Badanti a Natale

– Io vengo di Moldavia.
– Io vengo di Ucraina.
– Noi a Moldavia celabbiamo Babbo Natale.
– Anche noi da Ucraina celabbiamo Babbo Natale.
– Tutti paesi poveri celanno Babbo Natale.
– Italia no povera, Italia no Babbo Natale.
– Italia regali Natale li porta genitori nonni zii.
– Italia genitori nonni zii è ricchi, celà soldi per regali.
– Italia regalano bambini computer e plestèscion e scarpe 300 euri.
– Italia regalano smarfon e rolex oro.
– Noi Moldavia no soldi no ricchi no oro no neanche scarpe.
– Noi fame e no panettoni.
– Noi freddo e no giacconi firmati.
– Noi poveri e no vacanze Cortina.
– Neanche Sescèl.
– Poveri italiani.
– Spendono tutti soldi per regali.
– Ecco perché c’è crisi. Grossa grossa crisi.
– Noi fortunati che celabbiamo Babbo Natale che pensa tutto lui.
– Senza pagare niente, che non celabbiamo soldi.
– Noi Ucraina Babbo Natale ci porta calzettoni lana grossa e arance.
– Noi Moldavia Babbo Natale ci porta fazzoletti e noci.
– Miei signori fatto albero di Natale 3 metri: 1.000 euri.
– Miei fatto presepio 5 metri con trenino e cascate: 5.000 euri.
– C’è crisi.
– C’è grossa crisi.
– Mia figlia fatto scuole, è maestra, dice bambini italiani viziati, in classe sempre giocano con cellulare.
– Mio figlio capufficio in fabbrica, dice operai italiani sempre beve caffè alla macchinetta.
– C’è crisi.
– C’è grossa, grossa crisi.
– Cavolfiori a 3 euri e 50.
– Casa mia Moldavia cavolfiori gratis in orto quanti vuole.
– Poi quelli poveri siamo noi.
– Mondo tutto rovescio.
– Beh vado a fare bagno al nonno.
– Io farmacia comprare pannoloni.
– Poveri vecchi.
– Figli non vuole bene.
– Figli egoisti.
– Italiani così. No come noi.
– Perché italiani non crede Babbo Natale.
– Crede Renzi, che coglioni eh.

Mai contenta

La domenica pomeriggio, che uno dice  me la tengo libera così ci faccio solo le mie cose, oppure dormo, mi stravacco, leggo a oltranza, macché invece riesco sempre a mandarla in bianco e a contare le ore perché arrivi un sano lunedì.
C’è qualcosa di morboso nel poter oziare la domenica pomeriggio. Mi pento di aver già finito le lavatrici e stirato tutto. Mi merito un’oretta di pisolo ma quando mi sveglio ne esco rincoglionita e con la sensazione colpevole di aver buttato il tempo senza recuperare un minimo di carica.
Guardo la posta: il deserto. I blog per lo più osservano il riposo domenicale. Twitter non fornisce abbastanza riempitivi a una che odia contare i caratteri. La tele percarità (infatti era accesa quando mi sono addormentata). C’è stato anche un gran premio di formulauno. L’ideale per dormirci sopra.
Oggi pomeriggio qua al paesello deve esserci stato un evento grandioso, a giudicare dall’affluenza di macchine nel piazzale della chiesa e aree limitrofe. Facile che sia stata la cresima, per come è in tiro la gente che sta uscendo adesso. Non sono informata, mi interessa solo che facendo manovra non mi tirino sotto qualche gatto.
Altro non è successo. Qua al paesello se non è una cresima è un funerale, poi basta. Il massimo della suspense è quando succede qualcosa sulla provinciale e si vedono i tir e le auto in fila a passo d’uomo per un po’, poi arrivano le sirene e, al caso, l’elicottero. La speranza di vedere laghi di sangue sull’asfalto attira in strada tutti i paesani. Poi chiedetemi come mai in tanti anni non ho socializzato con nessuno.
Lo so che da domani ricomincerò a fare programmi esaltanti per il prossimo week end. Dormirò, non cucinerò, avrò tutto il tempo per riprendere la mia traduzione o preparare quella serata monografica su D.F.Wallace, o anche per ridisegnarmi con calma le sopracciglia. Tornerò la sera dalla biblioteca di corsa, preparerò la cena di corsa, non vedrò l’ora di chiudere la giornata a letto con un libro sul quale mi addormenterò sognando la domenica. Poi la domenica arriva e io sono la solita sprecona e la cambierei volentieri in un giorno feriale qualunque in cui non sento mai il bisogno di fustigarmi per non aver fatto un granché. Nemmeno strapparmi le sopracciglia.
Ho trovato. Vado a lavarmi i capelli, almeno sarò occupata per un quarto d’ora. Anche venti minuti, se me la prendo comoda.

