E poi fu notte e poi di nuovo mattina

Negli ultimi giorni di maggio – e delle sua vita – Zaira ricevette molte visite.
Il dottor Gandolfi, anzitutto. Ogni mattina, prima di aprire l’ambulatorio, passava da lei nel suo alone di ottimo dopobarba e si intratteneva i pochi minuti che lei gli concedeva, giusto il tempo di un galante complimento per il colorito roseo e l’aspetto disteso del vecchio viso, che sapeva bene essere l’effetto di un discreto filo di cipria. Lei lo aspettava eretta sui cuscini del grande letto, fra lenzuola candide di corredo signorile e con un paio di civettuole pantofole azzurre lì a fianco, come a suggerire l’intenzione di alzarsi a momenti. Ma anche questa non era che un’elegante finzione, da entrambi accettata con altrettanta eleganza.
Per avere notizie sulla sua salute, il medico si rivolgeva a Clara, la governante, che in cucina gli serviva il caffè, un ottimo caffè distillato con pazienza goccia a goccia come non ne beveva in nessun altro salotto presso i suoi pazienti altolocati. Le chiedeva se avesse dormito e come, mangiato e quanto. Ne riceveva risposte generiche e riservate, come se la cosa non fosse affar suo. E non lo era, infatti. Non più. Da tempo Zaira non gli permetteva nemmeno di tastarle il polso, lo riceveva solo per cortesia ma senza dargli modo di esercitare il suo ministero.

Gioia, la nipote più giovane, si affacciava alla stanza più volte durante la settimana, di ritorno dalle lezioni. Le mostrava tutta entusiasta le foto del suo cucciolo, a volte le faceva ascoltare l’ultimo pezzo per oboe che stava studiando. Un’anima luminosa e vivace, e due mani piene di grazia. Dopo che se n’era andata, a Zaira sembrava che il tramonto indugiasse di più e più dorato dietro la vasta finestra, come quando era giovane lei. A quell’ora Clara le portava il tè nella tazza inglese, e lei gentilmente ne beveva giusto il numero di sorsi sufficienti per non deluderla. Poi chiedeva di restare da sola e cercava di assopirsi rivivendo le frasi e i sorrisi della nipote, che somigliava così tanto a lei e così poco a tutti gli altri della famiglia.

I figli venivano le domeniche, quasi tutte. Il caffè, una breve conversazione appropriata e generica, tanta formalità, la paura segreta di toccare temi troppo personali come la salute, il futuro. Si trovava sempre qualcosa di poco impegnativo di cui parlare, come una laurea, un viaggio, il nuovo giardiniere. Anche dopo quelle visite i pomeriggi sembravano non finire mai, ma il sapore che lasciavano non era dolce del tutto.

Le sembrava che maggio si stesse facendo sempre più caldo. A metà mattina il sole girava l’angolo della villa e lambiva la terrazza; Clara interveniva puntuale per accostare mezza imposta, solo mezza perché dal giardino saliva l’aria rinfrescata dall’irrigazione e il profumo delle rose antiche.
Dalle altre stanze a tratti le arrivava un tintinnio di tazzine o il ronzio attutito di un aspirapolvere. I rari squilli del campanello era in grado di distinguerli quasi sempre: il postino, i fornitori, il fattorino della lavanderia. Come le telefonate, non la riguardavano, o così aveva stabilito con se stessa da tempo. Le restavano il ventaglio, qualche libro sul comodino e le ombre che danzavano sullo specchio al movimento lieve delle tende.

Gesuina arrivò una sera sul tardi, da molto lontano. Venezuela. Qualcuno stava dando una festa in una villa nei paraggi, e le note di una musica sudamericana portarono con sé anche lei, dopo tanti anni, vestita da india e con le braccia scure di sole. L’ultima volta che l’aveva vista era una bambina in braccio a una monaca, e gliela stavano portando via perché la madre si era rifatta viva e la rivoleva, e lei aveva dovuto lasciarla andare e accettare di non saperne più nulla.
“Ma tu devi stare tranquilla”, le disse Gesuina. “Ho sposato un brav’uomo e siamo emigrati per sistemarci. Abbiamo messo su una piccola azienda, con campi, vacche, banani. Stiamo bene. I nostri figli lavorano con noi, ormai abbiamo anche i nipoti e possiamo invecchiare in pace”.
“Dicevo di te che eri figlia dei bombardamenti”, le ricordò Zaira affettuosamente. “Le bombe di gennaio ti fecero nascere prematura, e quelle di giugno sventrarono l’orfanotrofio dove ti avevano abbandonata e misero in fuga le monache. Ma prima riuscirono ad affidare alcuni bambini a famiglie che potevano, e tu venisti a noi, a me. Ho sempre saputo che era solo per un po’ di tempo. E fu infatti poco, due anni. Ma adesso sei tornata per dirmi che ce l’hai fatta”.
Si sentiva stanca, molto stanca, come dopo una grande felicità. Gesuina se ne andò lasciandola addormentata, e intanto la musica della festa si era smagliata tra le fronde degli oleandri e lungo il viale non restavano che i lampioni accesi e le loro falene intorno.

