Kate G.

(dedicato a Kate Gompert, per chi la letto Infinite jest)

Quando riapro gli occhi c’è mia madre seduta in fondo al letto.
Ė tanto che non ci vediamo. Non mi sembra cambiata: è sempre la stessa, anche quando è seduta su una sedia scomoda in fondo a un letto in ospedale pare appena uscita dal parrucchiere e in procinto di raggiungere le amiche in centro.
“Ti sei svegliata, finalmente – dice.
Quello che non dice è:
“Era ora, così adesso posso andarmene”.
E quello che invece avrebbe dovuto dire è:
“Come stai?”
Ma non posso aspettarmelo da lei, e quindi con gran fatica (ho le labbra secchissime) lo chiedo io:
“Come sto?”
“Come stai tu? Come sto io! – esplode durissima, e si alza dalla sedia e invece di venirmi vicina si mette a fare su e giù nella stanza, stringendo i pugni e scuotendo la testa.
“Hai ragione. Come stai, mamma? – chiedo debolmente.
Si ferma a capo del letto e inizia a pontificare agitando le braccia:
“Come sto? Come sto? Sto come una che ogni volta che squilla il telefono pensa ecco è la polizia, ecco è l’ospedale, ecco è l’obitorio… ecco come sto. Sto come una che… non so più neanche io come sto, ecco come sto!”
Chiudo gli occhi ma lacrime ne scivolano fuori lo stesso.
“Mamma, non è come credi, ti posso spiegare… ti posso spiegare? – mormoro.
“Non c’è niente da spiegare. Non mi prendi più in giro, tu. L’hai rifatto, e anche stavolta te la sei cavata. Non c’è altro da aggiungere. Cosa vuoi spiegare? Tu, a me? Ma per favore, lascia stare”.
Raccoglie la borsetta, si rimette il cappottino distinto e si avvia decisa alla porta.
“Ti mando l’infermiera. Spiegalo a lei” – e così se ne va.