(nella foto: Angelino non ha di questi problemi)

Madeleines

E insomma, c’era quella poesiola delle elementari che stava sempre lì, ai primi posti della classifica dei ricordi fissi, impressa parola per parola e intonazione per intonazione nell’anfratto più blindato dei ricordi remoti. Più stabile e immutabile di tanti altri ricordi remoti, che invece escono a fatica e solo dopo numerosi tentativi di decifrazione. La tiravamo sempre fuori come prova di fedeltà quando ci trovavamo insieme tutti e tre, il che accade solo una volta l’anno in occasione della visita di nostro fratello da Parigi. Quando ci troviamo insieme tutti e tre, torniamo bambini. Ma bambini cretini. E il nostro gioco preferito, lontano da orecchie estranee, è il piccolo archeologo. Archeologia familiare, riesumazione del lessico e della mitologia delle nostre infanzie. Immagino lo facciano tutti. A noi è sempre riuscito benissimo, uno comincia con un “Vi ricordate questo?” e gli altri si illuminano e inizia la gara a chi riesce a recuperare più particolari. “Vi ricordate quest’altro?” Come no, e tutti giù a spararle grosse, arricchendo il ricordo di risvolti umoristici. A volte vengono in soccorso le vecchie foto, nelle quali ci riconosciamo impacciati e ingenui nei nostri cappottini anni ’50, dei quali ricordiamo i colori anche se è tutto rigorosamente in bianco e grigio (il nero si è già stinto).
La poesia delle elementari è un must di queste riunioni. C’è sempre qualcuno che la mette sul tavolo, e allora la recitiamo all’unisono, sovrapponendo le nostre voci nel ritmo e nella pronuncia indelebilmente imparati allora. Imparati dai nostri cuginetti, che dovevano studiarla per scuola, ma noi l’avevamo memorizzata meglio e la ripassavamo con loro. Sotto la brina il pioppo è di cristallo, intona uno, e gli altri subito dietro, come in chiesa per il rosario: Se lo tocchi l’infrangi, e piomba al suolo con tinitinnio di frantumate lastre. Una poesia sull’inverno, sulla natura, triste, accorata, antiquata. Eppure ci divertiva declamarla con intonazione teatrale, era una specie di infantile esorcismo.
L’ultima volta, a febbraio, non abbiamo resistito: l’abbiamo cercata su google. E l’abbiamo trovata al primo colpo. Abbiamo finalmente riportato alla luce il testo completo e anche l’autrice, nientemeno che Ada Negri (magari a questo ci saremmo potuti arrivare anche da soli). Era esattamente come lo ricordavamo noi dopo tutti questi anni. Ma non ce ne siamo rallegrati. No, perché era come un enigma svelato, che ha perso tutto il suo sapore. Prima era un tesoro esclusivo della nostra memoria, ora è un bene comune alla portata di tutti e perciò svilito, banalizzato.
Google è onnisciente: basta digitare qualcosa, un’esca, un brandello, e lui ti spiattella tutto quello che c’è da sapere. È stato un colpo vederlo apparire senza sforzo e tutto intero, il testo de Il pioppo.
Quello che google non sa, però, è molto altro. Non sa quanto ci divertivamo ad andare a trovare i cuginetti. Non sa che lo zio, un buontempone che recitava dai preti, ci raccontava un sacco di storielle e imitava in modo spassoso il parroco di San Giovanni Grisostomo. Non sa che la casa dei cuginetti era per noi l’antro delle meraviglie, perché in cucina c’era un cassetto che conteneva solo carta e matite per farci disegnare, e che in bagno, davanti alla tazza, c’era un armadietto con un giacimento di giornalini (un lusso che a casa nostra era visto come un’abitudine volgare). Né che la mattina ci svegliavamo nel profumo del pane tostato, e gli zii ci davano a credere che fosse appena arrivato a bordo di un elicottero dei Servizi Segreti. E che, staccando il letto dalla parete, ci ricavavamo un nascondiglio dove simulavamo di pilotare una nave spaziale ben prima dell’allunaggio del ’69.

Queste cose google non le sa.
Anzi sì, mannaggia, ora che ve le ho raccontate le sa anche lui.

