I salami della Beppina

La saga continua con questo episodio dedicato in particolare a Hombre che c’ha il cuore tenero per le storie ostetriche.

La Beppina quel giorno si era svegliata garibaldina, e di buonora si era messa a ribaltar casa, facendo il bucato, arieggiando i materassi, spazzando da cima a fondo, lustrando i vetri.
Dopo mangiato, poi, aveva attaccato coi salami a testa bassa, e l’Anselmo, chiamato a darle una mano, aveva parecchio brontolato:
“Cos’è tutta ‘sta smania, Beppina?”
Ma lei aveva una missione da compiere:
“Voglio che sia tutto a posto e in ordine per quando nasce la creatura. E poi alle donne incinte il movimento ci fa bene”.
Ora di cena, i salami belli paciocchi sono pronti da appendere in cantina a stagionare, e la Beppina ammette finalmente di avere un po’ di mal di schiena e se ne va a letto presto col suo pancione di otto mesi abbondanti.
Verso le due si sveglia infastidita da qualcosa, un crampo, una sensazione di bagnato. Prima se ne sta ferma ferma nel buio, pensando di tirare mattina senza svegliare il marito; ma i crampi sono forti e parlano chiaro.
“Anselmo, Anselmo… – lo scuote – Anselmo svegliati, c’ho le doglie!”
Anselmo salta su tutto spaventato, che è la prima volta e non se l’aspettava di notte.
“Corri a prendere la Pierina, fai presto, che a occhio si son già rotte le acque – lo spinge la Beppina, che adesso si tiene i fianchi e il dolore è sempre più forte.
L’Anselmo si butta giù dal letto goffo come un cinghiale in trappola, farfuglia frasi di raccomandazione, di conforto, si infila gli stivali e si butta il pastrano sopra il pigiama poi si precipita giù per la scala di legno e via di corsa in strada. È sceso tra l’altro un bel nebbione, che siamo quasi ai Santi.
La Pierina non c’è. Il marito si affaccia alla porta col berretto da notte in testa:
“L’è andata in frazione Borghetto per due gemelli, sarà una roba lunga… – annuncia desolato – Ti conviene provare dal dottore”.
Il campanello del dottore suona a vuoto. Due, tre, quattro volte. Non è in casa neanche lui, Madonna del Carmine. E adesso? La Beppina è lassù da sola, il bambino è un po’ in anticipo, bisogna cercare aiuto, presto!
Le strade sono deserte, le imposte sbarrate, chiusa da un pezzo anche l’osteria, i lampioni radi e scialbi nella nebbia bassa, il selciato brilla di umidità, neanche un cane in giro.
All’Anselmo gli viene in mente una cosa, e fa un tentativo. Non è mai stato lì, ma quand’era ragazzo suo cugino gli aveva raccontato tutto: la corsia rossa, le tende di velluto, i profumi dolciastri, il grammofono. La casetta è in fondo al paese, in una stradina appartata. Picchia alla porta, con la testa in fiamme.
Gli apre la Luisona in persona, imbellettata e stanca, con uno dei suoi abiti da sera un po’ sciupati da tante battaglie. Le fa strano, proprio strano, vedere lì l’Anselmo.
“Toh, chi si vede. Cos’è che vuoi a quest’ora?”
“L’è qua il dottore? – chiede lui tutto affannato.
La Luisona fa una risatina sprezzante:
“L’è qua, l’è qua. L’è di sopra ubriaco patocco che vomita in un catino”.
All’Anselmo ci scappa un’imprecazione, subito redarguita dalla Luisona, che in casa sua non vuol sentire bestemmie.
“E adesso cosa faccio? La Beppina sta per sgravare e non trovo nessuno che ci aiuti!”
“La levatrice?”
“In frazione Borghetto con due gemelli”.
La Luisona non si perde d’animo:
“Stai calmo, vengo io – e si infila il cappottino rosso e anche il cappellino dello stesso colore con una piumetta civettuola. Già sulla porta, dà ordini alle ragazze:
