Bazar

Ho molto viaggiato, vi dico, ho girato tutto il mondo; ne ho viste di tutti i colori. E ovunque sia stato, ho sempre veduto il sole sorgere giallo a est e arancione tramontare a ovest. Ora che la vecchiaia mi ha riportato a casa, nei miei occhi continuano a specchiarsi le luci variopinte dell’Oriente anche mentre la nebbia dell’inverno annega i tetti e le cupole della mia città.
Ho molto viaggiato, vi dico, ho girato tutto il mondo; ne ho viste di tutti i colori, e potrei raccontare storie che molti crederebbero inventate. Ah, sapessi dipingere, che quadro farei di quel bazar… ero uscito da palazzo mentre il mio padrone riposava, e mi ero lasciato attirare dal brusio di un grande mercato.
Incuriosito da un insistente tintinnio di campanelli, mi avvicinai ad alcune bancarelle stipate di oggetti colorati e, a prima vista, di difficile catalogazione. Facevano gruppo a sé, un gruppo esotico, disposte a formare quasi un cerchio che lasciava poco spazio in mezzo, così che girandosi ci si trovava subito di fronte dell’altra mercanzia e altri colori. Prevalevano i rossi, dal porpora all’arancione acceso, con molte note violacee e stacchi di blu quasi fosforescente, ma si alternavano anche gli ocra e i marrone, tutti però caldi, vivaci, con un che di vitale come fossero mantelli di animali favolosi dormienti e pronti a svegliarsi. Dietro i banchi, figure insolite dai tratti e dalle vesti orientali, forse di zingari, forse di stregoni. Gli uomini avevano i crani rasati, dalla pelle bronzea e lucida, e nella fusciacca ai fianchi portavano infilati piccoli scudisci o pugnali; le donne invece avevano il capo e il volto velati, e da una fessura orlata di perline si intravedevano occhi lucenti come il plenilunio. Dall’orlo delle larghe maniche ricamate uscivano polsi sottili e  magre mani affusolate color della terra, ornate di unghie lunghissime tinte di rosso bruno. Avevano tutti un aspetto fiero e misterioso, più che mercanti sembravano principi del deserto, cosicché le loro mercanzie, disposte con incredibile opulenza sui banchi e per terra, sopra tappeti splendidi, sembravano non oggetti in vendita ma l’esibizione del bottino di un ricco saccheggio o di un tesoro dissepolto da una grotta incantata.
Rotoli di tessuti lucenti, cuscini, velami traforati e trasparenti, fusciacche di colori digradanti, fasce di velluto con appesi campanellini d’argento, ciabattine ricamate con la punta allungata e incurvata, speroni appuntiti, passamanerie a nastri e frange, fazzoletti di velo incrostati di pagliuzze dorate, samovar di smalto, cammelli ed elefantini di giada, tabacchiere di peltro, pipe d’avorio, collane di conchiglie, bracciali di rame, anelli di pietre dure, gioielli raffinati che riproducevano in svariate fogge e materiali le spire di un serpente o teste di animali feroci, specchi incorniciati di legno intagliato, coppe colme di perle di vetro minuziosamente decorate e colorate: di tutto, su quei banchi opulenti e misteriosi, all’ombra di tendaggi che soffondevano una luce rossastra, un’atmosfera surreale. E, su ogni cosa, quel lieve ma continuo tintinnare che proveniva dai molti, moltissimi, turiboli appesi a spandere intorno uno stordente profumo di incensi diversi.
Qua e là, dappertutto, fra mazzi di piume di pavone, denti di drago e fiori di seta, in grandi vassoi laccati stavano raccolti in gran numero dei boccettini di cristallo iridescenti, ognuno diverso per foggia, dimensioni e colore del contenuto, dall’ambra allo smeraldo al rosso sangue al nero assoluto. Quando accennai a sporgermi per prenderne uno, comparve al mio fianco uno di quegli uomini impassibili e muti e mi fermò con un gesto della mano, mentre con l’altra se ne incaricava lui e me lo porgeva. Tolse con gran delicatezza il tappo di cristallo lavorato e mi avvicinò l’imboccatura perché annusassi, in perfetto silenzio. Aspirai un aroma sconosciuto ma incantevole, cui non avrei saputo dare un nome: ricordava un fiore sul punto di appassire, ma sotto emergeva una nota intensa di spezia indecifrabile. Socchiusi un attimo gli occhi per inebriarmi, e solo quando li ebbi riaperti l’uomo annuì e pronunciò una parola, una parola sola e per me incomprensibile, forse il nome di quel profumo, forse una formula magica.
Dopo di quello, me ne fece annusare molti altri, uno dopo l’altro, tutti misteriosi e tutti fortemente speziati oppure dolci, tutti nuovi per il mio olfatto e tutti insinuanti, tali da stregarmi. Di ognuno citava il nome (o forse il potere) senza altro aggiungere, e poi lo posava al suo posto quasi con riverenza, senza mai permettermi di toccare le boccette, come se volesse silenziosamente ammonirmi che quei profumi, quegli unguenti, quei balsami magici non erano cosa per me e potevano anzi nuocere a chi non fosse iniziato alla stregoneria orientale.
Sotto le tende rosse, tra quelle esalazioni di incenso e le fragranze inquietanti dei boccettini,  cominciai a provare uno stordimento via via più languido, che mi procurava vertigine, affanno e debolezza alle gambe. Sentivo caldo, mi si annebbiava la vista e nelle orecchie il tintinnio dei campanelli si stava trasformando in un rullo di tamburi che da sommesso andava crescendo di intensità e ritmo fino a sgomentarmi. L’uomo ora non mi porgeva più nulla e restava a guardarmi senza intervenire, quasi studiando le mie reazioni del tutto occidentali e compatendole dentro di sé. Sentii che dovevo strapparmi via da lì, da quel luogo di seduzioni arcane dove non avrei mai dovuto avventurarmi da solo. Girai sui tacchi e fuggii in una direzione qualunque, fuori da quel cerchio di magie diaboliche.