Donne in quarta

Su, fate i bravi, non siate banali, trattenevi dall’alludere, ammiccando, alla storiella delle volpe e dell’uva; lasciatemi dire, piuttosto, cosa penso della pubblicità mendace. E mi riferisco a quella perpetrata da certe scrittrici (gli uomini li prenderò casomai in considerazione in seguito) che invadono la quarta di copertina con affascinanti ritratti di sé medesime volti ad accreditare presso il pubblico dei lettori una propria immagine sublimata. Io, di costoro, diffido.
Per raggiungere l’effetto più incisivo, la scrittrice si affiderà al suo agente, generalmente un bel marpione. Costui le suggerirà tutti i dettagli cui attenersi, dal maquillage all’abbigliamento, dall’espressione del viso alla posizione delle mani, e curerà con altrettanta minuzia la scelta dello sfondo.
Per esempio, la scrittrice italiana nasce avvantaggiata. Per cominciare, potrà/dovrà avvalersi di uno pseudonimo affascinante corredato da due o anche tre cognomi dal sapore vagamente rinascimentale, o al minimo umbertiano. Si farà ritrarre in abiti  esclusivi ma sobri, niente gioielli o al più un anello, importante, che confonda le idee sul suo stato civile, e alle spalle potrà scegliere il panorama più consono alla sua cifra stilistica. Se il suo genere è la narrativa d’atmosfera, si farà trovare su una terrazza colma di piante verdi e affacciata sui tetti di Roma, seduta a un tavolino davanti a una tradizionale macchina per scrivere e a una pila di libri visibilmente vissuti. Se i suoi romanzi contengono un certo tasso erotico e le sue eroine sono donne decise e spietate, riceverà il fotografo in un luminoso appartamento milanese tutto cromo e cristalli; in questo caso è concesso un paio di orecchini sadomaso, e eventualmente l’ostentazione delle gambe inguainate in seta fumé. Nell’angolo del divano, è raccomandata la presenza, casuale, di una copia del Sole 24 Ore. La mistica che canta l’amore impossibile oppure il fantasy crepuscolare sarà sorpresa dall’obiettivo nella nicchia di una finestra affacciata su una valletta umbra o toscana, e porterà una gonnellona a fiori e una sciarpa a frange oppure un amuleto esoterico. L’ora migliore, il tramonto autunnale. Si alluderà, discretamente, alla vicinanza con una antica abbazia diroccata e forse infestata da fantasmi medievali.
La scrittrice francese esibirà un boudoir sulla rive Gauche stipato di abat-jour con le perline e di bomboniere d’argento; la sua postazione di lavoro sarà un prezioso tavolino antico spiritosamente sdrammatizzato da un femminile disordine di carte e posacenere fra i quali è opportuno venga installato un gatto placido dal pelo folto (un angora o un persiano vanno benissimo, si possono noleggiare facilmente in un buon negozio di animali). Indispensabile che da un angolo della finestra in fondo si intuisca lo svettare della torre Eiffel. O in alternativa che i cieli siano bigi e vi si veda fumare, dai mille comignoli,  Parigi. Quella che invece giocasse il personaggio schivo, si sarà ritirata in una dimora di campagna in Provenza e si presenterà in una linda cucina aperta su un giardino dove pascolano candide oche e prospera la lavanda. Farà la sua bella figura anche un cesto rustico di mele posato casualmente su una sedia impagliata.
Anche la scrittrice inglese punterà molto sulla natura, prediligendo la vecchia villa georgiana e il prato impeccabile. Ma si renderà ancora più plausibile fra le pareti foderate di libri del suo studiolo, in cui non mancheranno per alcun motivo un caminetto, un levriero e una collezione di teiere. Se è in età, imiterà l’acconciatura della Regina e avrà una stola di cachemire a cingerle morbidamente le spalle. Il tweed invece è da scartare perché ormai fuori moda.
Di scrittrici americane esistono varie tipologie. Quella di successo che descrive ambienti e vicende altolocate da soap-opera gronderà gioielli vistosi e un look da red carpet; la più avanzata versione di Photoshop le garantirà un incarnato radioso e levigato da eterna Barbie anche in età ampiamente postmenopausale. Il salone hollywoodiano alle sue spalle sarà arredato con mobili antichi, leziosi, pacchiani, sovraccarichi di fiori e portafotografie. L’intellettuale tormentata avrà trovato pace e ispirazione nei quieti boschi del Connecticut o sulla costa del Maine; d’obbligo un maglione sformato, un paio di sneakers e un’espressione pensierosa con lo sguardo rivolto all’oceano livido e inquieto in fondo a un molo di legno, fra gabbiani, ventaccio e nuvole basse. La nuova stella del firmamento postmoderno invece brillerà in un attico lievemente e volutamente malconcio al Village, con arredi improbabili, stravaganti e multicolori e gaiamente ornato di megaposter di rockstars. Sono ammessi bicchieri sporchi per terra accanto al futon, ma si dovrà intuire che hanno contenuto solo perrier o gatorade. Tira molto anche lo sfondo di un allegro ranch con cani, puledrini e tanti figli, almeno cinque, metà dei quali evidentemente adottati; questa location si presta particolarmente alla scrittrice leggera, brillante e politicamente corretta.

