Don DeLillo: Il silenzio

Silenzio_DeLillo_copSeguo Don DeLillo da anni, ho letto almeno una dozzina di suoi romanzi (cioè quasi tutti) e li ho sempre trovati all’altezza della mia ricerca di una scrittura alta, libera, eclettica, in equilibrio tra sontuosità e minimalismo. Sempre dritta allo scopo, sul bersaglio, con una precisione crudele che si va scoprendo mano a mano che il lettore – mentre si lascia non solo affabulare ma condurre proprio, volente o no, al centro del Male comune dell’esistenza su questa Terra e nell’intero Universo, per non dire nella Storia – ci mette del proprio, ci mette se stesso e si piega a porlo in discussione a rischio di uscirne, nella migliore delle ipotesi, tramortito come dopo una crisi di vertigini parossistiche.
Cento pagine, poche per chi è affamato ma sufficienti per un Autore che, a mio avviso, in questo romanzo non fa altro che proporre un Tema e lasciare al lettore le domande da farsi. Risposte no, perché non ce ne sono, o forse perché bisogna essere molto ma molto ma molto presuntuosi per dichiarare di possederne. E questa, credo, è la missione degli scrittori, degli intellettuali: stimolare le domande, non imbonire i lettori con risposte (con risposte, perlomeno, che non siano quelle dei lettori stessi).
Ci ho riflettuto, e adesso credo di aver capito perché queste 100 pagine (che aspettavo da mesi nella traduzione italiana) mi hanno inizialmente fatto pensare “Ma qui manca qualcosa…”. È perché questo romanzo su una attualità tuttora in corso (la dittatura digitale che l’Umanità si è autoimposta) non è altro che un incipit che DeLillo ci consegna affinché in qualche modo (e cioè ognuno a modo proprio) guardiamo oltre la nebbia spessa di questo inizio e possibilmente facciamo sì che non si trasformi in una fine.
In altre parole, il resto di questo romanzo è ancora tutto da scrivere, addirittura da pensare. Un po’ come se DeLillo ci avvisasse “Ragazzi, è una vita che scrivo per mettervi in guardia dai mostri dell’alienazione ma voi ancora non ci arrivate, neanche dopo/durante questa pandemia che andava colta come un’Occasione per liberarsi dalle ossessioni superflue del nostro tempo. Ora non ho più parole, le prossime pagine aggiungetele voi”.

Libro da leggere solo dopo aver letto alcuni degli altri precedenti, da Cosmopolis a Rumore bianco passando per gli imprescindibili Americana, Underworld e quel frutto perfetto della maturità che è Zero K.

Don DeLillo: End zone

Dopo la morte di David Foster Wallace, mi sono attaccata ancora di più a Don DeLillo nel tentativo di colmare quel vuoto. Mi dico: meno male che c’è rimasto lui, meno male che ha scritto tanto e pare abbia ancora la voglia di continuare, e allora che Dio ce lo conservi un altro po’, dai.

End zone, che prende il titolo da un termine tecnico del football americano, è un romanzo del 1972, ma inspiegabilmente non era mai stato tradotto in italiano fino a quest’anno. È appena il secondo romanzo di DeLillo, che all’epoca aveva 36 anni, eppure è sorprendente l’evidenza del suo talento già compiuto, in nulla inferiore a quello espresso nei romanzi successivi della maturità. La vicenda è quella di un giovane che trascorre un anno in un college dove si incentiva lo sport del football americano, del quale DeLillo è sempre stato un grande appassionato e conoscitore. Si tratta di uno sport in cui la fisicità e l’agonismo sono esasperati al massimo, secondo alcuni una specie di metafora della guerra, anche se, come dice uno dei personaggi, «io rifiuto il parallelismo tra football e guerra, la guerra è guerra. Non abbiamo bisogno di succedanei dal momento che abbiamo l’originale». Il football è al centro del romanzo – che contiene fra l’altro la lunghissima e mirabile descrizione di una partita all’ultimo sangue, una vera e propria prova d’Autore. Ma altri sono i temi toccati: lo spettro della guerra nucleare, l’incomprensibilità della vita, la paura della morte. Il libro racchiude in pratica le inquietudini della generazione di giovani americani degli anni ’60, iniziati con l’assassinio del presidente Kennedy nel 1963 e segnati dalle minacce della guerra fredda e dall’incubo del Vietnam. DeLillo in ogni suo libro ha cantato l’America come un grande Paese contraddittorio; il suo è una specie di canto addolorato e a volte rabbioso, una denuncia accorata dei mali che lo attraversano e lo destabilizzano. Questo non è un romanzo riposante, di evasione. Nessuno dei romanzi di DeLillo lo è. Al contrario, è un romanzo denso, che scava e illumina, in cui ogni parola e frase è necessaria e al suo posto, che si tratti di elucubrazioni mentali, di descrizioni liriche dei paesaggi o di dialoghi solo apparentemente disimpegnati tra studenti.
Leggetelo se già vi piace DeLillo o se almeno siete interessati al football americano.
Leggetelo se vi pare che i due brevi frammenti trascritti qui sotto vi ispirino rispetto e ammirazione per questo grande autore, che cerca in ogni suo scritto di interpretare la coscienza globale dello spirito americano.