La luce nella stanza era diafana come se avesse nevicato. Zaira si disse che era troppo vecchia per stupirsi di qualcosa, e del resto sentiva freddo davvero. “Ora chiamo Clara e le chiedo una coperta”, pensò. Ma in quel momento qualcuno le posò un plaid scozzese sulle gambe, dispiegandolo con cura e senza peso. Le pareva già di stare meglio. “Grazie”, disse.
L’uomo con la giacca di tweed era tornato a sedersi di fronte a lei e aveva riaperto il libro che stava leggendo. Era uno sconosciuto, ma il sorriso con cui la guardava si sarebbe potuto definire amorevole.
“Jean, sei tu?”
“Sì. E noi siamo ancora sul notturno Parigi-Venezia”.
“Siamo fermi in Svizzera per la neve?”
“Stanno lavorando sulla linea. Gli inservienti stanno distribuendo coperte, dicono che ripartiremo verso mattina”.
Zaira rifletté.
“Tu stai andando a un convegno a Milano”.
“E tu a rivedere tuo padre in ospedale. Sei molto in ansia, temi di non arrivare in tempo”.
“Ho fatto in tempo. Mi ha aspettato”.
Zaira tornò a chiudere gli occhi. Si sentiva al sicuro con Jean accanto. Da lontano le sembrava di sentire il raschio degli attrezzi degli spalaneve, tra gli alti pini delle alpi svizzere. Era come tornare bambina la notte di Natale, col sonno leggero e i fruscii dell’inverno dietro le finestre. Soprattutto con la certezza che qualcuno vegliasse su di lei. Anche se era un perfetto sconosciuto con il quale divideva ore insolite di un viaggio notturno. O forse a maggior ragione.
C’era stato un bacio, sì. Alcuni baci. Nati dall’attesa, dall’incertezza, dalla tenerezza di due solitudini in mezzo a una notte molto lunga e molto sospesa. Niente di più, solo un lieve ricordo negli anni, come di un dono giunto per caso al momento giusto lontanissimo da casa.
“Ecco”, disse Jean dopo un po’.
“Ci stiamo muovendo?”
“Ha smesso di nevicare. È tutto ciò che so”.

Erano nuvole estive. O forse le tende leggere che oscillavano appena alla brezza di mezzogiorno. No, non erano nemmeno quelle. Era Guido che varcava adagio la soglia della terrazza in completo di lino bianco. Come le tende, come le nuvole.
“Ti sta benissimo, quel completo da crociera”, gli disse Zaira dopo averlo studiato.
“È per il nostro giro del mondo, ricordi?”
Aveva sempre quel sorriso malandrino, invecchiato con lui e con le loro vite.
“E quando ci imbarchiamo?”
“Appena sei pronta”.
“Ma i bambini?”, chiese Zaira con improvvisa apprensione.
“Sono in buone mani, stai tranquilla. Ora è il nostro momento e non pensare ad altro”.
“Non vorrei dimenticare niente, lo sai come sono fatta”.
Guido girellava per la stanza col suo Panama in mano, osservando oziosamente i dettagli che quasi settant’anni prima avevano curato insieme. Soprammobili, lampade, fotografie, gli stucchi francesi del caminetto.
“Questa puoi lasciarla qui”, disse indicando la fleboclisi accanto al letto, di cui Zaira non si era ancora accorta. “Partiamo leggeri”.
“Leggeri. Sì, lo sono. È una bella sensazione, forse è la prima volta che la provo”.
La mano di Guido sopra la sua aveva il tocco più familiare del mondo, era come aver ritrovato il pezzo mancante e averlo rimesso al suo posto su misura, combaciava senza sforzo, alla stessa temperatura e col medesimo diafano peso.
“Allora dici che posso venire così come sono?” gli chiese un’ultima volta.
“Sei bellissima così come sei”, e a quelle parole l’anello nuziale che le ballava sul dito smagrito gettò un bagliore complice.
“E com’è il mare?”
Si lessero a lungo negli occhi, che avevano entrambi azzurri, trovando insieme e nello stesso istante la risposta che avevano saputo da sempre. Com’è il mare? Com’è il mare?
“Calmo e profondo”.

Unisci i puntini

Il garzone
Mi chiamo Giuliano Poletto, ho diciotto anni. Tra un mese parto militare perché a scuola mi hanno già bocciato due volte. Stamattina ero in giro in bicicletta per distribuire volantini pubblicitari del negozio di alimentari di mio papà. Stavo infilandoli nelle buche delle lettere di quella palazzina quando ho alzato gli occhi e l’ho vista letteralmente cadere. Non l’ho vista buttarsi, e neanche toccare terra. L’ho vista, si può dire?, in volo. Veniva giù dall’alto come uno straccio. Infatti ho pensato per un attimo che il vento avesse fatto volare un lenzuolo steso ad asciugare, ma non c’era vento e per di più pioveva. Non ha fatto rumore. È caduta dove non potevo vedere perché c’è la siepe, probabilmente sull’erba. Ho subito suonato tutti i campanelli, anzi avrei voluto scavalcare il cancello ma ho pensato che era meglio se qualcuno mi apriva. Non rispondeva nessuno. Poi ho visto arrivare lungo il marciapiede un tale con un cane al guinzaglio e infilare le chiavi nel cancello accanto. L’ho chiamato, gli ho gridato di telefonare subito per chiedere aiuto perché qualcuno si era gettato dal balcone, ma lui mi guardava diffidente e non mi ha risposto. Ha preso il cane in braccio ed è entrato chiudendosi dietro il cancello.