Tutte le ambientazioni summenzionate, soprammobili compresi, possono essere affittate tramite apposite lussuose agenzie per il pomeriggio necessario alla mise en scène, oppure riprodotte secondo modelli standard in un teatro di posa di proprietà della casa editrice. Per la tariffa, trattativa riservata, ma ci pensa il marpione (l’agente).
In tutti i casi, nessuno escluso, nelle quattro righe di didascalia al ritratto il soggetto riuscirà a comunicare al pubblico un unico e univoco messaggio, valido a tutte le latitudini: che non si capacita del successo, che non è minimamente interessata al denaro, che la scrittura l’ha aiutata a crescere, che alle serate mondane preferisce la quiete di casa sua e che deve tutto alla sua meravigliosa famiglia che l’ha sempre sostenuta con amore e pazienza.
Fa niente se detto soggetto è fisicamente una cozza, anagraficamente una zitellona e culturalmente un’impedita. Fa niente se detesta i bambini e gli animali e invece adora sbronzarsi e giocare a bridge. Dove non arriva Photoshop, il marpione arriverà a scritturare una controfigura.

Cosa di cui mai sentirà il bisogno una come Margherita Hack, Dio la benedica per l’onestà e lo spirito.
Ecco, di lei sì che mi fido.

Binario giardino

“Beh, allora? – mi fa l’Unicorno, occhieggiando un po’ preoccupato tra le frasche.
“Allora cosa? – ribatto svogliatamente, e anche un po’ trafitta dal senso di colpa.
“Possibile che tu non abbia niente da raccontare? – insiste incredulo.
Possibile sì. Mica sono una macchinetta. Mica scrivo per contratto. Mica posso raccontare sempre stupidessi. E neanche mi va troppo di spacciare brodini tiepidi.
A chi vuoi che interessi sapere che oggi la vicina qua di fronte ha avuto i giardinieri tutto il giorno? Hanno depilato la palma, scarnificato l’olivo, squadrato le siepi a parallelepipedo e tornito gli arbusti a sfere tutte uguali. Uno spettacolo pietoso, un’elegante carneficina. Metti una cesoia in mano a un uomo, e questi sono i risultati.
Vale forse la pena scrivere un post per informare che nel pomeriggio, in biblioteca, il mio francese è stato provvidenziale per assistere due nuovi utenti provenienti dal Burkina Faso? E che è anche arrivata la fotocopiatrice nuova, e che ho già capito che non imparerò mai a usarla?  Del resto non avevo ancora finito di imparare a usare quella di prima.
Emozionante ma non da prima pagina è la notizia che, prima di cena, ha telefonato la figlia italo-haitiana-parigina per annunciare che venerdì ha un colloquio di lavoro e che intanto ha inviato i documenti per quel corso alla Sorbonne. Per adesso studia,  fa un po’ da baby-sitter ai bambini della signora di sopra e impara a usare il suo nuovo Mac (a parte il Mac, il resto fa molto bohème, no?)

Io da qualche giorno non scrivo, è vero, però giuro che leggo. Leggo libri e leggo blog. Trascuro, e non vogliatemene, quelli di ricettine di cucina, sfoghi sentimentali, consigli cosmetici, anticipazioni sulla moda e discussioni sul calcio.
E scriverò, questo è certo, quando mi capiterà qualcosa di più originale di quanto esposto sopra. O quando arriverà l’anticiclone, perché non so a voi ma a me ‘sto tempo mezzo e mezzo, né carne né pesce, più freddo che caldo mi fa un effetto vagamente narcotico. Mi sembra di stare seduta da giorni in una sala d’attesa aspettando un treno che non arriva. Ma non è che lo abbiano soppresso. È solo in ritardo. E quando arriverà ci salirò su e racconterò la sua storia.
Anzi quella storia forse ce l’ho già in mente, pensa un po’. L’incipit potrebbe essere “La notizia dello scoppio della guerra ci sorprese in villeggiatura“.
Dovrebbe funzionare.

