Per un piatto di risi e bisi

Il doge Pierpaolo Strigheta stava sulle spine. Era il giorno di San Marco, il 25 aprile, la festa più importante dell’anno, ma il suo momento di gloria rischiava di essere offuscato da almeno tre pungenti preoccupazioni.
Anzitutto, le scarpe.
Fin dal mattino, scendendo la Scala dei Giganti, si era accorto che erano troppo strette, e infatti i piedi cominciarono a fargli male ai primi passi della lenta processione verso la Basilica che a lui spettava di guidare tra ali di folla e attorniato da notabili, canonici e confraternite.
Poi il caldo scoppiato all’improvviso, con quel sole che dardeggiava e lo faceva penare sotto il peso del broccato d’oro e soprattutto di quel maledetto corno ducale che gli faceva sudare e prudere la testa.
Terzo e non ultimo cruccio, era il pensiero del pranzo: per l’occasione aveva invitato mezzo mondo, da Venezia e da fuori, ambasciatori, ammiragli, porporati, governatori dei possedimenti d’oriente, rappresentanti di tutte le aristocrazie. E per fare migliore figura aveva fatto arrivare un cuoco francese di gran fama, ma non c’era stato il tempo di metterlo alla prova, e ora non gli restava che sperare di non essere stato troppo imprudente.
La cerimonia durò un’infinità. I piedi, la testa e lo stomaco del doge mandavano segnali di impazienza, ma bisognava rispettare i tempi ieratici del Patriarca, che non la finiva più di salmodiare e di benedire la folla di polpe e falpalà devotamente raccolti sotto le cupole della Basilica.
Finalmente arrivò il momento di sciogliere le righe e tornare al palazzo, al salone dove era imbandita una tavola opulenta sotto la quale il doge Strigheta non si fece scrupoli a togliersi le scarpe (un valletto, sgusciando non visto fra le gambe dei convitati, gliele sostituì con più comode babbucce di panno purpureo).
Alle spalle del seggiolone dorato del doge, prese posto l’Assaggiatore, che in quei tempi di veleni e coltelli era un accessorio indispensabile alla corte dei potenti, e benché Strigheta non avesse molto da temere gli piaceva esibirlo come un ornamento in più della sua serenissima maestà.
Si trattava di un certo Zanetto, un ragazzotto di umili origini ma volonteroso e di buon contegno, che aveva accettato quell’ingrato compito perché era un gran ottimista; e in effetti finora gli era andata bene.
Cominciò la sfilata dei vassoi, e la vista degli arrosti infiocchettati, delle zuppiere fumanti, dei crostacei lucenti e delle polentine tremebonde suscitò negli illustri commensali una estasiata ammirazione e accese gli occhietti del Doge di malizioso orgoglio.
Ma prima c’era da assolvere la prova dell’assaggio, un rito serissimo che tutti avrebbero seguito con grande compunzione pronti a perderla subito dopo passando ai fatti.
“Alora, Zanetto – esordì il Doge, calandosi tutto tronfio nella parte – cossa ti me disi de sto fasàn in umido?”
Zanetto infilzò sulla sua forchettina professionale un bocconcino di fagiano, lo studiò coscienziosamente tra lingua e palato, lo triturò delicatamente con i soli denti anteriori e dopo diversi istanti lo inghiottì. Ma la sua faccia aveva assunto un’espressione perplessa.
“Cossa te par, ghe xé el velén? – chiese ansiosamente il Doge.
“Veleno no, Ecelensa, però…”
“Però?”
“Però con tutto il rispetto non è fagiano. Ė gallina”.
Il Doge impallidì. Anche parecchi convitati impallidirono. Gallina al pranzo di San Marco? Ma che scherzi erano quelli?
“No ghe credo. Gò ordinà fasàn, e gà da essere fasàn. Ti xé ti che no ti capissi gnente – reagì rudemente il Doge. E aggiunse:
“E magari ti me dirà che sto figà a la venexiana no xé figà? – insinuò sarcastico.
“Ė fegato senza dubbio, Ecelensa, però…”
“Però? Sentìmo, sentìmo – sbottò Strigheta, sull’orlo della disperazione.
“Però è di bue. Il fegato alla veneziana deve essere di vitello, non di bue, Ecelensa”.
Strigheta decise di incassare, e con l’ultimo brandello di dignità giocò il tutto per tutto: i risi e bisi, il piatto tradizionale veneziano, immancabile alla mensa dei dogi il giorno del santo patrono e venerato al pari di esso. Il vero banco di prova della venezianità, il suo biglietto da visita nel mondo. La zuppiera fumava e il suo contenuto ancora dava gli ultimi scoppiettii di dolce bollore al candore del riso e al verde prato dei piselli, infiorati di delicate foglioline di prezzemolo occhieggianti in mezzo alla burrosa mantecatura.
“Te sfido a trovarghe dei difeti. Avanti, tasta sta bontà – invitò il Doge, e si adagiò contro lo schienale assaporando la vittoria.
“Ecelensa ilustrissima, col vostro permesso non ho bisogno di assaggiarla per poter dichiarare con la massima onestà che questa roba è una porcheria, e vi spiego perché. I piselli sono del tipo a buccia dura, il riso è troppo cotto e la consistenza è troppo densa. Se volete mangiarla, male non vi farà, ma resta una porcheria”.