Il domestico
Manuel De La Cruz. Filippino. Documenti in regola. Da sei mesi sono al servizio della famiglia Prosdocimi, con mia moglie. Stamattina rientravo con il cagnolino della signora e un giovanotto molto agitato voleva costringermi a fare una telefonata. Parlava di una disgrazia, ma io non ho visto niente. Ho portato dentro il cane e gli ho pulito bene le zampe bagnate prima di entrare in casa, come mi hanno ordinato. Io avrei anche voluto farla, quella telefonata, ma la signora stava dormendo e mia moglie mi ha consigliato di non mettermi in qualche guaio perché siamo stranieri. In regola, ma stranieri. Il signore è in viaggio d’affari. E il telefono del resto ha il lucchetto perché hanno paura che lo usiamo per chiamare i parenti a Manila. Poi però qualcuno deve aver telefonato perché entro un quarto d’ora abbiamo sentito la sirena di un’ambulanza. Non so altro, e nemmeno mia moglie. Abbiamo continuato i nostri lavori come sempre e la signora non si è svegliata.

La vicina
Io veramente ho capito subito che c’era qualcosa che non andava perché stavo sbattendo il tappetino del bagno e dalla finestra ho sentito quel ragazzo tutto agitato contro quella sfinge del filippino. Mi chiamo Maria Mirella Ongaro, abito lì di fronte. A me quel filippino non è mai piaciuto, e neanche sua moglie. Camminano sempre rasente i muri, non salutano, stanno per conto loro. Se gli parli, fingono di non conoscere bene l’italiano. A forza di servire in quella famiglia sono diventati presuntuosi come loro. Comunque sì, sono stata io a chiamare l’ambulanza. A Giuliano ho creduto subito perché lo conosco, è un bravo ragazzo e suo papà ha un negozio molto serio, anche se i prezzi… No, la signora che si è fatta male non la conosco. Ho immaginato che fosse quella nuova, quella che ha traslocato qua nei giorni scorsi, ma ancora non l’avevo mai incontrata di persona. Dopo la telefonata sono corsa fuori a vedere. Ho preso l’ombrello, perché pioveva. Devo dire la verità: non ho visto granché, perché intanto era arrivata anche la polizia e non hanno permesso a nessuno di avvicinarsi. Povera donna, mi dispiace. Mah, speriamo che se la cavi.

La vecchia signora
Mi chiamo Maria Toffanin, vedova Scarpa. Sì, l’ho sentito il campanello, ha suonato più volte, ma lei capisce: ho 88 anni e mi muovo a fatica. Ci ho messo il mio tempo ad arrivare in ingresso. Ho aperto il portoncino e ho visto il ragazzo del signor Poletto che si sbracciava. Non sentivo bene cosa diceva, però era molto agitato e così ho aperto il cancello perché lo conosco. È corso subito verso il lato della casa dicendomi di non muovermi, poi è tornato da me bianco come un morto e di nuovo mi ha detto di rientrare e non affacciarmi dalla finestra, perché era successa una disgrazia. L’ho fatto entrare per telefonare… poverino, è così educato, pensi che si è scusato per le scarpe sporche, perché pioveva. Sono tre giorni che piove, sembra proprio autunno, non le pare? Comunque quando ha messo giù il telefono mi ha detto che qualcuno lo aveva preceduto e che i soccorsi erano già partiti. Io la signora del secondo piano l’ho vista solo un paio di volte. Era arrivata dieci giorni fa, da fuori. Si è scusata con me per il trambusto del trasloco. Tanto gentile anche lei. Le ho detto che sono un po’ sorda e che non si preoccupasse. Poi stamattina l’ho vista uscire prestino e tornare dopo mezz’ora con un mazzo di fiori e un pacchetto della pasticceria. Era un po’ impacciata a usare le chiavi perché con una mano teneva l’ombrello. L’ho salutata dalla finestra. Una persona a posto, normale. Che sappia io, non aveva ancora ricevuto visite. Il pomeriggio usciva a passeggiare. Sembrava un po’ sola, ma in fondo era appena arrivata.

 Il tassista
Ho raccolto una signora all’imbarcadero. Aveva una piccola valigia, così ho capito che era arrivata in treno alla stazione di Venezia. Mi ha dato l’indirizzo e lungo il tragitto ha risposto in modo molto formale a una mia osservazione sul tempo. Tutto qua. Arrivato nei pressi della destinazione, c’era un vigile che bloccava il passaggio e ho dovuto fermarmi. La signora è scesa con la sua valigia e l’ombrello, mi ha pagato e è rimasta lì incerta per qualche istante. Avrei voluto chiederle se intendeva tornare indietro o essere accompagnata da un’altra parte, ma il vigile mi ha fatto allontanare in fretta. Tutta la strada in retromarcia, ho dovuto fare. Non ho visto niente, solo la macchina dei vigili e il lampeggiante di un’ambulanza. E un po’ di gente che curiosava, con gli ombrelli aperti.

 I paramedici
Abbiamo ricevuto la chiamata alle 10 e venti, e dopo otto minuti eravamo sul posto. La vittima era viva ma senza conoscenza. Abbiamo visto subito che presentava diverse fratture agli arti, ma la cosa più evidente era il forte trauma cranico. Per puro caso, l’impatto è avvenuto nella stretta striscia d’erba tra il marciapiede che corre intorno all’edificio e la bordura di pietre delle aiole. Ci siamo adoperati per verificare i parametri vitali e predisporla per il trasporto. Maneggiare i politraumatizzati richiede molta cautela e competenza, sa. C’era con noi anche un medico del Presidio, per fortuna, che si è preso tutte le responsabilità. C’è voluta comunque oltre mezz’ora per stabilizzarla e arrischiarci a caricarla in ambulanza. Nel frattempo era arrivata la polizia e anche un’auto dei vigili, che ci hanno scortati a tutta velocità al Pronto Soccorso. Con la radiomobile avevamo già allertato i colleghi e anche il servizio di idroambulanze per un tempestivo trasferimento all’ospedale di Venezia. Da quando hanno chiuso l’Ospedale al Mare, qua al Lido abbiamo solo un misero presidio di primissimo soccorso. Roba da terzo mondo, una vergogna.