XX, XY e varianti

Sono passati anni dall’ultima volta che mi sono innamorata di un uomo. Innamorata di quell’amore che si prova su base ormonale tra generi diversi, e nel mio non raro caso anche sulla base di (spesso stolte) fantasie. Di quell’amore, infatti, che affetto da incurabile miopia vede solo ciò che vuole vedere ed è pertanto destinato a misere disillusioni. Ora gli uomini non li amo più, non così almeno. Anche perché i miei ormoni, quelli che mi spingevano verso di loro, hanno avuto la loro parte più che a sufficienza, e non posso proprio lamentarmene (tranne per certe numerose eccezioni in cui mi è andata buca, ciò va detto a onor di verità).
Che non ami più gli uomini non significa purtuttavia che ora ami le donne. In generale non le ho mai amate né su base ormonale né caratteriale e meno che meno corporativa. Sono una donna, questo ho sempre pensato, non una consorella, un membro di un club, una pecora di un gregge, un numero di una categoria. In confronto a certe donne, potrei definirmi un uomo. Oppure più donna di altre. Tutto è relativo.
Dunque chi amo non è necessariamente uomo o donna, anzi finalmente sto mettendo in pratica un mio vecchio e radicatissimo concetto circa l’aleatorietà e la forzatura dei generi.
Voglio dire, chi oggi come oggi mi attrae, mi interessa e potrebbe anche facilmente innamorarmi sul piano intellettuale è la persona intelligente. Tutto qua. Né maschio né femmina né neutro. Distinzioni bizantine, puerili, da ragionieri. Ciò che mi seduce è l’intelligenza. Oltre non vado, non cerco e non chiedo.
Se qualcuno esprime pensieri intelligenti, mi interessa.
Se qualcuno scrive bene codesti pensieri, ancora meglio.
L’idea di conoscere e magari interagire con una persona intelligente mi procura un confortante senso di sicurezza. Mi affido alla sua intelligenza, me ne sento protetta. Ascolto il verbo di una persona intelligente, e credo fermamente che con esso  – quel verbo – mi salverò. Una persona intelligente rivestirebbe per me il ruolo paterno e quello materno, e anche quello dello zio sornione che fa le sorprese ai nipoti e quello della nonna angelica che li aiuta a uscire indenni dai casini. La persona intelligente legittima i miei errori e le mie baggianate, perché io non sono altrettanto intelligente, e ciò è bene, è bene avere qualcuno più intelligente di noi cui ricorrere per riconciliarci con la nostra inferiorità. Non credo convenga essere troppo intelligenti: è molto meglio lasciare che qualcun altro si prenda questa responsabilità al nostro posto, così passeremo a lui le nostre domande idiote e lui, anzi lei, la persona più intelligente di noi, misericordiosamente e con grande fair play ci fornirà tutte le risposte, gratis e volentieri.
Per mia personale esperienza, raccomando di cercarsi questo faro di intelligenza fra le conoscenze virtuali. Il ricorso alla loro protezione potrà essere fatto entro la discrezione di uno scambio di pseudonimi salvando così l’amor proprio di entrambi, e chi s’è visto s’è visto.