“Virginia, Cesira, una secchiata di acqua fredda e tanto caffè forte, di corsa. Rimettetemi in sesto il dottore e speditemelo dalla Beppina. Ma veloci, eh”.
La Beppina quando si vede entrare in camera la donna del peccato si imbestia subito col marito:
“Mo’ come ti sei permesso? Io quella là non la voglio! – ma subito dopo un crampo fortissimo le toglie il fiato e ricade sui cuscini smaniando.
“Non far la difficile, Beppina, che son qua per aiutarti. Fidati, c’ho una certa pratica – le dice la Luisona, che già prende in mano la situazione.
Tra le gambe della Beppina si affaccia qualcosa.
“Qua ci siamo, la testa sta uscendo – annuncia la Luisona, calmissima e professionale. Poi si rivolge all’Anselmo:
“Portami asciugamani, lenzuola, qualcosa insomma. Puliti, eh. E metti a scaldare un po’ d’acqua – gli ordina.
L’Anselmo va, esegue e torna. La Beppina ormai è in un mondo tutto suo, di dolore e paura, e lui si sente un estraneo impotente e un po’ grullo.
“Metti qua, bravo – dice la Luisona, che intanto sta trafficando tra le gambe della Beppina, le tira su la camicia, le tasta la pancia.
Un altro crampo, un urlo seguito da un lamento lungo che si spegne in un ansito.
La Luisona si alza, va dall’Anselmo, gli mette le mani sulle spalle e lo spinge via:
“Te, fuori. Queste son cose da donne. Resta sul pianerottolo e vieni solo se ti chiamo – gli ordina perentoria.
Da dietro la porta l’Anselmo sente ancora quelle urla, quei guaiti, a intervalli vicinissimi, e la voce roca e rassicurante della Luisona che dirige le fasi misteriose dell’avvenimento.
“Dai che questa è l’ultima, spingi forte, di più, spingi spingi… eccoci! – la sente a un certo punto, e allora non aspetta di essere chiamato, ma entra di botto come il vento, giusto per vedere qualcosa di viscido sgusciare dal corpo di sua moglie nelle braccia della Luisona. Ha il cordone attorcigliato intorno al collo, e per lunghi istanti ansimanti la Luisona lotta furiosamente per sgrovigliarlo. Finalmente ce la fa, ma la creatura è grigiastra e non respira.
“Dammi una forbice, un coltello, qualcosa!”
“Cosa gli vuoi fare? – chiede agghiacciato l’Anselmo.
“Gli taglio il cordone, asino. Ecco fatto”.
La creatura non reagisce. La Luisona massaggia, massaggia, assesta colpetti sulla schiena, si sporca di sangue e siero il vestito rosso, e intanto la Beppina si riprende e mugola chiedendo del suo bambino.
“Ė una femmina – comunica la Luisona senza smettere di rianimare, ma la piccola ancora non respira.
“Acqua calda e acqua fredda. Due catini. Di corsa! – ordina a questo punto.
Poi, ispirata da qualche dio, immerge il corpicino alternativamente nell’uno e nell’altro, freddo, caldo, freddo, caldo, tre, quattro, più volte, sperando di scatenare qualcosa.
“Sentite, io per sicurezza direi di battezzarla subito – dice schietta a un certo punto – Com’è che la chiamate?”
“E chi è che la battezza? Dovrò mica andare a chiamare anche il prete? – sgrana gli occhi l’Anselmo, impietrito.
“In caso di pericolo di vita, può battezzare chiunque, asino – la voce della Beppina, dal letto, è esausta ma ferma e ragionevole.
“Luisona, battezzamela tu. Si chiamerà Flora – aggiunge, e alla Luisona le vengono le lacrime agli occhi.
“Nel nome del Padre, Figlio e Spirito Santo amen”.
“Amen”.
“Amen”.
E ecco, la neonata getta il primo vagito, e poi attacca un pianto urlato a pieni polmoni e stringe i pugnetti e protesta vivamente contro i metodi empirici e poco riguardosi che hanno permesso la sua venuta al mondo.