L’infermiera arriva subito con i suoi zoccoletti silenziosi, la linda casacca verde, un sorriso umano. Mi dà un buongiorno radioso come se fosse venuta ad alzarmi per andare a scuola in un qualsiasi, soleggiato mattino di primavera. Mi fa delle domande familiari mentre mi controlla la flebo al braccio e la medicazione alla testa; ha mani leggere e tiepide, la sua presa sul mio polso è rassicurante.
“Bene, direi che ora dovresti avere fame. Che ne dici di una bella tazza di tè con qualche biscotto? E più tardi ti aiuterò a sedere in poltrona. Non provarci da sola, mi raccomando: potrebbe girarti la testa”.
Com’è premurosa, com’è normale.
“Aspetti – la fermo – Volevo dire qualcosa, Beh però adesso non mi ricordo più cosa… no no, aspetti, ecco. Volevo sapere come sto”.
E lei (non mi sembra vero) mi risponde:
“Adesso stai bene, è tutto a posto. Ci stiamo prendendo cura di te e tu non devi pensare a niente altro”.
“Ma io volevo spiegare – insisto puerilmente, e cerco di sollevarmi sul cuscino ma la testa sembra troppo pesante.
“Non l’ho fatto apposta, deve credermi. Mi sono trovata nelle circostanze, e ho dovuto farlo. Ho dovuto, capisce? Ė stata legittima difesa. O io o lei. Non ce la facevo più, provi a mettersi nei miei panni, con una che mi capita in casa a ogni ora, quando le pare, e ci fa i suoi comodi per tutto il tempo che vuole. Anni che la sopporto, che la subisco…”
“Stai parlando di tua madre? – mi chiede addolorata.
“No, mia madre non c’entra, mia madre non viene neanche mai a trovarmi. Sto parlando di Kate. Non la sopportavo più. Mi toglieva la libertà, l’aria, tutto. Mi entra in casa, si siede in salotto, oppure mi segue in cucina, in giardino, perfino in bagno, e parla, parla, parla. Parla così tanto e di cose così assurde che mi fa venire la nausea, mi gira la testa, mi si stringe il petto e dopo un po’ vedo tutto nero. Mi manca l’ossigeno. Sento il pavimento diventare molle sotto i piedi come se si stesse aprendo una voragine, e intanto il soffitto si abbassa e le pareti si accartocciano, e io resto asfissiata. Ma lei queste cose non le capisce. Gliele ho dette tante volte, o perlomeno ogni volta che mi ha lasciato parlare. Non mi ascolta, parla sempre lei. Oppure il contrario: viene ma sta zitta tutto il tempo. Mi guarda e sta zitta. Mi guarda dall’angolo dello studio, dalla portafinestra, dall’armadio, dall’oblò della lavatrice, dal pianerottolo delle scale. Ho imparato che per togliermela dai piedi devo inventare una scusa, e così fingo di addormentarmi. Ma non ci riesco, non ci riesco! Lo sa da quanti mesi non dormo?”
L’infermiera si è seduta sul bordo del letto, e mentre farnetico mi liscia piano i capelli dietro le orecchie.
“E non potevo nemmeno denunciarla, capisce, perché con la polizia ho un conto in sospeso, una piccola cosa di droga. Ma adesso le giuro, sono pulita da due anni, due interi anni senza, due anni duri e puri, e nessun rimpianto. Non fumo più, non mi faccio più, non bevo nemmeno alcolici. Rigo dritto.”
“Lo so, cara, lo so: i tuoi esami del sangue parlano chiaro, sei una brava ragazza – mi rassicura, carezzandomi maternamente.
“E allora ieri non ce l’ho fatta più, capisce. Perché mi hanno licenziata per colpa sua, e adesso è veramente troppo. Mi hanno licenziata perché Kate ormai veniva a trovarmi anche sul lavoro e mi costringeva a chiudermi in bagno con lei per discutere, ma i colleghi sentivano la mia voce agitata, a volte gridavo, o singhiozzavo, e si sono spaventati, e hanno cominciato a tenermi d’occhio e qualcuno si è accorto che non facevo bene il mio lavoro, che certi giorni scappavo via prima dell’orario o non mi presentavo per niente. Perché se non dormo non ho neanche più la forza per lavorare, capisce? Capisce cosa mi ha fatto? Mi ha rovinato la vita. E io cosa dovevo fare? Ieri ero sfinita. Ero agli sgoccioli. Non avevo neanche aperto le finestre, né mi ero fatta la doccia, e non avevo mangiato da almeno tre giorni. Lei è venuta lo stesso. Una lite furibonda con l’ultimo fiato che avevo in corpo. Niente, lei rideva, mi prendeva in giro, faceva apposta a restare lì per tormentarmi. Allora l’ho afferrata per i capelli (la sua bocca rideva, rideva!) e ho cercato di sbatterle la testa contro il muro per farla tacere. Forse volevo ucciderla, chi può dirlo. Non ero nelle condizioni di sapere nemmeno io cosa stavo facendo. Ma lei è più forte, lei è agile, lei è piena di salute e di energie, e si è divincolata facilmente, così è stata la mia testa quella che ha sbattuto sul muro. E mentre stavo svenendo nel mio sangue, Kate ancora rideva”.
Ora taccio, chiudo gli occhi, ho detto tutto, ho rivissuto l’incubo. E non so se mi ha fatto bene o male.
“Povera piccola – mi sussurra l’infermiera, avvicinando il suo viso al mio per asciugarmi le lacrime con una garza.
Sento il calore del suo corpo vicinissimo, è un corpo morbido, materno, addestrato al dolore e alla consolazione. Mi sento morire e poi rinascere quando mi abbraccia, stringendo la mia testa malata contro il suo grembo vestito di verde. Lì dentro c’è un utero accogliente e sicuro, un’incubatrice ovattata, il guscio della vita. Mi anniento in questa illusione.

“Dottore, la ragazza della stanza 8, Kate, si è svegliata. Parametri tutti a posto. Se vuole andarla a vedere, c’è un bel po’ da fare”.

*   *   *   *   *   *

Questo racconto contiene qualcosa di verde e qualcosa di inespresso, e pertanto partecipa all’eds della Donna Camèl insieme a:
Opera numero 1 di Angela
La sciarpa di Michele
O’ nipote mascalzone di Hombre
A proposito della Prinz verde di La Donna Camèl
Fili spezzati di Lillina
Consigli di Dario
Onda verde di Calikanto
Due distinti signori in completo elegante di Gabriele
Cambiamenti cromatici di Pendolante
L’ego di Dio de Il Pendolo
Il primo viaggio insieme di Gordon Comstock
La scatola verde di Singlemama
Il dormiente di Pendolante 