 La pattuglia
Siamo arrivati quasi contemporaneamente all’ambulanza. Abbiamo chiamato anche due vigili urbani per tenere l’area sotto controllo mentre noi facevamo le nostre verifiche. La dinamica sembrava chiara: tentato suicidio. Tuttavia è nostro primo dovere escludere atti criminosi, perciò siamo saliti nell’appartamento della vittima, al secondo e ultimo piano della palazzina. Lungo le scale non c’erano tracce di scarpe, benché piovesse, e comunque il portoncino era chiuso dall’interno con una catenella, segno che non era entrato alcun estraneo. Abbiamo dovuto aspettare il fabbro perché ci aprisse, e nel frattempo abbiamo fatto qualche domanda in giro. L’unica inquilina presente è la signora del pianterreno, di età molto avanzata, che non ha saputo fornirci notizie di rilievo. Il primo piano è al momento disabitato: la famiglia che vi risiede pare sia in vacanza all’estero. Il garzone che ha scoperto la disgrazia era sotto shock,  è chiaro che non c’entra nulla. Gli altri vicini sono stati tutti concordi nel negare di conoscere la vittima, che risulta essersi stabilita nell’appartamento solo da pochi giorni. All’interno c’erano in effetti segni di un recente restauro, come un certo odore di pittura fresca e di cera per pavimenti. Qua e là ci sono ancora scatoloni da svuotare. Le stanze sono complessivamente in ordine, forse un po’ sguarnite; mancano quadri e soprammobili, nel salone non ci sono ancora le tende. In particolare, la camera degli ospiti era in perfetto ordine; sul cassettone c’era un vaso di fiori freschi, sul comodino una cornice d’argento con una vecchia fotografia, l’unica trovata in casa. Non abbiamo rinvenuto nulla fuori posto. In bagno, cosmetici e una confezione di aspirina. Nessun altro farmaco in tutta la casa, e nemmeno alcol, salvo una bottiglia di vino bianco in frigo e una di cognac di marca in sala da pranzo, entrambe sigillate. Sul tavolino, un vassoio di dolci ancora avvolti nella carta della pasticceria. Apparentemente la signora si accingeva a ricevere una visita, e lo dimostrerebbe anche la cura dell’abito che indossava.
Ma la domanda è: perché si sarebbe gettata volontariamente dalla terrazza, se nulla la minacciava? Speriamo che qualcuno abbia la risposta, stiamo cercando qualche familiare. Per ora, pare ci sia solo una vecchia amica in grado, forse, di chiarire qualche aspetto di questa strana vicenda.

 Laura
Sono arrivata alla stazione verso le dieci. Ho preso il diretto per il Lido, poi un taxi. Avevo una valigia e pioveva. Il tassista mi ha fatta scendere qualche decina di metri prima perché c’era un blocco. Ho visto poliziotti e un’ambulanza. Non sapevo cosa fare. Mi sono avvicinata al cancello ma un agente mi ha fermata e mi ha chiesto dove andavo. Gli ho risposto che andavo a trovare un’amica. Così ho saputo che l’amica che andavo a trovare aveva tentato il suicidio. E subito lui ha voluto sapere molte altre cose, perché nessuno la conosceva e stavano cercando qualcuno della famiglia da avvertire.
Io la conosco da almeno trent’anni. Eravamo compagne al liceo, qui al Lido, dove io sono nata; lei ci viveva temporaneamente con la famiglia. Dopo la scuola ci siamo separate, abbiamo lasciato Venezia tutte e due; lei con i suoi a Milano, io con i miei a Trieste. Era lei che teneva i contatti, mi scriveva, mi telefonava. Per me non era una vera amicizia, lo era più per lei. Mi si era molto affezionata, mi cercava. La cosa strana è che siamo così diverse… lei brillante, ricca, un po’ eccentrica, io invece una persona molto normale, molto pratica, e anche piuttosto riservata. A scuola ero brava, forse per questo le piaceva stare con me perché si sentiva come obbligata a studiare un po’ più seriamente. Mi invitava alle feste, in spiaggia d’estate, a passeggiare per Venezia. Un tipo molto particolare. Esuberante, ma anche ingenua. Si innamorava come niente, e come niente le passava. Per lettera mi raccontava i suoi incontri, i litigi col fratello… fratellastro, per la verità, figlio di primo letto di suo padre… e poi i viaggi, i divertimenti. Sempre piena di amici. Io intanto mi ero laureata, sposata, lavoravo all’università come biologa, ho sempre fatto una vita tranquilla e regolare. A Venezia, e al Lido, sono tornata poche volte. Lei ne aveva conservato una nostalgia fortissima. L’ultima volta che ci siamo viste è stato due anni fa, proprio a Venezia, per il funerale di una nostra vecchia compagna di classe morta di leucemia. In quell’occasione portava occhiali scuri e pareva affranta. Dopo la messa mi ha trascinata via e abbiamo girato per ore nei nostri vecchi posti; lei parlava tantissimo, diceva che stava cercando casa per tornare a vivere al Lido, che era il suo sogno. Voleva stabilirsi al Lido e magari aprire un piccolo centro yoga, lei aveva un po’ la mania di queste cose orientali… A Milano aveva fatto tante cose: teatro, fotografia, per un po’ aveva avuto una boutique in cui confessava di annoiarsi moltissimo. I suoi erano morti, le avevano lasciato un patrimonio che aveva dovuto spartire con il fratellastro. Molto più vecchio di lei, un tipo sinistro attaccatissimo al denaro. Vive in Svizzera. Non so se ci siano altri parenti, dovrete chiedere a lui.
Poi qualche mese fa mi ha telefonato tutta euforica: aveva trovato l’appartamento giusto e mi invitava ad andare a trovarla non appena avesse traslocato. Per settimane mi ha tenuta al corrente di tutto, programmando nei particolari questa visita. Ci teneva moltissimo a farmi vedere la sua nuova casa, voleva che la aiutassi ad arredarla. Aveva progettato tutta una serie di pellegrinaggi sentimentali nei posti della nostra adolescenza, e sperava di rintracciare, con il mio aiuto, qualche vecchia conoscenza di allora. Ne parlava come dell’inizio di una nuova vita. A me sembrò assolutamente felice.
Non so cosa le sia successo. Dicono che in casa non hanno trovato biglietti, né farmaci né qualche segno di disagio… dicono che nella mia camera aveva messo dei fiori freschi e una vecchia fotografia di classe dell’ultimo anno del liceo. Io ero la penultima a destra, lei accanto a me mi teneva il braccio e sorrideva raggiante.
Dicono poi che non ci sono indizi che mettano in dubbio un gesto volontario. Forse non premeditato, ma sicuramente volontario. Era lì che mi aspettava, aveva messo il vino in fresco e si era vestita con la solita cura, poi d’improvviso. D’improvviso. Ha aperto la porta finestra, è uscita in terrazza, si è tolta le scarpe che la impacciavano e ha scavalcato il parapetto per lasciarsi cadere nel vuoto. La sua vita sembrava così felicemente piena, eppure ha scelto il vuoto. Capisco che la polizia non se lo sappia spiegare. Però penso che nessuno abbia veramente il diritto di pretendere una risposta al suo gesto. Sono cose sue.
Ora dicono che è in sala operatoria e lotta per la vita, ma quale vita? Le lesioni cerebrali sembrano irreversibili. Se anche si risvegliasse, nessuno potrà mai chiederle perché l’ha fatto. Io per prima non glielo chiederei.