Flora, nata, rinata, battezzata, lavata e avvolta in panni caldi, è adesso in braccio alla mamma, a sua volta cambiata, ripettinata e raddolcita.
L’Anselmo, ancora stravolto ma adesso per la felicità, accompagna giù la Luisona.
“Come posso… – inizia a chiedere, ma lei lo ferma subito.
“A posto così, non ti preoccupare – e se ne va nelle sue scarpe rosse da maitresse, scontrandosi nel viottolo col dottore che arriva solo ora, i capelli bagnati e il passo un po’ rigido.
“Le manderò dei bei salami – pensa l’Anselmo – I salami della Beppina”.
Poi gli viene in mente che mandare salami alla tenutaria di un bordello non è mica tanto di buon gusto, e ripiega su una dozzina di bottiglie di vino novello.

* * *

Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
Dario con Lisa Borletti
Dario con Turi Pappalardo
Dario con Lucevan li occhi suoi più che la stella
Gordon Comstock con Il peccato più grande
Fulvia con Biancaneve
Hombre con Present continuous
Gabriele con Cave cave Deus videt
Angela con Pensiero stupendo
Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi
Pendolante con Generazioni
Michela con Apple
Cielo con Il pantone. Altro che rosso
Lillina con Iago
Hombre con I primi nove venerdì del mese
Calikanto con Tabarin
La Donna Camèl con La casa rossa
Leuconoe con Sogno di un pomeriggio di mezz’autunno
Marco con Il treno rivelatore
Kermit con Aspettando Geova
Singlemama con La Messa della domenica

Mille papaveri rossi

Se avete letto il post precedente e vi siete chiesti mo’ chi è sta Gisa, qui sotto ve lo racconto.

La Gisa era una brava ragazza, in paese lo sapevano tutti. Una seria, onesta, che andava dritta per la sua strada senza grilli per la testa né debolezze. E queste doti nel suo caso erano ancora più luminose perché, oltre al resto, la Gisa era anche bella, bella proprio come un’attrice del cinema. Con quei capelli mossi naturali, gli occhi profondi, la bocca rossa, il corpo morbido sopra e sotto una vita stretta da ragazza, le gambe belle da guardare anche se portava zoccolacci o scarponi. Due vestiti solo, aveva: quello a fiori per l’estate e quello nero per l’inverno, e li teneva per la domenica. Per i lavori nei campi si metteva un paio di pantaloni frusti e una camicia vecchia di suo papà, e vangava e trasportava fascine come un uomo. La domenica lavava tutto nel mastello e stendeva nell’orto. Gli uomini le riservavano sguardi eloquenti e bisbigliavano tra loro, ma nessuno aveva il coraggio di mancarle di rispetto, anzi tutto il paese provava nei suoi confronti un sentimento di ammirazione e protezione.
La Gisa era una brava ragazza e portava addosso un’espressione ardita e severa, soprattutto per nascondere la disperazione. Suo marito glielo avevano ammazzato i tedeschi che era sposata da tre mesi, neanche il tempo di restare incinta. E lei, dal gran dolore, aveva deciso di mettersi con i partigiani. Gli portava notizie e rifornimenti su per la montagna, arrampicandosi per la mulattiera con gli scarponi e lo zaino. Quel che le chiedevano di fare, lo faceva senza batter ciglio, come se non le importasse rischiare, o magari come se non avesse il minimo dubbio sulla necessità di farlo. C’aveva paura di niente, la Gisa.