Pedigree

maschere veneziane - L. TiepoloDei veneziani si dice “gran signori”. È vero, ci sentiamo signori anche in mutande, abbiamo dentro il genio splendente della Serenissima e siamo costituzionalmente degli snob. Con tutta la bonarietà di Goldoni, ma snob. Sornioni e autoironici, ma snob. Per esempio.
Da piccola mi avevano lasciato credere che mia madre era una contessa che aveva rinunciato al titolo per sposare un borghese. Falsissimo. Il nonno era un falegname e la nonna aveva origini contadine. Resta il fatto che mia madre era donna ipersensibile e svagata, e con questo si era fatta la fama di avere il sangue blu. E non era esattamente un complimento.
In casa dei nonni c’era anche un papiro araldico appeso a una parete, con le sue belle palle e corone, indubbia opera spuria e mercenaria di qualche artigiano, che basandosi sulla semplice condivisione di un cognome piuttosto comune certificava la discendenza dal ceppo del Guercino. Balle. Qualcuno si era solo divertito con poco.
Mi ero anche messa in mente che fra i miei antenati vi fosse un pilota del porto, e a questa leggenda ero affezionata più che alle altre, perché una figura così prestigiosa e tipica nel mio albero genealogico non faceva che confermare e nobilitare le mie radici acquee. Questo, probabilmente, me lo ero inventato da sola.
Pare vero, però, che nella famiglia paterna vi fosse stato un innesto di sangue greco. E del resto la Dominante in Grecia aveva fatto fior di guerre e di affari, ai tempi d’oro.
Cito questa mitologia familiare per quello che è. Lascio immaginare quante ispirazioni ne ho tratto, da bambina e ragazzina, nei miei primi esercizi di scrittura.
Mi converrebbe piuttosto vantarmi di alcune verità, ma non è che valgano molto più delle leggende. Per esempio.
Nantas Salvalaggio da bambino giocava in Campo dei Mori con mio padre, che non ne aveva un ricordo simpatico perché come ragazzino era stronzetto. Mio padre aveva conosciuto anche Carlo Della Corte, che per un breve periodo era stato impiegato nella banca dove papà era già funzionario.
La casa dove ho passato i primi anni dell’infanzia (e che successivamente è stata abbattuta, Dio strafulmini chi si è macchiato di questo crimine perché era una classica, leggiadra, armoniosa palazzina Liberty) era stata abitata, prima di noi, dalla famiglia di Carlo Rubbia.
Un mio zio era stato segretario del cardinal patriarca Marco Cè.
Una prozia piemontese, contadina politicamente attiva sotto il segno dell’Azione Cattolica, aveva conosciuto e discusso animatamente in mille occasioni con un ancor giovane ed esordiente Oscar Luigi Scalfaro.
Paolo Rumiz al liceo era un paio d’anni avanti a me, ma soprattutto era l’amico più intimo del mio moroso di allora, e quindi una delle persone che ho frequentato più spesso e più da vicino nei miei anni a Trieste. Dei tanti ricordi che ho di lui, quello che lui avrà senz’altro dimenticato (ma tanto non mi legge) riguarda una tarda sera d’inverno, al ritorno da una pizza o un cinema o una riunione con poesie, chitarre e distillati iugoslavi, quando sotto casa mia continuavamo a contarcela senza aver voglia di salutarci, e faceva il freddo che può fare a Trieste a gennaio verso mezzanotte, e lui, Paolo, aveva la gamba destra ingessata dal piede all’inguine per un incidente sugli sci (non il primo, se ben ricordo), e ciò malgrado a un certo punto si mette a saltellare sul marciapiede ghiacciato con il gambone rigido e tutto, e io gli chiedo se ha freddo o cos’altro ha, e lui mi risponde che semplicemente gli scappava la pipì.

Ecco, mi pare che sia tutto. Magari chiederò a mia sorella se si ricorda qualcos’altro, non so, un bisavolo doge, una trisnonna cortigiana, un antenato arcivescovo di Costantinopoli. O anche solo un cugino di quarto grado che aveva fatto il militare con il suocero della cognata del barbiere di Massimo Cacciari.

(nell’immagine: Lorenzo Tiepolo (1736-1776) – Maschere veneziane)

Come fu che

Era buio fitto e c’era parecchia umidità, ma C-162 avvertì chiaramente il loro arrivo tumultuoso. Si spintonavano per farsi largo, e i più ingenui restavano indietro, fuori gara. In breve ne fu circondata: un brusio nervoso emanava dalle loro piccole teste feroci, e c’era tanta elettricità nell’aria che si potevano intravedere i loro occhietti fosforescenti. C-162 capì subito di non avere scampo, e che l’unica soluzione era trattare. Non si sarebbe arresa per poco: voleva qualcosa in cambio, e loro sapevano benissimo, a loro volta, di dover gareggiare per conquistarla. Ne passerà uno solo, era scritto.
“Sentiamo, cosa mi avete portato?”
“Io ti darò una Y! Non ti piacerebbe un primogenito maschio? – si lanciò G-180.444.512.
“Adesso come adesso sarei più per una femmina. Magari più avanti”.
“Io ti regalo il gene dell’apprensività – azzardò G-180.444.513.
“No no, mi basta il mio!”
“E se ci aggiungo pessimismo e tetraggine? Pensaci, è un affare – insistette lui, ma era già precipitato nell’ansia, nella depressione e nella certezza della sconfitta.
Infatti C-162 lo respinse senza appello: “No grazie, diffido dei 3×2”.
“Io avrei il gene degli occhi chiari. Guarda che è bello sai! – ci provò G-180.444.514.
“Non ne dubito, ma è un gene recessivo e con me non attaccherebbe”.
“E se ci aggiungo un orecchio assoluto? – rilanciò speranzoso G-180.444.514.
“Sarebbe uno spreco, io sono troppo stonata e te lo rovinerei”.
“Se ti interessa, mi degnerei di condividere benignamente con te il mio gene della megalomania – propose l’altero G-180.444.515.
“Per carità, io sono timida!”
Cominciava a circolare un certo imbarazzo. Restava poco tempo e ancora nessuno era riuscito a passare l’esame. Poi uno, G-180.444.516, visto che era arrivato fin lì solo per quello e che comunque non c’era biglietto di ritorno, si fece coraggio e giocò la sua carta:
“Senti, non so se dirtelo… ma io ho il gene di – scusa, un po’ mi vergogno – di leggere molto”.
G-180.444.516 era arrossito nel buio perché temeva di avere troppo poco da offrire. Invece ecco che C-162 subito drizzò le orecchie e manifestò un certo interesse.
“Mi piace! Ce l’ho anche io, sai che botto facciamo se li mettiamo insieme?”
Gli altri cominciarono a preoccuparsi. Oddio, vuoi vedere che quello lì ha trovato la combinazione giusta?
“Scusa se ti faccio una domanda, ma sai com’è, prima di prendere una decisione del genere devo pur calcolare tutti i rischi”.
“Chiedi pure – accettò G-180.444.516, emozionatissimo.
“Ecco, volevo sapere come stai messo con la erre. Perché vedi, a me manca”.
“Celò, celò! La erre celò! Con me vai tranquilla, fidati! – oramai G-180.444.516 sentiva la vittoria in pugno, e si lanciò in una serie di guizzi e capriole. C-162 tirò un sospiro di sollievo. La scelta era fatta e le pareva fosse la migliore possibile. Ora poteva cedere con dignità.
“Allora sei tu quello giusto. Entra pure, e diamoci da fare perché c’è molto lavoro”.
Gli altri, gli scartati, rimasero lì fuori a digrignare i denti nel buio, e il buio piano piano se li inghiottì.
Così fu che, nove mesi dopo, spingi e tira, più con le cattive che con le  buone, una domenica sera d’inverno che pioveva e i lampioni striavano di riflessi dorati l’acqua del Canal Grande, nacqui io.
Non ho la deliziosa erre moscia di mia madre né gli occhi chiari o l’orecchio assoluto di mio padre, ma quanto a libri ne ho letti più di tutti e due messi insieme.