Ho preso una camera in una pensione. Villa Edera. Era già vecchiotta quando ero giovane io, e adesso è ancora più dolcemente scalcagnata. Ma per ora mi fermo un po’, non posso ripartire. Anche se all’ospedale non mi daranno notizie perché non sono della famiglia. Anche se lei non saprà forse mai che sono qui per starle vicina. Magari me ne andrò se e quando arriverà suo fratello dalla Svizzera. Resto qui, nel salottino di Villa Edera. Guardo la pioggia fuori. Forse, se smette un po’, esco e vado a vedere il mare.

Madame, ou la promenade

Mi sono persa nel bosco, ma mantengo la mia compostezza.
E non è nemmeno vero che mi sia persa; casomai mi sono ritrovata, in questo bosco dove comunque è impossibile perdersi. Qui gli alberi non sono sbarre opprimenti di prigione, né inciampi sotto le zampe del mio cavallo, bensì tenui trasparenze che accolgono il nostro passaggio e si fondono con le nostre forme in un unico fluire come di risacca. La natura ci accarezza sotto le nostre carezze, diventiamo esili tronchi noi stessi che si ricompongono subito dopo il nostro passaggio, mentre noi filtriamo in foglie, in cielo, in nebbiolina. È un trapasso senza ferite né cicatrici, uno scambio di dolci sfioramenti e abbandoni. Ci diamo e ci trasformiamo come le sfumature dell’acqua in una laguna tranquilla. Transitiamo in un sistema di vasi comunicanti che nulla perdono e tutto rispettano. Attimi di lunare pienezza nel vivo di giornate cruente fra le mura troppo ornate di una casa troppo grande, troppo fastosa, troppo invadente. Attimi quasi di apnea come di pesci a pelo d’acqua. Si potrebbe sentire il vecchio fruscio della Terra che gira su se stessa e regola gli orologi degli uomini, togliendo il sonno a quelli che puntano tutto sul futuro dimenticando di dissetarsi.

Tra poco tornerò, tornerò al mio posto fra i candelabri, le tappezzerie, i domestici, il grammofono che starà suonando qualcosa di Stravinskij, gli specchi e gli armadi e le fatuità da salotto, la poltrona e il cognac di mio marito, e poi ancora lui, stasera, a bussare alla mia porta. Lui che non sa, non immagina, non può nemmeno concepire che le cose possano essere molto, oh molto diverse da ciò che sembrano.