Nella baracca c’erano tutti: il Gufo, il Ciuca, il Manassa, l’Anselmo… tutti. Era buio, notte di luna nuova e nuvole strappate che lasciavano intravedere solo due o tre stelle nebbiose.
Di fuori grida una civetta, due volte, poi altre due.
“La Gisa! – avverte l’Anselmo, e gli uomini si alzano e prudentemente impugnano le armi, casomai sia una trappola.
Invece eccola, è la Gisa che si fa riconoscere e sguscia dentro, col respiro ancora accelerato dall’ultimo pendio. Tutti  la guardano, e sono tesi perché se lo aspettano quello che deve dire, se lo aspettano da giorni.
“Un camion e due jeep, dieci uomini in tutto, partono dalla Certosa a mezzanotte”.
È questo il messaggio stringato e drammatico della Gisa.
Poi si avvicina al tavolo e svuota lo zaino, mentre gli uomini cominciano a parlare tra loro, a fare conti.
“A mezzanotte dalla Certosa, vuol dire che scollineranno alla Forcola verso le due – ragiona l’Anselmo.
“Tagliando per la Pratona, di buon passo siamo là in un’ora – assicura il Gufo.
Gli uomini si guardano cercando ognuno nello sguardo dell’altro una conferma alla propria determinazione.
E intanto la Gisa rovescia sul tavolo sigarette e salami, e dallo zaino estrae con cura due fiaschi.
“Il vino da parte dell’arciprete – annuncia seria – Le sigarette invece ve le mandano le ragazze della Luisona”.
“Ragazzi – dice l’Anselmo con voce grave – se volete scrivere due righe alle famiglie e darcele alla Gisa vi do un quarto d’ora, che poi si parte”.
In silenzio, con gli occhi stretti, tutti si appartano negli angoli con un pezzo di carta, passandosi un mozzicone di matita dopo aver scritto gli ultimi saluti. Cara mamma, cara moglie, mia bella Ninetta.
Solo uno, il più giovane, prende la porta e esce nel buio. L’Anselmo e la Gisa si guardano.
“Cosa l’ha il Muccino?”
“È la prima volta. Avrà paura”.
Il Muccino è la recluta, sedici anni, lo chiamano così perché i bambocci hanno sempre il moccio al naso. Ma anche gli uomini fatti hanno paura prima di andare in azione.
La Gisa le si stringe il cuore, ma vuol far vedere che è una di loro, una combattente, e mantiene in faccia un’espressione dura:
“Vado a parlarci io – dice.
Fuori è buio e fresco. Il Muccino è solo un’ombra più nera accoccolata su un masso sotto un cielo immenso e invisibile.
Parlano un po’, poche parole strette, la laconicità dei soldati.
“Non ho paura. Solo che non ho voglia di morire troppo presto – chiarisce il Muccino, e in effetti sembra più arrabbiato che spaventato.
La Gisa si stringe sulle spalle la giacchetta di suo marito, pensando che nessuno può capire meglio di lei quello che sta succedendo al ragazzo. Dovrebbe essere a casa, nel suo letto, con i genitori che parlottano serenamente in cucina, con i libri di scuola ancora aperti sul tavolo, con il pallone da calcio dentro l’armadio, la canna da pesca appoggiata al muro nell’angolo.
“Vieni un po’ qua – gli dice, e lo prende per mano, lo conduce fra i cespugli, lo attira a terra, se lo fa stendere accanto. È col suo corpo che gli impartisce il battesimo del fuoco.

