprovveduti. Eppure quando abbiamo scoperto la lettura abbiamo scoperto contestualmente il piacere dell’immedesimazione, del suo potere di farci evadere rivestendoci dei panni e dei sentimenti dei nostri eroi, e ne siamo caduti subito in balia. E’ un altro mondo più esaltante e sorprendente quello che ci aspettiamo di trovare tra le pagine di un libro; un mondo dove succedono le cose che noi desideriamo, che noi progettiamo, noi e non le circostanze prevedibili del nostro quotidiano.
E cos’è che ci tiene avvinghiati a una lettura, che ci fa stare svegli la notte per continuarla, che ci estrania dall’incresciosa piattezza delle giornate e che ci fa sentire orfani quando il nostro libro è finito, se non la delizia dell’immedesimazione?
Ci si affeziona non solo ai personaggi e alle vicende, ma anche agli ambienti e ai tempi in cui si svolgono, e quando si volta una pagina e ci si ritrova in una scena già nota se ne riconoscono i segni e le dimensioni come rientrando nel tinello, nel salotto, nella camera da letto di una casa che consideriamo nostra. Ci sono familiari – perché li vediamo nitidamente con la nostra immaginazione bovarista – perfino gli oggetti, le tende alle finestre, gli abiti, gli alberi delle strade, le facciate delle case, gli archi di un ponte. E’ un mondo parallelo nel quale entriamo con golosità, e dal quale usciamo di malavoglia e quasi sentendoci estirpati quando ci chiamano a tavola o al lavoro.
Godiamocela, questa malattia testualmente contagiosa; anzi, facciamoci contagiare incurabilmente dall’immedesimazione letteraria, e consigliamo vivamente a chi ne è esente di sostituire con essa quella veramente deleteria, ingiustificata e sempre più diffusa che prende a modello le vacuità insignificanti che ci offre la tivù.