Francine, o la disfatta

Da un quadro una storia:
Edgar Degas – L’assenzio, 1876

Quando avrò pagato quest’ultimo bicchierino di assenzio, in tasca non mi resterà più un solo centesimo. Cuciti nella fodera della borsetta ci sono giusto i soldi per il biglietto di ritorno.
Non era così che doveva andare.
Nella sua lettera, mia cugina Josette mi diceva: “Vieni in città anche tu, ci si fa la bella vita”. Il suo indirizzo corrispondeva a una affittacamere alsaziana di pessimo carattere, e la stanzetta dove cominciai la mia nuova vita a Parigi era quella dove Josette riceveva tre volte la settimana quello che definiva “la sua fortuna”. La fortuna di Josette aveva un nome e un cognome che qui non è il caso di fare, perché appartenevano a un piccolo deputato della Vandea libertino e sposatissimo. Quando arrivava lui, io dovevo lasciare il campo libero, e me ne andavo in giro alla ricerca di un impiego onesto.
Il primo lo trovai come bambinaia presso una famiglia borghese. Avevano una bimbetta da vestire, pettinare e portare a spasso tutti i pomeriggi: non era difficile, e neanche pesante. Tutto andò liscio fino al giorno in cui, a causa di un acquazzone, rincasammo in anticipo sorprendendo la madre in affettuosa compagnia di un uomo che non era suo marito. Ci andai di mezzo io, che venni licenziata sui due piedi. Il lavoro era distinto, la padrona per niente.
Dalla modista a Saint-Sulpice rimasi qualche mese. Mi ero illusa che il mio lavoro sarebbe consistito nell’assistere e consigliare le signore che si provavano cappellini, invece fui relegata nel retro con altre ragazze, a cucire nastri e fiori di stoffa. Solo che io non sapevo cucire, e dalle mie mani uscivano nastri ciancicati e fiori accartocciati. Le velette, poi, tutte storte, e con punti visibili. In compenso, ero circondata dai pettegolezzi delle lavoranti, che rafforzavano la mia idea sulla serietà delle parigine.
Fiori per fiori, provai da un fiorista, ma fu anche peggio. I miei mazzi erano sbilenchi, e nel tempo che ci mettevo a comporne uno, i fiori freschi erano già appassiti.
Al Bistrot Gaulois durai un mese: l’ultima settimana lavorai gratis per risarcire tutti i piatti e i bicchieri che avevo rotto.
Josette si era trovata un nuovo amico, più generoso del deputato, che l’aveva sistemata in una pensione più confortevole. Così ora dovevo pagare da sola l’affitto per quella topaia dell’alsaziana, e cominciai a scendere sempre più in basso, accettando lavori pesanti e umilianti per i quali non ero adatta. Ho spazzato scale e cortili, ho pulito vetrate di negozi, ho grattato con le unghie i fondi incrostati dei pentoloni della mensa per i poveri. L’ultima padrona che mi ha licenziato è stata una lavandaia zoppa che aiutavo a trasportare mastelli pesantissimi pieni di lenzuola fradice. Mi mandò via quando un manico mi sfuggì di mano e rischiai di azzopparle anche il piede sano. Però le facevo un po’ pena, tanto che mi regalò un paio di straccetti per rattoppare gli orli consumati dei miei due unici vestitucci.

L’assenzio l’ho conosciuto al Quartiere Latino. I pittori squattrinati per i quali posavo ne bevevano spesso, sperperando così i soldi che promettevano alle loro modelle. Fare la modella a Parigi non è così romantico come si potrebbe credere. È un lavoro aleatorio, noiosissimo e stancante, e non paga; a meno di diventare la musa di un vero artista, cosa che però non capitò a me. Prendevo freddo in soffitte luride e venivo pagata in modo più che saltuario. L’assenzio mi aiutava a cancellare un po’ dell’umiliazione e a sentire meno la fame. Mi faceva sentire più leggera, più distaccata, meno sensibile. Ultimamente però i suoi effetti sono diventati visibili anche agli altri: l’ultimo pittore che mi ha esaminata ha trovato che il mio corpo valeva la pena di essere dipinto, ma il mio viso aveva un’aria troppo imbambolata, e lui faceva solo ritratti. Ritratti di donne belle e provocanti, non inespressive come me. Aveva ragione. L’assenzio mi faceva male, ma lo cercavo perché sapeva liberarmi, per un po’, dall’obbligo di pensare.

No, non era così che doveva andare.
Stasera mi restano solo i pochi centesimi per quest’ultimo bicchiere, poi scucirò la fodera della borsetta dove tengo i soldi per il viaggio di ritorno. Me li ha voluti dare mia madre quando sono partita, un anno fa. Io la derisi; lei restò serissima. Con quelli tornerò al paese, alla drogheria di mio padre, al caffelatte di mia madre, alle galline del pollaio, alla messa delle sette; cose povere e sempre uguali, ma sicure.
Ho la testa così stanca e il cuore così intorpidito che non faccio più caso se intorno a me è tutto così grigio, come una nebbia sporca, come un bicchiere sudicio e ormai vuoto.
Ancora un sorso, le ultime gocce, l’ultimo brindisi a un fallimento.
Non vedo l’ora di addormentarmi su quel treno.