A qualcuno piace caldo

Venerdì.

Il caffè era tiepido. Sua moglie Marialucreziafernanda queste cose non le può capire, perché beve solo hag, ma lui, Gianpiergirolamo Paolantoni, sa bene, per lunga esperienza, che un caffè tiepido è il peggiore inizio di giornata che possa capitare a una persona convinta da sempre che la temperatura sia direttamente proporzionale all’effetto stimolante del caffè, e da esso indisgiungibile.
Fuori c’è il sole e non uno straccio di nuvola. La gente per strada indossa già indumenti più leggeri, ma a Gianpiergirolamo Paolantoni non è neanche passato per la testa di tirar fuori la bella giacca nuova da mezza stagione. Perché quel maledetto caffè era tiepido.
Si ingolfa nel solito cappottone da nebbia e esce a testa bassa. Alla fermata, l’autobus è in perfetto orario; all’interno stranamente vi sono dei posti vuoti, ma Gianpiergirolamo Paolantoni li disdegna e sceglie cocciutamente di restare in piedi, perché quando ha in corpo un caffè tiepido ha solo voglia di far dispetti a tutto e a tutti.
Potrebbe entrare nel bar accanto all’ufficio e rimediare con un altro caffè, si intende. Ma non sarebbe la stessa cosa.  È il primo, quello che conta; gli altri, anche se ne prendesse sei o sette durante la giornata, ormai non cancellerebbero più quell’inizio infausto. Gianpiergirolamo Paolantoni compatisce i suoi colleghi che, nel corridoio, lo invitano a unirsi a loro per un caffè al distributore automatico. Quello sarà anche bollente, ma è una fetecchia.
Si chiude nel suo ufficetto e si prepara all’appuntamento con il Cliente Importante. Deve fargli firmare un contratto cruciale per il futuro dell’azienda, ma la vede dura perché la caffeina tiepida non è il carburante giusto per portare a termine l’impresa.
Il cliente arriva puntuale e ottimamente disposto. Non vede l’ora, anzi, di concludere l’affare e di versare un assegno a più zeri, e lo fa senza bisogno di farsi rispiegare tutto daccapo clausola per clausola, affermando di averle lette e approvate tutte. Al momento del congedo ci starebbe bene un caffè, ma Gianpiergirolamo Paolantoni non è dell’umore: una stretta di mano e qualche bofonchiamento sono il massimo che si senta di offrire.
Mentre si appresta a portare il dossier al Capo, gli telefona la moglie.
“Splendida notizia, amore: è tornato il gatto!”
“Ah. Buon per lui”.
“Come, tutto qua? Eri così avvilito che fosse sparito, e adesso non sei contento? Neanche un pochino?”
“Quel disgraziato. Scusa, ma adesso ho altro per la testa – dice, e mette giù. Il gatto sarà anche tornato, ma un caffè tiepido in corpo non aiuta a rallegrarsene e a dimenticare quei tre giorni di apprensione e malinconia, le ricerche in tutto il quartiere, gli incubi in cui gli appariva sfracellato dalle auto sulla tangenziale.
Il Capo è euforico. Deve aver bevuto un caffè bollente, stamattina, lui; infatti lo abbraccia, si congratula, gli offre un sigaro e lo promuove con effetto immediato Direttore Unico del Settore Acquisizioni, il che comporta un nuovo studio panoramico, due segretarie e una bella botta di soldi in più.
“I miei omaggi alla sua signora, e se le serve qualcosa non ha che da chiedere!”
Mi serve solo una macchina per il caffè che faccia il caffè. Che lo faccia caldo, caldissimo, come l’inferno. Così pensa Gianpiergirolamo Paolantoni, ma è troppo giù di corda per dirlo a voce alta.
“Marialucreziafernanda, guarda che oggi non torno a pranzo. Devo raccogliere le mie cose”.
“Ooooohhh, ti hanno licenziato?”
“Mi hanno promosso, e mi trasferisco al piano di sopra”.
“Ma è meraviglioso, amore! –  (Gianpiergirolamo Paolantoni non si spiega come possa essere così elettrizzata una donna che beve solo hag) – Allora stasera ti preparo un pranzetto e festeggiamo noi tre soli, tu, io e Miciomiciomiciolò!”
“Quel disgraziato. Non preparare niente, mi basterà un semolino e forse neanche quello. Stasera avrò senz’altro mal di testa”.