Telefono casa

E, insomma, io mi sarei rotta.
Questo posto è troppo grande per me sola, e poi è troppo isolato. Per carità, è comodo, con tutti i ritrovati più moderni, tipo che per alzare o abbassare le tapparelle basta premere un tasto, idem per regolare la luce. Coibentazione perfetta, climatizzazione regolabile al millesimo di grado, arredo minimale grazie a armadi e armadietti incassati, un posto per ogni cosa, ordine assoluto e niente impicci in giro. Filodiffusione e televisori in ogni locale; perfino una piccola palestra e un solarium. La vista poi è impagabile, panoramica a 360 gradi, e la zona è tranquillissima, un paradiso.
Però anche il panorama a lungo andare stucca, e fare cyclette da sola mi fa uscire pazza, e questa cosa che non posso neanche svagarmi spolverando perché degli efficientissimi aspiratori nascosti lo fanno al posto mio mi sta facendo sentire inutile.
Certo, con tutta questa tecnologia un guasto è sempre in agguato, e allora sono cazzi, perché hai voglia a trovare un elettricista da queste parti. Per fortuna ho studiato ingegneria elettronica, come voleva mio papà che era un umile meccanico ma bravissimo, e con schede e circuiti me la cavo abbastanza. Per esempio, quando la cyclette è impazzita o il termostato della dispensa è andato in corto.
Qua ce ne sono spesso, di piccoli guasti da riparare. Adesso per esempio tocca alla parabola: ultimamente fa qualche scherzo, gli schermi si riempiono di neve, l’audio impazzisce. Inutile, devo pensarci io.
Prendo la mia cassetta degli attrezzi superfornita, mi copro bene e esco, perché la centralina è sul tetto.
Svito, smanetto precisa e delicata, collego il tester, correggo di qualche mezzo grado, eseguo una seconda diagnosi, aspetto qualche istante… ed ecco, la lucetta verde si accende, bella brillante e sicura. Evvai Molly, mi dico, anche stavolta hai fatto tutto da sola. Sei la migliore, sei.
Peccato che al momento di rientrare la manopola non gira. Provo, riprovo, è sempre stato un movimento semplice, ma stavolta non vuole saperne. No, dai, vuoi vedere che si è incastrata una linguetta e sono chiusa fuori? E ora chi chiamo, che non ho vicini di casa e per di qua non passa mai anima viva?
Provo con la chiave W8.3, la più robusta del mio equipaggiamento, ma so già che per girarla ci vuole una forza che non ho. La forza di un uomo, ci vorrebbe. E infatti non si smuove di un pelo, i polsi mi fanno male e comincio a sudare.
Mi viene da piangere. Mi viene da arrabbiarmi. Mi viene da pensare che col cavolo che rinnovo il contratto alla scadenza, ma mancano ancora sei mesi, accidenti a me. Sei mesi, e dopo chiudo bottega, cambio vita, mi cerco una casetta su misura, vecchiotta, con un giardinetto, un gatto, delle belle tendine alle finestre, una collezione di caffettiere sulla mensola del camino. Mi immagino la mattina in accappatoio aprire la porta per raccogliere il giornale e il latte e salutare la mia vicina che fa altrettanto in vestaglia. Mi immagino uno steccato verde, un droghiere in fondo alla strada, una biblioteca a due isolati, un caffè dove trovarmi con le amiche, il mercatino dell’usato ogni prima domenica del mese, le riunioni del circolo dell’uncinetto il giovedì pomeriggio. Un letto con una trapunta patchwork, una radio in sordina mentre inforno biscotti per Natale, le campane la domenica mattina. Mi immagino una vita di provincia deliziosa e un po’ pettegola, tra parrucchiera e supermercato. Sei mesi, dannazione, sei mesi. E intanto io qua fuori comincio ad ansimare.

Toh, guarda guarda guarda… e chi se lo sarebbe mai aspettato?
Un veicolo passa, rallenta, si ferma.
Oddio, veicolo: più che altro un trabiccolo, un po’ come il triciclo del gelataio che passava d’estate al villaggio.
Il tipo alla guida si affaccia, intuisce che c’è un problema e mi chiede se c’è bisogno di una mano.
Oddio, chiede: non l’ho visto parlare, direi più che altro che gli ho letto nel pensiero.
“Anche due! – esclamo riconoscente.
Allora meglio quattro – gli leggo nel pensiero, mentre ammicca simpaticamente.
Dà un’occhiata competente, annuisce, concorda con me che si tratta della linguetta e in men che non si dica riesce a ruotare la manopola bloccata solo le mani e senza sforzo apparente. La porta si apre liscia come l’olio, e con un fruscio rassicurante.
Lo invito a entrare, vorrei offrirgli qualcosa, ma lui si schermisce (“Come accettato, non si preoccupi“) e intanto si guarda intorno e scopre un groppo di fili che penzolano da un quadro elettrico, poi un pannello del riscaldamento che vibra, una guarnizione della doccia logora e altre due o tre magagnette che ho sempre rimandato di sistemare.
Le sistema lui, tutte quante una dopo l’altra, senza attrezzi, con la massima semplicità, fischiettando.
Non so come sdebitarmi, davvero – gli dico imbarazzata al momento del congedo.
E di che? Se non ci si aiuta tra noi… – mi sorride e se ne va.
Oddio, sorride: la bocca non ce l’ha.
Ma ha due mani d’oro.
Oddio, d’oro: verdi.
E non due: quattro.