La sera, al banchetto del Kublai, non raccontai nulla al mio padrone per timore che la mia stolta audacia venisse rimproverata. Egli era così sereno, così bello e beneamato, indossava vesti fastose color cremisi e smeraldo, e la benevolenza del gran Kublai si riversava su di lui.
Ma stasera su Venezia è scesa una nebbia densa che tutto cancella e scolora, e anche l’inchiostro della mia penna si è seccato, trattenendo nel suo fondo indaco i policromi ricordi della mia giovinezza.

*   *   *   *   *   *

Per l’EDS arcobaleno della Donna Camèl, insieme a:
Tramonti di Angela
La grande bolgia di Stefano
Il professore delle favole di Hombre
Pinocchio di Dario
Avventura al Policlinico di Il Coniglio Mannaro
Magia al Polo Sud di Michele
Madonna segreta di Gordon
Cicciuzzu Babbaluci di Dario
Temporale primaverile di Pendolante
Di padelle ne è piena la Storia di Pernonsprecareunavita
Frammenti di vita di Lillina
I custodi del lunedì mattina di Marco
Spifferi di luce di Stefano
Alice nel paese dei cosplayer di Leuconoe 

La pappa!

Questa è vera quant’è vero Iddio, tramandata negli annali della mia famiglia come una delle pagine più pittoresche e significative della prima infanzia di me medesima, quella me medesima che, nata sotto il segno dell’Acquario, già in tenerissima età manifestava intraprendenza, talento artistico e doti creative.
Era una bella estate sul finire, al Lido passava la Mostra del Cinema (fu l’anno di Rashomon, per illustrare il livello) e sulla spiaggia attricette e parvenus si facevano immortalare dai fotografi, mentre nelle serate danzanti dei grandi alberghi impazzavano le musiche elettrizzanti di Perez Prado.
Io avevo mesi pochi ma sufficienti a gattonare e a progettare guai, ragion per cui nei momenti di maggiore indaffaramento mia madre mi neutralizzava deponendomi all’interno di un box con sbarre di legno. Mi ci trovavo, contro ogni mia volontà, anche il mattino di quella famosa telefonata. Il telefono lo avevamo da poco, e infatti a poco serviva. Lo avevamo messo più che altro in caso si dovesse chiamare il pediatra, perché quasi nessuno dei nostri parenti e conoscenti lo aveva. La nonna, per esempio, che abitava a Venezia, non lo aveva. Quella santa donna, per avere notizie della sua prima nipotina, si alzava all’alba, puliva casa, preparava il pranzo per il nonno, prendeva il vaporetto e in un’oretta, pian pianino, fermata dopo fermata, sbarcava al Lido e si presentava a casa nostra con la sua sporta piena di piccoli doni umili.
Una che aveva invece il telefono era la più cara amica della mamma, e con lei stava parlando quella mattina di bel sole, finestre spalancate e Tico Tico dalle radio di tutte le case vicine.
Io nel box mi annoiavo. I giocattoli li avevo già gettati tutti sul pavimento, avevo tirato anche un po’ di strilli nervosi e tentato inutilmente di scardinare le sbarre, ma quelle due ne avevano, da raccontarsi. Avessi avuto una sorellina, un fratellino, un gatto. Ma vennero tutti dopo, col tempo..
A proposito di gatti, lo sai cosa fa un gatto quando non sa più come attirare la tua attenzione? Ti fa gli scherzoni. Ti rubacchia la penna, ti fa cadere un soprammobile, ti graffia il divano, finché non gli dai retta.
Io feci la cacca.
E dato che avevo mangiato la pappa di carote, feci la cacca di pappa di carote, per colore e consistenza perfettamente identica, giusto un po’ differente quanto a odore. La feci, l’osservai e mi dissi che com’era entrata così era uscita, tale e quale. Arancione e papposa. E siccome non mi era nemmeno piaciuta, l’idea di averla trasformata in cacca fu un po’ una vendetta.
Solo che non è tutto qua. Una marmocchia di pochi mesi è perfettamente autorizzata a fare la cacca nel box, non c’è nulla di cui rimproverarla, soprattutto se la mamma è temporaneamente distratta altrove.
Bisognava aggiungerci il tocco speciale, quello che avrebbe trasformato un evento naturale in un monito degno di essere ricordato.
Così, mentre la mamma continuava a parlottare al telefono, io con le manine sante cominciai a raccogliere la santa cacchina papposa e a spalmarla coscienziosamente dappertutto, sulle odiate sbarre, sul pavimento di cartone, sulle gambette nude e, con maggiore abbondanza, sul bel musino lentigginoso che mi ritrovavo e che tutti volevano sempre sbaciucchiarmi. Tracciai pennellate spontanee secondo una tecnica di mia invenzione (successivamente copiata da certi pittori astratti) ottenendo interessanti effetti cromatici e soprattutto materici, e avrei continuato a perfezionare la mia performance se ad un certo punto non mi fosse venuta a mancare la materia prima.
Finita la telefonata, la mamma mi trovò così, placida e orgogliosa della sontuosa opera pittorica che mi circondava e di cui facevo parte. Un quadro vivente, e olezzante. Mi sentivo come mi sarei sentita tante altre volte nella mia vita, in futuro: appagata per un atto artistico originale, come quando metto la parola fine a un racconto perché ormai quello che avevo dentro è uscito tutto (sì, ammetto che il paragone è imbarazzante, potete astenervi da battutacce ovvie).
Qui il biografo dice solo che a mia mamma cascarono le braccia, sorvolando con eleganza sulla scena isterica che ne seguì, e che sfociò in una nuova telefonata di sfogo, stavolta a mio padre, il quale non la prese tanto bene e minacciò di sciogliere il contratto con la Telve. Poi però non lo fece. E neppure mia madre mi fece più la pappa di carote.