nell’immagine: René Magritte, Le blanc-seing, 1965

Train de nuit

Il notturno Venezia-Parigi è pronto a partire sul primo binario. Inservienti in livrea assistono i viaggiatori e i loro lussuosi bagagli, mentre sul binario accanto il polveroso regionale accoglie i ritardatari affannati che tornano alle loro case di campagna dopo la giornata di lavoro. È l’ultima corsa e c’è poca gente, nessun turista perché siamo in inverno, è una nottata gelida in cui i lampioni brillano di una luce siderale e i vetri si appannano al primo fiato.
Una donna, una signora in elegante mantella foderata di pelliccia, con una piccola valigia di gran firma, viaggiatrice ideale di un Orient Express, delude il capotreno gallonato già pronto ad aiutarla a salire sul treno dei ricchi, e sale senza aiuto sul trenino proletario, dal riscaldamento incerto e dai sedili chiazzati. Trova posto accanto a un finestrino, si abbassa il cappotto sulle spalle, si sfila i guanti, li ripone con cura nella borsetta, si assesta il foulard intorno al collo, controlla l’orologino d’oro bianco, poi assume una posizione composta e riservata, il volto appena girato verso il vetro.
Il regionale parte lentamente, faticosamente, con qualche cigolio imbarazzante. Il notturno di lusso è ancora lì, rimane indietro, ronfa elegantemente in attesa di partire al perfetto scoccare del suo orario con un fruscio maestoso. Raggiungerà il regionale a Mestre, lo costringerà a prolungare la sosta finché non sarà transitato e avrà preso possesso della linea principale, filando dritto e senza scosse verso la prima delle poche e prestigiose stazioni del suo percorso, che si concluderà domattina nel sole velato di Parigi che si sveglia al profumo di baguette e caffè.
Il regionale fa lo stesso numero di fermate ma lungo una tratta di una trentina di chilometri. Nel buio, toccherà sei o sette stazioncine buie e deserte anche esse, lasciando in ognuna di esse una, due persone, non di più, a intirizzirsi verso un parcheggio o una casetta illuminata.
La signora ha piccoli brillanti alle orecchie, un viso pallido e bellissimo, mani da principessa, scarpine da ballo. Una donna di classe. Nessun anello alle dita, solo uno sguardo contratto e la cornice di due piccole rughe d’espressione. Il controllore che le vidima il biglietto lo trova in regola e la saluta toccandosi il berretto.
Tratti di campagna sono costellati da luci di sorveglianza di fabbriche, altri completamente bui. Il vetro è grigiastro e solcato da goccioline che deformano la vista e rendono irriconoscibili i luoghi.  Il treno si approfonda in quel buio, nel cuore misterioso della notte. A metà di uno dei tratti di più fitta oscurità, là dove non si percepiscono le distanze né segni di vita, come negli abissi di un oceano preistorico, emerge fievole il chiarore del cartello di una stazione, la più piccola, la più sperduta, la più inutile di tutta la tratta.
È qui che scende la signora, con gesti fluidi che non lasciano segno né rumore. È sulla banchina deserta con la sua valigia di marca, la mantella ben chiusa, le scarpe che luccicano debolmente sotto il lampione. Nessuno la aspetta. Di là dalla strada, la vecchia locanda della bocciofila è sprangata per turno di riposo. Non ci sono taxi, case, semafori. Il paese dista qualche chilometro di strada non illuminata che rasenta un canale e vaste campagne ora dormienti sotto spruzzi di neve congelata. L’aria taglia il fiato, il selciato scricchiola di nevischio sotto i passi. Per molto spazio intorno ogni cosa dorme raggomitolata e ignara, con l’alibi della sopravvivenza contro l’inverno e la solitudine.
La viaggiatrice indugia solo un attimo nel cono di luce del lampione, poi lo varca e si inoltra nella notte, facendosi lei stessa notte e lasciando solo domande che si spengono.

Hotel du Lac

Il libro che ho presentato ieri sera in biblioteca al pubblico dei circa trenta Lettori Assatanati del Venerdì è dell’inglese Anita Brookner, oggi ottantaquattrenne, una storica e critica dell’arte che ha insegnato a lungo all’università di Cambridge. È però anche una valente scrittrice, più nota nei Paesi anglofoni che in Italia, ed è stata paragonata a nomi del calibro di Henry James, Jane Austen e Virginia Woolf. Con questo romanzo, Hotel du lac, del 1984, ha vinto il massimo premio letterario d’Inghilterra, il Booker Prize, che equivale al nostro Campiello o allo Strega.