“Non voglio sentire nemmeno una parola sul valore del retaggio di una persona. Sono un individuo del ventesimo secolo. Mi sto esercitando a raggiungere uno stadio dell’esistenza che vada al di là della colpa, al di là del sangue, al di là del ridicolo passato. Meno male che esiste l’America. In questo paese è possibile raggiungere un obiettivo del genere. Io voglio guardare dritto davanti a me. Voglio vedere le cose con chiarezza. La storia non è la più accurata delle profezie. Io rifiuto il Dio iracondo degli ebrei. Io rifiuto il Dio cristiano dell’amore e del denaro, sebbene non rifiuti l’amore in sé o il denaro in sé. Io rifiuto l’idea di retaggio, origini, tradizione e diritto di nascita. Queste cose non fanno che rallentare il progresso della razza umana. Generano solo guerra e follia, guerra e follia, guerra e follia”.

“Qual è la cosa più strana di questo paese? Ecco la risposta: che quando mi sveglierò domani mattina, una mattina come tutte le altre, il primo pensiero spaventoso non saranno i nemici della nostra nazione, i nemici storici contro i quali combattiamo la nostra guerra fredda o la guerra comesichiama. Quella gente lì non mi fa affatto paura. E allora di chi ho paura io, perché non c’è dubbio che io abbia paura di qualcosa. Ve lo dico subito. Ė il mio stesso paese a farmi paura. Io ho paura degli Stati Uniti d’America. Ė ridicolo, non è vero? Ma è così. Prendiamo il Pentagono, per esempio. Se mai qualcuno ci ucciderà su vasta scala, questo sarà il Pentagono. Su piccola scala invece dovete stare in guardia dalla polizia locale. Può capitare che due agenti gentili, laureati e garbati, della squadra che si occupa del lavaggio del cervello vengano a bussare a casa mia alle tre di notte? Voi vedete il mio sorriso accattivante e contagioso e capite che questo pensiero non mi provoca alcuna ansia. Dopotutto siamo in America. Possiamo parlare liberamente. Non smetto di dirmi che non ho motivo di preoccuparmi finché la gioventù americana sarà consapevole di quello che le succede intorno”.

Cosmopolis in biblioteca

Venerdì scorso nella mia cara biblioteca si è tenuta la serata dedicata alla discussione sulla lettura condivisa dell’estate: Cosmopolis, di Don DeLillo.
Questo titolo era stato proposto dal mio amicone Mirko Lazzarini, lettore sensibile e rigoroso ma prima ancora splendida persona, che mi ha offerto il privilegio di affiancarlo, conoscendo la mia passione per l’Autore.
Lavorare insieme è stato emozionante: abbiamo condiviso le sensazioni, la commozione, l’ammirazione per un romanzo che, per noi, continua a essere un capolavoro. Continua nel senso che le reazioni del pubblico (una trentina di lettori e affezionati frequentatori della biblioteca) si sono fortemente divise tra il disgusto (denunciato dalla maggioranza) e le lodi (quelle di una minoranza pacata).
Il testo integrale da noi preparato è leggibile qui in pdf. Forse interesserà a chi non è potuto venire, e magari (sarebbe bello) a chi volesse rileggerlo per rivedere i termini della propria stroncatura.
Dalla nostra traccia, forzatamente sintetica, sono poi scaturiti nel corso della discussione numerosi spunti critici che hanno, nel bene e nel male, contribuito ad approfondire l’analisi. Il libro è controverso, è risaputo, e alla sua uscita aveva provocato spaccature anche nella critica ufficiale. Ma credo sia un’opera imprescindibile per chi consideri la letteratura una cosa seria e non solo uno strumento di evasione.
Poi ovviamente le polemiche sono finite in tarallucci e vino. Più che tarallucci, i sublimi bigné usciti dalle prodigiose mani di Antonella. E tante chiacchiere, tanti abbracci, tanti progetti per la nuova stagione di attività condivise che sta prendendo corpo anche quest’anno.