È mattina presto quando il Tobia sfreccia in bicicletta davanti alla casa della Gisa che sta dando il mangime alle galline e le fa un gesto vittorioso, che significa “Missione compiuta, tutti salvi!”
La Gisa stringe le labbra e si sente il cuore ballare in petto. Stanotte poi non ha mica dormito, è stata sveglia a girarsi nel letto aspettando mattina per sapere qualcosa. Ora che la notizia è arrivata, può fare il resto.
Si mette il vestito della domenica e prende la strada del camposanto.
“Faustino non so neanch’io cosa dirti. Lì sul momento ho sentito che era la cosa giusta e l’ho fatto. E ancora adesso non sono mica pentita. Poi se per qualcuno è peccato, pazienza”.
Il viottolo sassoso è in lieve pendio, la Gisa si sente leggera e salta da un ciottolo all’altro come se guadasse un torrente. A quell’ora la campagna ha un odore buonissimo, la vita un sapore di pane appena sfornato.
Il tedesco intrappolato dietro le linee sbuca fuori da un fosso come un topo incarognito. Ha un’arma in mano e una faccia feroce da affamato.
La Gisa si blocca, intercetta lo sguardo allucinato che le fruga il corpo e capisce tutto. Ma come il Muccino non ha paura, è solo molto, molto arrabbiata.
L’uomo si avvicina col respiro grosso e gli occhi arrossati.
“Ah no, eh, a te non te la do! – esclama la Gisa con forza, esasperata, sprezzante. Non ne può più, è sempre la stessa storia. E mo’ basta, eh.
Improvviso, un mazzo di fiori rossi le fiorisce sul petto: uno, due, dieci, un’unica chiazza, un macabro bouquet da sposa.
Cade sul ciglio, gli occhi rivolti alla chioma dei pioppi, al cielo intrecciato fra i rami più alti. Sempre più bianco, sempre più bianco.

L’han sepolta nel suo abito da sposa, han gettato sulla tomba mille papaveri rossi.

*   *   *

Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
Dario con Lisa Borletti
Dario con Turi Pappalardo
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Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
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Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi
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Cielo con Il pantone. Altro che rosso
Lillina con Iago
Hombre con I primi nove venerdì del mese
Calikanto con Tabarin 
La Donna Camèl con La casa rossa
Leuconoe con Sogno di un pomeriggio di mezz’autunno
Marco con Il treno rivelatore
Kermit con Aspettando Geova
Singlemama con La Messa della domenica