*   *   *   *   *   *

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Un mare d’erba

(Vincent Van Gogh: Campo di grano con cipressi, 1889)

Gli dissero di restare sulla soglia, ma era superfluo, perché Jacob conosceva le regole.
Un uomo alto accanto alla finestra dava le spalle alla stanza e guardava fuori, ma anche questo era superfluo dato che non c’era altro da vedere che il grigio del muro di fronte.
L’altro uomo prese un foglio dalla scrivania e lo diede a Jacob:
“Metti una croce qui”.
“So scrivere – mormorò Jacob, e firmò per esteso, lentamente, le dita troppo gonfie e indurite per condurre bene la penna.
Poi gli sbatterono sul petto un fagotto e un altro pezzo di carta:
“Le tue cose. E il lasciapassare”.
La porta si richiuse. Non ci furono saluti, e del resto nulla sarebbe stato più superfluo. Per tutto il tempo, l’uomo alto non si era mai girato e non aveva aperto bocca. Jacob si incamminò lungo il corridoio, nella direzione opposta a quella da cui era venuto.

La strada era una cicatrice di fanghiglia gelata nella vastità della neve. Tutt’intorno solo bianco e piatto a perdita d’occhio; e il colore del cielo era di un bianco solo un po’ più sporco. Il freddo non poteva nemmeno essere descritto, era il padrone di quel mondo, era l’unica condizione conosciuta, e in quanto tale, cioè ineluttabile, Jacob aveva imparato a domarla. Era lui stesso parte di quel gelo. Camminavano insieme.
Per verificare il contenuto del fagotto, attese di essere abbastanza inoltrato nel cammino da non rischiare di essere spiato da qualche torretta. La sua dignità glielo imponeva. Frugò tra gli stracci e vide subito che non era roba sua: forse era appartenuta a qualcun altro che era morto. Avvolto in un brandello di lana scoprì un frammento di sapone. Non c’erano né il suo orologio, né i soldi, né le scarpe foderate di pelo. Si chiese se avesse mai posseduto veramente tutto ciò, o se fosse solo un falso ricordo generato nelle notti insonni. Ripiegò gli stracci e decise di accettarli in memoria di quel morto senza nome cui non sarebbero più serviti.
Sul foglio c’era scritto che poteva viaggiare su un treno senza pagare il biglietto. Validità quindici giorni. C’erano anche altre cose scritte sul foglio, sigle e timbri rossi e blu. C’era il suo nome e la data del giorno. La fissò a lungo, perché era un mistero che solo ora gli si svelava. Ripiegò anche il foglio e lo seppellì in tasca.
La città distava forse una trentina di chilometri. Cominciò a intravederne il profilo irregolare verso metà giornata. Lungo la strada non aveva incontrato nessuno, non aveva avvertito alcun odore né veduto alcuna forma di vita. Entrò in città da un quartiere di stamberghe grigie, dove la neve si scioglieva in rigagnoli scuri. Incrociò gente taciturna e miserabile, che non si voltava a guardarlo. Di molti non avrebbe saputo dire se fossero uomini o donne, giovani o vecchi. Anche loro, come lui, erano coperti di pastrani dimessi, rattoppati, insufficienti; anche loro, come lui, probabilmente non li toglievano nemmeno per dormire. Il fumo che usciva da rari camini aveva uno strano odore, certo non buono, certo non di legna.
Si addentrò nella città cercando la stazione. Era una stanza puzzolente dal pavimento lurido; in un angolo, un gruppo di mendicanti attorniava un braciere avaro. Dietro il vetro giallastro dello sportello, un giovane rivoluzionario strava leggendo un librone. Jacob gli chiese quando sarebbe passato il prossimo treno.
“Dove devi andare? – gli chiese a sua volta il ragazzo.
Jacob glielo disse, ma l’altro non riconobbe il nome. Jacob citò altre località vicine, ma anche queste suonarono sconosciute al giovane. Erano i posti dove era nato e cresciuto, dove aveva prima studiato e poi insegnato a sua volta. Ora pareva non esistessero più, non fossero mai esistiti. O forse, semplicemente, avevano cambiato nome.
“Voglio andare a sud – decise Jacob.
“La linea va da est a ovest. Niente sud”.
“A est cosa c’è?”
“A est non c’è niente. C’è il confine”.
“Allora andrò a ovest. Quando passa il treno per andare a ovest?”
“Non lo sappiamo. Potrebbe essere domani, o fra una settimana. Tu prova a tornare qua ogni tanto. Hai un lasciapassare, suppongo”.
Jacob ripensò a quel foglio stropicciato con quelle sigle lugubri, quei timbri minacciosi, e rispose di no.
“Allora la prossima volta porta i soldi per il biglietto – lo ammonì il giovane, guardandolo con un ghigno cattivo. Aveva capito.