*    *    *

Scherzosamente scritto per l’Eds arancione del grande cocomero, bandito dalla Donna Camèl che ormai tutti ben conoscono…
Leggi gli altri:
Matilda di Dario
Condomini di La Donna Camèl
PC gate di Lillina
Giuseppe di Pendolante
Essere Johann Cruijff di Hombre
La torta di amarene
di Calikanto 
Notte insonne con gatti rosso arancio di Angela
Jamaica discromatica di Cielo
In pirlo veritas di Singlemama
Tequila sunrise di Leuconoe
La stessa tonalità di Marco C.
Il quadro capovolto (1a parte) di Fulvia
Pronto soccorso di La Donna Camèl
Maracaibo di Lillina 

Latte o limone?

Anni ’60, le festicciole dei ginnasiali si tengono il sabato pomeriggio, in casa, tassativamente fra le 16 e le 19.
Il gruppetto della quinta A si è dato appuntamento sotto i portici della scuola per andare tutti insieme a casa di Isabella, quella nuova, quella ricca, quella con l’autista che la porta e la riprende, quella tutta perbene ma ancora tanto spaesata. I ragazzi per l’occasione hanno raccolto i soldi e acquistato un 33 giri di Toquiño e Chico Buarque de Hollanda, una cosa raffinata e un po’ esotica insomma, non le solite canzonette.
La casa è in cima a una stradina in salita; quando arrivano davanti al cancello sono già spettinati. Il vialetto taglia un giardino pieno di alberi un po’ trascurati, un tappeto di foglie secche ocra, rosse e arancioni che il vento perenne gira di qua e di là, e in particolare attorciglia alle caviglie.
Sulla soglia, ad attenderli, la bella emozionata Isabella con un abito color pesca matura tutto a sbuffi e merletti, affiancata da cameriera con crestina pronta a ricevere giacche e cappotti, e non accetterà rifiuti. Sulle sue braccia si ammucchiano un po’ vergognosi giubbotti di tweed grezzo e sciarpe rosse, fucsia o dell’Inter. Sul lindo pavimento dell’ingresso, foglie fradice entrano insieme alle scarpe non proprio lucide.
Si accomodano in un salotto un po’ troppo formale per i loro gusti, tutto cuscini di velluto color zabaione e nappine alle tende, più un cane quasi arancione, un cocker dall’espressione scostante che al loro ingresso, invece di fare le feste, abbandona il tappeto e la compagnia. In sottofondo, ballabili americani degli anni ’40 e chansonniers francesi, mentre Toquiño e Chico Buarque de Hollanda sono rimasti su un tavolino di ninnoli ancora avvolti nella carta da regalo. E pensare che con quel disco erano convinti di fare bella figura.
Non sanno cosa dire, di cosa parlare. Gonfiano i loro sorrisi per simulare piacere, eccitazione e divertimento, ma il ghiaccio è duro da rompere. Isabella doveva averlo previsto e infatti ecco saltar fuori una scatola piena di fotografie. Si siedono in circolo intorno a lei e si dispongono pazientemente a passarsele una dopo l’altra: Isabella da piccola, Isabella alla prima Comunione, Isabella a cavallo, Isabella in Svizzera sugli sci, Isabella e il cucciolo, Isabella a Parigi, a Londra, davanti alla Sagrada Familia, sotto il Corcovado.
“Se volete, vi mostro la mia camera – propone speranzosa al termine.
In processione, consapevoli dei loro maglioncini fatti dalla mamma, delle calzamaglie di filanca, dei pantaloni di tutti i giorni senza piega, mettono il naso dentro la stanza crema e rosa della bella Isabella, con fotografie di cavalli dappertutto, in cornici d’argento.