Cose che succedono nella mia biblioteca.
La mia biblioteca è differente.

Ci vorrebbe un amico

Aveva ragione SpeakerMuto: ho fatto bene a riprendere Americana, di Don DeLillo. Degli ultimi quattro libri che ho letto, ben tre erano di donne, fatto piuttosto insolito per me, ma ne è valsa la pena perché alla fine non mi sono dispiaciuti. Quello che mi ha colpita di più è stato L’infinito nel palmo della mano  di Gioconda Belli; casomai ne scrivo qualcosa un’altra volta, o forse anche no.
Ma dopo Egan, Brookner e Belli avevo voglia di ritornare al mio genere preferito: il postmoderno, quello duro e ruvido ma struggente di Wallace e dei suoi predecessori, come Barth e questo grande DeLillo che da due sere mi sta confortando, e anche abbastanza tormentando (le relazioni vive implicano pure questi due aspetti antitetici, no?).
Lo sento, lo vedo, sono lì, riconosco tutto come chi riconosca, al tatto e dall’odore, la trama del suo cappotto più liso e avvolgente. E questo benché io non abbia mai visto New York, non sia mai stata una donna in carriera, non abbia mai subito il fascino del successo e della visibilità (sono tutte cose scomodissime). È una di quelle storie intellettuali che mi stimolano, mi gratificano, mi commuovono con la rivelazione di una sorprendente empatia: questa parla di alienazione e vanità, mette a nudo con spietata eleganza l’immaturità e la miopia di una società vittima dell’immagine.
Non dico altro. Lascio parlare lui, un pezzetto abbastanza a caso perché il linguaggio e l’incanto è tutto di questo tono, classe e suggestione.

Decisi di andare a piedi. Faceva freddo, e il vento soffiava dagli angoli di strada portando odore di neve e vaghi sentori di sempreverde dalle bancarelle degli alberi di Natale. Nella Terza Avenue, gli autobus sfrecciavano via in branco, illuminati a festa come sale operatorie, con ciascun finestrino che conteneva più teste moribonde. Qualche metro più avanti a me c’era un uomo con una radiolina. Attraversò la strada stringendosela all’orecchio, senza prestare la minima attenzione al traffico. Gli tenni dietro per cinque isolati, e lui non abbassò la radio neppure una volta. Lo affiancai. Ascoltava le previsioni del tempo mormorando fra sé, o forse dialogava con la radio. Era molto più giovane di quanto immaginassi, un ragazzino sui quindici anni, tondo e chiazzato, con uno sguardo enigmatico offuscato dalla ciccia infantile, e aveva quell’aspetto da lieve ritardo mentale tipico del genio in erba: la stessa astuzia rapace e grifagna dei collezionisti metropolitani di stracci e bottiglie vuote, grandi campioni evolutivi dell’arte della sopravvivenza. Il ragazzo mi guardò.
«Il bollettino della neve» disse.
Non mi era mai piaciuto avvicinarmi troppo a gente del
genere. Attraversai la Terza Avenue in fretta. Avevo percorso meno di un isolato che lo sentii gridarmi dietro qualcosa. Era fermo dall’altra parte della strada, vicino a un lampione, con le mani a imbuto sulla bocca a chiamarmi e la radio sotto l’ascella, la sagoma corpulenta che scompariva e riappariva tra le macchine e gli autobus che sfrecciavano fra noi, come una successione di diapositive.
«Arriva!» urlò. «L’hanno appena annunciato. Scenderà da un momento all’altro. Otto centimetri entro mezzanotte. Bisogna lasciar libere le corsie di emergenza. Il sindaco consiglia di non usare l’automobile se non in caso di necessità. Da un momento all’altro. Otto-dieci centimetri. La neve! La neve! La neve!»