Tutte le mattine tornava a chiedere notizie. Non ne otteneva. Allora usciva nelle strade in cerca di cibo e denaro. Il primo giorno si accodò a una fila di diseredati che attendevano una ciotola di minestra davanti a una caserma diroccata. Jacob ebbe la sua razione; la allungò con un pugno di neve per farla durare più a lungo, e il tozzo di pane lo infilò sotto la maglia per conservarlo. Non mangiava da ventiquattr’ore. Si preparava a mangiare poco o nulla per chissà quanto, tutto il tempo che sarebbe durato il viaggio.
In un camposanto dalle antiche lapidi divelte c’erano dei morti da seppellire, ma il terreno era troppo ghiacciato. Jacob offrì le proprie braccia per un po’ di cibo, e in tre giorni scavò le fosse necessarie.
“Sei forte – gli disse il becchino.
Un vecchio con un braccio amputato non riusciva a riparare la porta della sua casupola. Jacob barattò mezza giornata di lavoro con due cipolle.
“Ci sai fare – gli disse il vecchio.
Appena fuori dall’abitato stavano lavorando a un ponte pericolante.
“Non assumiamo nessuno – lo avvertirono ringhiando.
“Non voglio soldi – disse lui – Mi basta qualcosa da mangiare”.
Sapeva fare tutto, spaccare pietre, costruire muri, trasportare pesi. Mangiava lentamente minestre allungate con la neve, e nascondeva il pane secco sotto gli stracci che lo coprivano. Faceva così provviste per il viaggio su quel treno che non arrivava mai. Gli mancava un acciarino, e questa divenne la sua principale ossessione. La notte dormiva nella stanza puzzolente della stazione insieme ai mendicanti, tutti nell’illusione che il braciere spento rilasciasse ancora un impercettibile tepore; dormiva con un occhio solo per non mancare l’eventuale passaggio di un treno, e intanto pensava a quell’acciarino che non aveva.
Lo ottenne in cambio delle strisce lise di pelo tarmato che staccò, con cupa pazienza, dal collo, dai polsi e dall’orlo del pastrano.