I maschi sono sempre più in imbarazzo, le femmine occhieggiano l’arredamento e i particolari sofisticati, che ricordano tanto i rotocalchi delle mamme o le scene di certi film americani. E mentre si chiedono cosa ci faccia una loro coetanea così snob in una città schietta di mare, vento e pietra carsica come quella dove sono nati loro, ecco che arriva l’ora del tè.
“Latte o limone?”
Perché è questo il rinfresco: tè e pasticcini, serviti in modo raffinato e scomodissimo dalla cameriera del rotocalco insieme a salviettine così candide e preziose che nessuno si azzarderà a usare. Qualche stomaco quindicenne brontola, coperto inutilmente da colpetti di tosse finta.
Nel frattempo, si sono fatte le sei. Ospite e ospiti hanno esaurito le loro risorse di reciproco intrattenimento, ma non si sa come darci un taglio. Inaspettatamente, è Adria a risolvere, Adria, la capitana della squadra di pallavolo, quella con più note sul registro, quella capace di fare a botte con i maschi. Con incredibile faccia tosta arrossisce e si tormenta le mani, emettendo una vocina indifesa:
“Scusate, ma si sta facendo tardi e io ho paura del buio…”
Ci mettono un attimo a capire, e poi tutti ad assecondarla. Le altre femmine di colpo sono tutte in agitazione, i maschi le calmano offrendosi di accompagnarle a casa. Si congedano un po’ frettolosamente, con goffe strette di mano e assicurando che è stato tutto bellissimo.
“Grazie per essere venuto, grazie per essere venuta – dice meccanicamente Isabella a tutti, uno per uno. La cameriera distribuisce pastrani e sciarpe, il portone di casa si apre e via, sono liberi.
Ma Adria non ha finito. Lungo il vialetto ha scorto un albero di cachi, già così maturi e arancioni da risplendere come lanterne accese nell’imbrunire della sera. Cosa le salta in mente, come le viene in mente il tocco finale, la firma su quel pomeriggio insipido… si avvicina alle fronde più basse e, con uno stecco raccolto tra le foglie, incide occhi, naso e bocca sulla buccia tesa dei frutti. Gli altri la imitano, ridacchiando (“Tu, Roby, controlla che non ci guardino da qualche finestra”), e in breve tutti i cachi raggiungibili vengono sottoposti al trattamento.
E ora scappano, fuori dal triste cancello, giù per la discesa, correndo a zig zag, liberando risate sguaiate, lanciando in aria sciarpe e berretti.
“Chissà domani che colpo quando vedono i cachi che ridono!”
“Io ho fameee! – grida uno.
“Tutti in Città Vecchia! – grida un altro.
In Città vecchia, dalla Siora Rosa, in quella bettola fumosa dove per pochi soldi ti fanno panini enormi farciti di prosciutto tagliato grosso, senape e una spalmata di crauti saporitissimi da farti venire le lacrime agli occhi.
“De bever cossa volé, muli? – chiede burbera Siora Rosa.
“Aranciata, aranciata, aranciata!”

*    *    *

Scherzosamente scritto per l’Eds arancione del grande cocomero, bandito dalla Donna Camèl che ormai tutti ben conoscono…
Leggi gli altri:
Matilda di Dario
Condomini di La Donna Camèl
PC gate di Lillina
Giuseppe di Pendolante
Essere Johann Cruijff di Hombre
La torta di amarene di Calikanto
Notte insonne con gatti rosso arancio di Angela
Jamaica discromatica di Cielo 
In pirlo veritas di Singlemama
Tequila sunrise di Leuconoe 
La stessa tonalità di Marco C.
Il quadro capovolto (1a parte) di Fulvia 
Pronto soccorso di La Donna Camèl
Maracaibo di Lillina