Il verdetto era inappellabile. Un margravio e un paio di dame svennero. La Dogaressa nascose  lacrime desolate in un fazzoletto, uno dei maggiordomi si strappò le vesti e l’arcivescovo di Costantinopoli esorcizzò la tavola con un crocefisso tempestato di rubini.
Il Doge era impietrito. La disfatta, completa. Da domani il mondo avrebbe saputo qual era il trattamento che la Serenissima Repubblica riservava ai suoi ospiti e alleati più prestigiosi, e quanto miserevole fosse l’inettitudine del suo più alto rappresentante.
“Ti me gà fato far ‘na figurassa, ma ti me la paghi. Via, in presón, e doman te fasso tagiar la testa – ordinò.
Così Zanetto, per amor di verità, finì ai Piombi, e il pranzo venne annullato con grande scorno e malcontento di tutti. Prima di sera tutti gli ospiti ripartirono in fretta e furia per i loro paesi lontani, senza nemmeno lasciare la mancia ai gondolieri e ai facchini. La Dogaressa si chiuse in camera a singhiozzare, mentre il Doge cercò sfogo alla collera e alla vergogna prendendo a calci e sberloni tutti quelli che gli capitavano a tiro.
Zanetto, nella cella angusta e senza finestre, era tuttavia sereno. Aveva quel fatalismo tipico degli ottimisti e delle anime semplici, e poi sapeva di essere nel giusto. Da devoto suddito della Repubblica, mai avrebbe ingannato il Doge, nemmeno per farlo contento. Se la morte per decapitazione era il prezzo da pagare, pazienza: sarebbe morto onesto. Ma comunque non si poteva mai dire, forse un’ultima speranza c’era ancora.
Quando si dice i casi della vita… Quell’ultima speranza si concretò verso sera: venne il capo carceriere e gli chiese se avesse preferenze per l’ultima cena, dato che sarebbe stato giustiziato all’alba. E fu qui che Zanetto ebbe l’illuminazione.
“Vorrei tanto – disse – un piatto di risi e bisi cucinato da mia mamma”.
“Tuto qua? Ti te contenti de poco – lo derise la guardia, e mandò a chiamare la madre di Zanetto, certa Carlina Fornasier che faceva la lavandaia nel sestiere di Castello. Nell’apprendere che suo figlio era rinchiuso ai Piombi in attesa della pena capitale, la forte Carlina non si perse d’animo e si mise subito al lavoro per esaudire quell’ultimo desiderio e chissà, forse, fare in modo che non restasse l’ultimo davvero.
Intanto Zanetto aspettava, fiducioso; e faceva bene, ma il tempo passava e non arrivava nessuno a portargli la cena.
Erano ormai le nove e s’era fatto buio completo quando sentì scorrere i catenacci e il custode beffardo di prima, ancora più beffardo, gli annunciò:
“Fora, ti xé libero. Fiol d’un can, la te xé andada ben…”
“Libero?”
“Come l’aria”.
“E i miei risi e bisi?”
“Li gà magnai el paron. Povero Strigheta, el gera drio andar in leto co na scuela de pan e late quando xé rivada to mama co quel pignaton de risi e bisi, quell’odorin che girava per tuto el palasso e svegiava anca i morti… Ti dovevi véderlo come che el se gà butà sul piato: tre, el ghe n’ha magnà. E dopo el gà ciapà el cogo par la giacheta e el lo gà licensià sensa tanti complimenti”.
“E mia mamma?”
“La xé de sora in cusina drio contarsela co la parona, Va’ va’, destrìghite, che le te speta”.
In cucina la Carlina e la Dogaressa, completamente rasserenata, chiacchieravano placide come vecchie amiche. Quando entrò Zanetto, sua madre stava dicendo:
“Tolte nota, Clelia. Per far i risi e bisi come che Dio comanda, ghe vol i bisi de primissia, quei picinini e dolsi, e ghe va anca na puntina de sùcaro. Ti fa un desfritìn co ogio, butiro, segola, ti ghe buti i bisi e ti fa andar finché li se infiapisse ma sensa desfarse. El sal ti ghe lo meti a la fine, senò i vien duri. El brodo gà da esser otimo, de polastro o de manzo. A tre quarti de cotura ti zonti el riso e ti fa cusinar finché non vien tuto belo cremoso, ma ocio che no gà da esser né tropo fisso come un risoto né tropo sbrodoso come na minestra. La giusta via de mezo. La xé questa, la vera arte dei risi e bisi”.

A mezzanotte erano ancora tutti e tre in cucina; Carlina insegnava a donna Clelia i segreti dello zabaione e delle sarde in saor, e Zanetto si era addormentato su una panca con la pancia piena e rosei progetti per il suo futuro di capo cuoco a Palazzo Ducale.

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Questo piatto rientra nel menu dell’eds Ipogeusia lanciato dalla gastronoma Donna Camèl
Gli altri commensali sono:
Dario con Sarde a baccaficu
–  Hombre con Caffè alla Norma
Cielo con Lettera alla donna che ami sulla felicità e il ragù
Singlemama con La prima volta che ho mangiato i piselli davvero
Lillina con Lu vinu
La Donna Camèl con Mia nonna era google
Dario con Bastardi affucati
Pendolante con Antichi sapori
Effe con Raneclode 

(nell’immagine, Processione di san Marco, di Gentile Bellini)