Red velvet

Quinta ginnasio, quest’autunno sono passata dai calzettoni alle calze di nylon, ma per il resto poco è cambiato: cerchietto fra i capelli, gonna scozzese a pieghe e si esce solo il sabato pomeriggio, ma entro le sette a casa.
Con i compagni si va al cinema: il biglietto si porta via quasi tutta la paghetta, ne resta sì e no per un astuccio di caramelle. Sono sempre i maschi, vocianti e sguaiati, a decidere cosa si va a vedere, e sono sempre film western o d’azione quelli che scelgono. Noi femmine ancora non conosciamo il potere innato di influenzarli, e li seguiamo un po’ passive. Col nostro pezzettino di carta in mano passiamo sotto il controllo dell’addetto, che finalmente scosta la cortina di velluto rosso che per noi rappresenta una specie di frontiera iniziatica da varcare col batticuore, e ci lascia entrare nella sala. Occupiamo un’intera fila tra le ultime, sparpagliando cappotti e ombrelli e spintonandoci come a ricreazione. I maschi cominciano subito a mimare le scene, simulando sparatorie e scazzottate e disturbando tutti mentre noi ragazze, annoiate, sbucciamo caramelle fino a riempirci la bocca di un sapore di saponetta che se ne andrà via solo l’indomani.
Per tutto l’inverno va così, il sabato a fare gli spacconi al cinema e la domenica a studiare greco e latino.
Verso primavera si sono formate alcune maldestre simpatie, e la fila si sgrana: un paio di coppiette si siedono più in là e guardano il film le mani nelle mani, gli occhi lucidi di emozione nel buio della sala.
Quando esce Il dottor Zivago, noi femmine ci coalizziamo e per una volta riusciamo a imporci. Il film è corposo, le balalaike spezzano il cuore, i paesaggi ipnotizzano. Quando Yuri, sotto una tormenta di neve, scorge da lontano tre figure e le raggiunge, stremato, per scoprire che non sono i suoi cari ma tre estranei, i maschi hanno un bel ridacchiare, ma sono commossi anche loro.
Stella si è appartata due file dietro, nell’angolo più oscuro, con Sergio della 1A. Quando usciamo è molto tardi perché il film è lungo, e abbiamo tutti i volti in fiamme, ma i suoi occhi sono i più lucidi, sul suo viso le chiazze rosse sono le più rosse. Mi prende per il braccio e mi chiede di accompagnarla alla fermata.
“Se ti dico una cosa, mi prometti di tenere il segreto?”
“Certo”.
E lei, mentre ci affrettiamo verso la fermata dell’autobus, continua:
“Sai, io e Sergio…”
“Sì?”
“Io e Sergio…”
“Vi siete baciati? È questo che volevi dirmi?”
Ho ancora uno strano calore alla nuca al ricordo dei baci di Yuri e Lara, immagini così vivide e in primissimo piano da mettere in imbarazzo.
“No, di più”.
“Di più cosa?”
Lei non risponde, e io sento il cuore che parte in una tachicardia molesta.
“Avete fatto l’amore? – chiedo, con una voce che non riconosco come mia perché ha pronunciato per la prima volta una frase proibita, da adulti, nebulosa nel contenuto ma intimamente perversa. L’amore che conosco è quello di Giacomo per Silvia o di Didone per Enea, incorporeo, pudico, fatto di parole sublimi che si fermano sull’orlo di un abisso recondito. E le ragazzine per bene si fermano anche loro, perché è ancora troppo presto per saperne di più.
“Non proprio, ma quasi. Gli ho fatto quella cosa che sai – rivela Stella, che sembra non vedere l’ora di vuotare il sacco.
Solo che io non lo so proprio, non immagino nemmeno lontanamente cosa possa essere quella cosa di cui parla.
“Ma sì che lo sai, quella cosa che piace tanto ai ragazzi… Dai, non puoi non saperlo, non puoi essere così ingenua! – e ridacchia, ma male.
Arriva l’autobus, lei mi stacca e lo prende al volo, raccomandandomi ancora il segreto.
Torno a casa frastornata e febbricitante, con la sensazione di aver offerto un’inetta, inconsapevole complicità a qualcosa di orribile, una colpa abbietta, un peccato immondo.
Ma il segreto, che con me è al sicuro perché non l’ho capito, è anche nelle mani di quel bastardo di Sergio, che non ha perso tempo a vantarsene con mezzo mondo, così finalmente ci arrivo anche io, da mezze frasi, battute spinte e disegnini osceni che girano tra i banchi il lunedì alla prima ora.
Stella, come al solito in ritardo, fa il suo ingresso in classe con una nuova spavalderia, guardando dalla parte dei maschi con un’aria provocante e da quella di noi femmine con un sorriso di superiorità. Io sono rossa come il fuoco e provo un odioso formicolio su tutto il corpo. Quando mi si siede vicina mi scosto e evito ogni contatto. Presto si rende conto che anche le altre l’hanno giudicata ed esiliata, e il suo trionfo si smonta in un bagno di vergogna che la consegna, del tutto indifesa e indifendibile, al dileggio volgare dei maschi.
La compagnia si disgrega, il sabato non ci si incontra più sotto i portici. Ognuno trova altri giri, altri legami, e la breve stagione dell’innocenza si stempera altrove, cercando di dimenticare il modo increscioso con cui si è conclusa.

Ho diciotto anni, porto i collant di Mary Quant e ho un ragazzo a posto, terz’anno di lettere, che il sabato pomeriggio fa il catechista. Mia madre lo approva perché è serio e di buona famiglia.
Usciamo la domenica e passeggiamo, passeggiamo tanto. Lui mi bacia su una panchina al parco e mi scalda le mani. Al cinema non andiamo mai.
“Perdonami, ma soffro un po’ di claustrofobia – mi ha spiegato tutto spiacente e confuso.
E io l’ho abbracciato forte rispondendogli:
“Anch’io, anch’io!”

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Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
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Angela con Pensiero stupendo
Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
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