L’ho letto per due motivi. Anzitutto mi è stato consigliato da mia sorella (sì, la cito spesso, ma converrete che ha un suo perché), la quale come lettrice è ancora più assatanata di me e poi legge in lingua originale ed è anche una meticolosa conoscitrice di Virginia Woolf, che anche questo ha un suo perché. Il secondo motivo è che il titolo suggerisce una vicenda ambientata in un albergo. L’idea di un albergo mi interessava perché è uno di quei posti, come chessò un condominio, un treno, una sala d’aspetto eccetera, anche solo una banale coda a uno sportello, in cui va e viene un’umanità varia, fatta di sconosciuti di passaggio che magari non hanno motivo di parlarsi ma che portano, ognuno, una propria storia nascosta. Quindi un ambiente che si presta moltissimo per uno studio di caratteri, un ambiente che molti scrittori amano riprodurre perché consente loro di mettere in scena molte storie diverse all’interno di un’unica storia, con un filo conduttore non troppo vincolante, che lascia ampio spazio all’immaginazione e alla riflessione.
La vicenda dunque si svolge in un vecchio e distinto albergo sul lago di Ginevra, dallo stile aristocratico e forse appena appena un po’ decaduto, ma sempre frequentato da persone altolocate in cerca di un soggiorno tranquillo e confortevole. La stagione è l’inizio dell’autunno, quando ormai i villeggianti più giovani e animati sono ripartiti e rimangono solo ospiti di una certa età, ovviamente facoltosi. In questo albergo arriva Edith, scrittrice quasi quarantenne, una figura dimessa, riservata, malinconica, per un soggiorno che potremmo definire coatto: non è una vera vacanza, bensì una specie di esilio temporaneo cui è stata costretta in seguito a uno scandalo di cui è stata al centro, e che verrà rivelato solo intorno alla metà del romanzo. Edith scrive storie romantiche e ha un buon successo; si è scelta uno pseudonimo le cui iniziali sono V, come Virginia, e W, come Woolf. Anche nell’aspetto somiglia alla grande scrittrice, glielo dicono tutti, e questo particolare ha un suo retroscena curioso nella realtà perché la stessa Brookner, come dicevo, è stata paragonata a Virginia Woolf, e devo dire che sono piuttosto d’accordo.
Questa Edith è un’eroina un po’ fuori moda, se vogliamo, di quelle in gonna di tweed e cardigan; una donna che può ormai dirsi quasi una zitella, che non ha avuto molta fortuna con gli uomini, che ha una relazione segreta con un uomo sposato che non lascerà mai sua moglie, che si aspetta dalle amicizie qualcosa di più che parole e gesti convenzionali. Una donna che vive in penombra, abituata più a subire che a essere protagonista. E in questo momento della sua vita si trova, volente o nolente, nella condizione di doversi tenere ancora più in disparte, e di questa quarantena forzata approfitta per tentare di completare il suo ultimo romanzo ma anche di sottoporre ad autocritica la sua esistenza sull’orlo del fallimento.
All’albergo si trova obbligata dalla buona educazione a frequentare gli altri ospiti. I personaggi più importanti e meglio delineati sono tutti femminili, e la loro funzione è principalmente quella di esaltare il confronto con la protagonista perché tutti, in un modo o nell’altro, rappresentano un mondo di ricchezza, superficialità, vanità, camuffate da successo.
C’è una vecchia nobildonna completamente sorda e per nulla socievole, Mme de Bonneuil: una donna anziana, molto piccola, con la faccia simile a quella di un bulldog, e gambe così arcuate che sembrava ondeggiare da una parte e dall’altra nello sforzo di tenersi in piedi.
Un’altra, più giovane, dall’aspetto affascinante, si chiama Monica: una donna alta, di straordinaria magrezza, con la testa stretta e ciondolante di un uccellino. In lei tutto sembrava esagerato: la statura, la lunghezza delle sue straordinarie dita, la voce imperiosa, gli enormi occhi color ostrica dietro le lenti scure degli occhiali.
Ci sono due donne inseparabili, madre e figlia, Iris e Jennifer, che solo da vicino rivelano la loro vera età: quasi ottanta la prima e verso i quaranta la seconda, ma entrambe giocano a fare le sirene, sono belle, ricche, lussuosamente vestite e ingioiellate, sempre al centro dell’attenzione, ostentando la loro familiarità con gli ambienti più raffinati.
All’inizio Edith è in imbarazzo nei confronti di queste donne così diverse da lei, ma poco a poco capisce che ognuna di loro è una maschera. La nobildonna è una vecchia sola, trascurata dal figlio e dalla nuora e isolata dal mondo anche a causa della sua sordità. La bella donna magra che sembra una flessuosa danzatrice nasconde una storia di nevrosi e frustrazioni. Madre e figlia, così incantevoli, sono in realtà due persone arroganti, superficiali e meschine.
Nel cast vi sono anche degli uomini, ma sono delineati meno acutamente e in fondo si somigliano un po’ tutti. L’autrice, e questo secondo me è un suo limite, li ha disegnati secondo lo stereotipo del maschio egoista che non capisce i misteri della sensibilità femminile e che bada prima di tutto alla propria immagine di uomo arrivato e rispettabile.

Il romanzo si basa quasi tutto su questa analisi di caratteri. C’è pochissima azione, a parte l’antefatto dello scandalo che qui non rivelerò per rispetto di chi volesse scoprirlo da solo; viceversa c’è molta atmosfera, ed è questo che me lo ha fatto apprezzare. Ho anche apprezzato il finale, in cui la protagonista sembra aver preso maggiore coscienza di sé e all’ultimo momento riuscirà ad evitare  un altro ennesimo errore.
È una storia in cui l’amore ha il suo peso ma per fortuna non è trattato con eccessivo sentimentalismo, altrimenti non avrei letto fino in fondo. La mano femminile si avverte molto proprio nella capacità analitica e descrittiva e nell’eleganza raffinata dello stile. Un romanzo con un suo fascino, che può fare compagnia senza deprimere, adatto però più a un pubblico femminile.

Sono io, sei tu?

– Pronto?
– Ciao Andreina, sono io.
– Chi parla, scusi?
– Sono io, la Olga.
– E chi sta cercando?
– Sto cercando l’Andreina. Non sei l’Andreina?
– No, mi dispiace, qui non c’è nessuna Andreina. Deve avere sbagliato numero.
– Oh, mi scusi tanto.
– Si figuri. 

– Pronto?
– Andreina?
– No, signora, non sono Andreina. Sono quella di prima.
– Non mi dica che ho sbagliato di nuovo!
– Succede.
– Non so come scusarmi, mi creda.
– Non c’è problema. Buona giornata. 