Sabato.

Stamattina il caffè era perfetto. Nero, amaro e bollente, così bollente da far venire prima i brividi e poi un’ondata di travolgente benessere.
Fuori c’è una nebbiolina malaticcia, di quelle che mandano all’aria i programmi del week end e fanno venir voglia di svaccarsi davanti alla tele senza neanche farsi la barba, però il caffè era eccellente e scottava.
Gianpiergirolamo Paolantoni avverte subito la sferzata di energia e buon umore. Alle sette e mezzo sta già smontando la lavatrice; alle otto ha identificato e risolto la vibrazione del cestello, e la sua signora può dare il via al bucato settimanale.
La serranda del garage aveva bisogno di una registrata, e entro le nove l’ha avuta. A Gianpiergirolamo Paolantoni è venuto il colpo della strega, e lui è entusiasta di questa esperienza nuova che finora la vita gli aveva negato.
Per le dieci è a posto anche il tostapane che mandava in corto tutta la casa ogni volta che si infilava la spina.
Alle undici, ora di punta, Gianpiergirolamo Paolantoni si gode la coda alle casse del supermercato e saluta tutti con spirito di fratellanza, anche quelli con carrelli stracarichi che gli chiedono di potergli passare davanti benché lui abbia in mano solo un etto di prosciutto e i croccantini per il gatto.
Al parcheggio qualcuno gli ha strisciato l’auto, ma che importa. Il caffè di stamattina era una goduria, più lo mandava giù e più lo tirava su, che più su non si può, altrimenti si tocca il cielo con un dito.
Marialucreziafernanda ha invitato a pranzo mammina sua, la suocera criticona.
“Non è che ti dispiace troppo, vero?”
“Ma figurati, se non ci avessi pensato tu le avrei telefonato io!”
L’arrosto è bruciato, la torta poco cotta, Miciomiciomiciolò ieri ha mangiato troppo e poco fa ha vomitato sul tappeto buono. L’importante è che sia tornato, il resto sono sciocchezze. Gianpiergirolamo Paolantoni ci ride su: la vita è bella, se il caffè ha la temperatura giusta.
Nel pomeriggio, per tenere calda la schiena indolenzita riordina a fondo la soffitta e la trasforma in una confortevole camera per gli ospiti, casomai la suocera decidesse di farlo felice venendo ad abitare da loro.
La sera a letto Marialucreziafernanda ha mal di testa e non se ne fa niente.
“Vedi, se facessi come me e smettessi di prendere quell’hag da pensionati, conosceresti anche tu il piacere del vero caffè e i suoi effetti anticefalalgici e afrodisiaci”.
Gianpiergirolamo Paolantoni non lo sa che quello di stamattina, il caffè nero, amaro, fortissimo e bollente, era il decaffeinato della moglie. Una semplice e del tutto involontaria inversione di posto dei vasetti di vetro con i due tipi di polvere.
Voi non diteglielo, a quell’uomo felice.