Povero Edipo

Era lei, e non era lei.
A prima vista, era lei senza dubbio. Sua l’acconciatura severa, la fierezza del collo e delle spalle, la regalità delle mani intrecciate in grembo; e suo il pallido zinco degli occhi.
Ermanno Sigismondi, sessantenne azzimato e celibe, per l’occasione nel suo completo primaverile grigio con la fascia nera da lutto ancora al braccio, studiava il ritratto di sua madre provando un sottile smarrimento. Certo, il pittore, prendendo a modello una fotografia di qualche anno addietro, l’aveva gratificata di un incarnato più luminoso di quanto non fosse stato nella realtà dei lunghi mesi di malattia, e le aveva discretamente lisciato qualche profonda ruga e riempito gli zigomi fattisi ossuti. Concessioni pietose,  necessarie e comunque concertate di comune accordo fin dall’inizio.
Ma non stava in questi artifizi cosmetici il motivo dello straniamento del figlio di fronte all’immagine della madre. C’era dell’altro, qualcosa di non immediatamente identificabile, qualcosa di molesto e imbarazzante, qualcosa che lo respingeva.
– Che ne dite, è somigliante?
Il Maestro sembrava aver posto la domanda solo per colmare il silenzio assorto che si era formato tra loro; in verità era più che convinto della bontà del suo lavoro, e placidamente seduto su una vecchia poltrona accarezzava un gatto rosso.
Ermanno si girò a guardarli. Ecco, gli venne da pensare: quei due lì, gatto e padrone, quei due sì che si somigliano. Non è strano? Eppure, lo stesso sguardo sornione, lo stesso mezzo sorriso… anche il gatto sembra sorridere. Poco poco, un sorrisetto canzonatorio, che si forma nel segreto della mente, non in quello del cuore.
Tornò a guardare il ritratto, infastidito, a disagio, sentendo salire una specie di umiliazione. Era venuto per visionare un’opera da lui stesso commissionata, ma ora gli pareva di essere lui sotto processo, e a giudicarlo erano un ritratto enigmatico, un pittore presuntuoso e un gatto strafottente.
– Mia madre era una gran donna – esordì, millantando sicurezza – Vedova a neanche trent’anni. Mi ha cresciuto da sola come meglio non avrei potuto desiderare. Ha preso in mano gli affari di papà e ha costruito un impero. Manifattura di tessuti pregiati, esportiamo in tutto il mondo. Fabbriche, uffici, negozi. Disegnatori e operai, impiegati e commessi, un esercito di dipendenti cui ha dato lavoro. Onorificenze, medaglie. Un’icona nel mondo dell’imprenditoria. Al suo posto di comando fino all’ultimo. Instancabile, inarrestabile…
– … implacabile.
– Come?
– Volevo dire, una donna di carattere, si corresse blandamente il pittore. Il gatto si leccò delicatamente il labbro superiore, senza apparente motivo.
– E una madre attenta, generosa. Non mi è mancato nulla. Ottimi collegi, viaggi all’estero, l’equitazione, il tennis, gli ambienti altolocati. Mi ha insegnato come diventare degno di succederle, ma so bene che non potrò mai confrontarmi con lei. Nessuno lo potrebbe. Mia madre era una donna speciale. Era l’unica donna. L’unica. Perché credete che non mi sia mai sposato?
– Lo so. Me ne avete già parlato il giorno del nostro primo incontro, ribatté il pittore – Ed è proprio su queste notizie, oltre che sulla fotografia, che mi sono basato per realizzare il ritratto. Ora però mi sembra di capire che non lo trovate somigliante, o sbaglio?
– Non saprei. Le somiglia, e non le somiglia. Ė lei, e non è lei.
– Io credo di avere colto tutto. Ma voi forse intendete dire che le manca qualcosa? – il pittore sembrava volergli pazientemente venire incontro, eppure la sua condiscendenza suonava un po’ come quella che si usa rivolgendosi agli sciocchi.