Scavava nei pressi della ferrovia in cerca di radici tra la neve sporca quando udì avvicinarsi un treno.
Lo scorse snodarsi in lontananza lungo una curva ampia, con la colonna di fumo ardesia contro il grigio appena più chiaro del cielo. Quando fu più vicino si accorse che era un convoglio merci dai carri sgangherati e coperti di ruggine e fuliggine. Procedeva lentamente, ma la direzione era quella giusta: ovest.
Jacob si nascose sotto il terrapieno e attese che l’ultimo vagone gli passasse accanto prima di saltarci sopra. Era vuoto, ma aveva trasportato bestiame, e negli angoli era ammonticchiata un po’ di paglia. Il portellone non chiudeva bene, ma perlomeno c’era un tetto sopra la testa. E in ogni caso lì dentro non poteva fare più freddo di fuori.
Dalle fessure Jacob scrutava il paesaggio, sempre uguale, a destra e a sinistra: un deserto plumbeo di neve, inabitato e inabitabile. Di giorno spiava se vi fossero cambiamenti, se apparisse qualche villaggio; di notte nel buio profondo non vide mai accendersi alcuna fiammella, neppure lontana.
La terza o quarta mattina apparvero delle ombre livide all’orizzonte, e l’arrancare del convoglio sembrò rallentare. Si cominciava a salire; laggiù doveva esserci qualche immensa foresta, forse un passo tra alti monti.
Folate di vento spietato insinuavano negli interstizi lame di neve. Con essa si dissetava, e una volta al giorno inghiottiva qualche morso di pane rinsecchito. Dosava le riserve, non conoscendo la durata del viaggio, né la destinazione.
Una notte attraversarono un gruppo di case. Sembravano abbandonate. Una visione fugace sotto una luna altrettanto fugace, poi il buio e le nuvole ripresero le une e l’altra.
Ora dalle fessure si vedeva una foresta intrappolata nella neve, i cui alberi avevano fusti così alti da nascondere il grigiore del cielo. Tra i rami o accanto alle radici non c’erano frulli d’uccello né fruscii di animali. Un bosco impietrito in un gelo arcaico, muto e sinistro.
Di notte accendeva qualche filo di paglia con l’acciarino, ma temeva di morire congelato nel sonno, e per non addormentarsi ripeteva caparbiamente versi di Ovidio, di Puškin.
Di giorno regolava il tempo sullo sferragliare delle lamiere, pensando che se quel rumore si fosse fermato avrebbe cessato di battere anche il suo cuore.
La foresta pareva interminabile. Jacob dovette arrendersi all’evidenza che le sue provviste stavano finendo, e che la fame lo avrebbe messo nelle mani del freddo entro poco tempo. Sarebbe morto così, passando dal torpore al coma e all’assideramento in fondo a un carro bestiame nelle Terre del Diavolo. Non avrebbe più bevuto una tazza di tè bollente sulla veranda davanti al giardino, non avrebbe più suonato il pianoforte nel salottino di sua madre, né terminato di tradurre i suoi amati poeti.
Smise di scrutare dalle fessure. Cercò una posizione protetta in un angolo. Mangiò qualche scaglia di sapone, la sola risorsa rimasta. Accese l’ultimo ciuffo di paglia, e con esso bruciò anche il lasciapassare. Un’unica fiamma vivace e ingannevole li consumò in pochi istanti. Non si accorse di aver permesso ai suoi occhi di chiudersi.

I bambini, cinque o sei, tutti biondissimi, rincorrevano conigli selvatici lungo i binari, e ridevano gioiosi. Il lungo treno si era fermato sbuffando e alcuni uomini stavano caricando acqua e carbone dal serbatoio di rifornimento a lato della ferrovia.
Jacob emerse dal sopore avvertendo che qualcosa era cambiato nei rumori che lo avevano finora accompagnato. Ma non solo, anche nell’aria, e nel tipo di luce che entrava ora a fiotti dalle fessure. Si trascinò a quella più bassa, all’altezza dei suoi occhi, e restò abbagliato.
Fuori era un mare d’erba.
Un sole franco splendeva su una pianura ininterrotta e verdissima, punteggiata di ciliegi in fiore. Poco distante, alcune case basse con gonfi tetti di paglia. Jacob strizzò gli occhi offuscati e si lasciò scivolare lungo la breve scarpata, finendo tra i radi cespugli dove si era impigliato uno dei conigli. I loro occhi stupefatti si incrociarono. Jacob allungò le braccia e lo afferrò: era grasso, tiepido e mansueto. Si mise in piedi a fatica e mosse qualche passo verso i bambini, che si erano fermati e lo guardavano gentili e incuriositi.
“Grazie – disse la bambina più grande, prendendo il coniglio che Jacob le porgeva – Sai, scappano sempre”.
Jacob si guardò intorno, avvertì il tepore dell’aria e del sole sulla sua schiena, attraverso il pastrano incartapecorito e gli strati di stracci. Nella lunga notte della sua coscienza, il viaggio era proseguito e lo aveva traghettato dall’inferno di ghiacci alla vallata dei ciliegi. Si tolse le scarpe con gesti goffi e posò i piedi nudi su quella spiaggia neonata, violandone la verginità con un senso travolgente di stupore.
“Vieni da lontano? – gli chiese gentilmente la bambina.
“Molto lontano. Molto freddo – mormorò lui, riascoltando la propria voce dopo settimane.
“Allora sarai stanco. Vieni con noi – lo invitò lei tendendogli una manina.
Jacob la prese e si avviarono lungo un viottolo, verso le case. Ma le gambe cedettero molto presto, e lui rimase indietro: guardava i bimbi procedere a saltelli sui loro zoccoletti, mentre i suoi piedi scalzi si arrendevano. Cadde in ginocchio come un cavallo abbattuto.

Quando la bambina tornò insieme a due uomini e a una donna, lo trovarono accovacciato nell’erba.
Stava brucando.

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