Le manca qualcosa. Le manca qualcosa. Ermanno lo intuiva, ma non riusciva a identificarlo. Scrutava le grinze della tela, ancora umide di colore, e ammetteva con se stesso come non vi fosse nulla da eccepire circa la grana della pelle, la precisione geometrica dell’attaccatura dei capelli, la simmetria dei lineamenti, ma era altrove il senso del suo disagio.
– Il sorriso – mormorò ad un tratto, come folgorato – Il sorriso.
– Quale sorriso? – il pittore si scosse e lasciò gatto e poltrona, portandosi accanto al cavalletto con sguardo sospettoso.
– Mia madre. Non sorride, vedete? Lo dicevo io che mancava qualcosa: il sorriso, manca. Il sorriso.
Il pittore scosse gentilmente il capo.
– Ė vero, manca. Ma voi non mi avete mai parlato di sorrisi. Vostra madre sorrideva? Rideva? Le veniva mai voglia di cantare? Non me ne avete parlato.
– Nella fotografia il sorriso c’è! – protestò Ermanno, trionfante – Siete stato voi a non raffigurarlo. Ora pretendo che rimediate a questo errore intollerabile, davvero intollerabile.
La testa del pittore faceva no no, ma gentilmente, quasi con compassione.
– Mi avevate chiesto di ispirarmi alla fotografia, non di copiarla tale e quale. Per quello sarebbe bastato duplicare il negativo. Ma voi vi siete rivolto a un artista, e lasciate che questo artista vi dica che quello non è un sorriso. Il sorriso viene da dentro, non è solo un movimento volontario dei muscoli della bocca. Ė altro, il sorriso. Credetemi, mi spiace molto dovervelo far notare.
– E a me non spiace affatto dovervi dire che vi ritengo incapace di ritrarre un sorriso. Santo Cielo, la cosa più facile del mondo!
– Lo dite voi, replicò dolcemente il pittore. Era anziano e aveva troppa esperienza per mettersi a discutere con un figlio illuso e frustrato.
– Datemi un pennello, uno piccolo, e vi faccio vedere io – ordinò spericolatamente Ermanno, mentre ormai la disperazione gli dava alla testa e lo spingeva a sragionare.
Ma per quanto tenesse ferma la mano e cercasse di modellare con la massima meticolosità gli angoli di quella bocca, essi continuavano a restare rigidi, a resistere al richiamo della tenerezza, e quelle labbra che avevano dispensato ordini imperiosi e rimbrotti taglienti, che avevano generato timore e sudditanza, che avevano trasmesso a tutti la determinazione e l’orgoglio di una donna dispotica, invece di incurvarsi nell’abbandono di un gesto d’amore si indurivano sempre più in una smorfia maligna, nel ghigno cinico di una megera ricca e crudele. E, soprattutto, su quel volto devastato dalle pennellate maldestre continuava a dominare lo sguardo glaciale di quei due occhi color zinco, fissi nella volontà di non partecipare minimamente allo sforzo di un sorriso fosse pure di convenienza. Il dipinto non poteva fare altro che denunciare al mondo intero l’assenza di un’anima.
Ermanno gettò il pennello, affranto. Il quadro era rovinato: la madre non riusciva proprio a sorridere, non lo aveva mai fatto in vita e non si sarebbe certo arresa a farlo adesso, in morte, a opera di un pennello. D’ora in poi lo avrebbe sempre guardato dalla cornice sopra il caminetto con quell’espressione di spietatezza a malapena camuffata.
– Quella santa donna si rivolterà nella tomba… ,  mormorò andandosene sconsolato.

 Ermenegilda Sigismondi si rigirò effettivamente nella tomba, la tomba di famiglia vegliata da angeli di marmo e fregi di bronzo massiccio, ma solo per cercare una posizione più comoda. Lei sola sapeva la verità. Tutti gli altri, al diavolo. Ah ah ah!

* * *

Questo pezzo, scritto per l’EDS Non cosa ho veduto, ma come l’ho veduto proposto dalla tellurica Donna Camèl, si unisce a:
Cuncittina, di Dario
Dove una madre, di Hombre
Trasposizione di un amore, di Lillina
Foto di classe, di Pendolante
Il fazzoletto bianco, di Pendolante
L’amore informale di due anime in guerra con se stesse, di Lillina
Essere nutria oggi, di La Donna Camèl
Il fotografo, di Effe 

(nell’immagine: Jacqueline with flowers, di Pablo Picasso)