– Pronto?
– Andreina? Finalmente sei tu, ho riconosciuto la voce. Pensa che ho sbagliato numero due volte, sono così impacciata con questo telefono nuovo…
– Signora guardi che sono anco…
– Tutte e due le volte mi ha risposto la stessa signora, una persona gentilissima per fortuna, non se l’è presa perché l’ho disturbata. E magari l’avrò interrotta in qualcosa di importante…
– In effetti stavo mescolando la besciam…
– Ma è stata molto paziente, devo dire. Devo avere sbagliato numero, un po’ perché ci vedo così così e un po’ perché ancora non mi sono abituata a questo telefono con i bottoni. Mi trovavo meglio col mio vecchio apparecchio con il disco che girava, se proprio non vedevo bene i numeri contavo i buchi con la punta dell’indice.
– Signora, prima che continui lasci che le dica che ha sba…
– Non è che ti disturbo a quest’ora, vero? Se hai un po’ di tempo avrei delle cose da raccontarti. Anzitutto come avrai capito non sono più a casa mia. Eh sì, te lo avevo detto che prima o poi… infatti ho fatto il grande passo, mi sono trasferita qua la settimana scorsa. Mio figlio era tanto che insisteva, così alla fine mi sono convinta.
– Signora, se si ferma un attimo le posso spiega…
– Per essere un bel posto, è un bel posto, niente da dire. Mi fanno tutto. Mi lavano, mi vestono, mi servono in tavola. Tutto pulito, tutto organizzato. Ho una camera abbastanza luminosa, un po’ piccolina se vogliamo, ma mi permettono di tenere il mio televisore, la mia poltrona, qualche oggetto. Il telefono è della casa, di quelli nuovi coi bottoni. Ho un mio numero privato, posso chiamare e ricevere quanto voglio. La bolletta la pago a parte, il resto è tutto compreso nella retta, anche la lavanderia. Ma aspetta, non ti ho nemmeno chiesto come stai.
– Io signora sto benissimo ma starei ancora meglio se mi lasciasse parlare e mi ascol…
– Perciò puoi chiamarmi quando vuoi, meglio ancora se vieni a trovarmi ogni tanto. Magari avvisami prima perché non vorrei essere in giro; sai qui ci portano fuori in passeggiata, c’è un grande giardino con le panchine all’ombra, anche un laghetto con i pesci rossi. Tanti di quei fiori, vedessi! Io ormai i miei non riuscivo più a seguirli, i gerani li ho dati tutti alla portinaia prima di venir via.
– Adesso metto giù.
– L’unica cosa che non mi piace di questo giardino è che è pieno di vecchi in carrozzina. Io almeno cammino ancora con le mie gambe. Con il bastone, si intende, e a passi molto prudenti. Però sto benissimo in piedi da sola. Quei vecchi mi fanno una tristezza che non ti dico. Io sarei rimasta a casa mia ancora un po’, ma mio figlio era preoccupato perché a volte mi dimentico le cose, il gas acceso, la porta aperta, sai queste piccole sbadataggini. A te non succede?
– A me succede che ho il gas acceso e la besciamella si è già bruciata, almeno quella che non è traboccata.
– Vedi? Succede a tutti. Noi poi che abbiamo una certa età. A proposito, come va il tuo ginocchio? Io ho avuto la sciatica tutto l’inverno. Un male, ma un male. Adesso qua dicono che potrei fare anche della ginnastica, loro hanno la palestra, il massaggiatore e così via. Però a te lo posso dire: sono extra che costano, e non me li posso permettere. Poi a cosa vuoi che serva la ginnastica alla mia età. Quando ero giovane andavo a ballare, ti ricordi? Venivi anche tu, ci si divertiva, i giovanotti ci corteggiavano… Eh, altri tempi, cara Andreina. Adesso c’è l’artrosi, c’è la cosa, l’ischemia, che vuoi farci.
– Continui pure, ho spento il gas.
– Un’altra cosa che mi dà un po’ fastidio è che le suore qua ci portano per forza a messa la domenica. Tu lo sai cosa penso io di queste cose. L’ultima volta che sono entrata in una chiesa è stato per sfuggire a un rastrellamento dei tedeschi nel quarantaquattro.
– Eh la miseria!
– Però cosa vuoi, queste suorine sono così carine, così convinte di fare del bene. E a me cosa costa accontentarle? Niente, mi costa, anche perché la domenica non è che qua ci siano tanti altri svaghi. Oh Dio, sì, c’è il teatrino, oppure un film o un po’ di musica, ma ti devo confessare che sto diventando un po’ sorda e non riesco a sentire tutto quello che dicono.
– Ah, è un po’ sorda! Ecco perché non mi ascolta.
– In compenso si mangia discretamente, e c’è anche una buona scelta. La sera però non si scappa: minestrina, sempre minestrina. Una malinconia, proprio. Per non parlare delle sigarette. Vietate. Si può fumare solo in giardino, ma anche in quel caso ti guardano male.
– Cazzo, l’idea di non poter fumare quando ne ho voglia mi fa venire i brividi. Lei come fa a resistere?
– C’è una signora qui, due stanze più in giù della mia, che all’inizio mi pareva una persona interessante. Fumatrice anche lei. Un paio di volte abbiamo chiacchierato un po’ in giardino, ma è un tantino sorda anche lei, e poi è in carrozzina. Si chiama Iole, è di buona famiglia, deve avere dei bei soldi. Io per fortuna ho la pensione, poi c’è la Regione che paga una quota della retta.
– Beh, è stata fortunata.
– Fai due conti e pensa se può convenire anche a te. Sarebbe bello che venissi qua anche tu, staremmo insieme e ci faremmo un sacco di compagnia. Sai che belle chiacchierate?
– Ci devo pensare. Non so se mi prenderebbero, dato che ho solo quantasei anni.
– A una certa età l’ho capito anche io che si ha diritto a un po’ di riposo, a farsi servire e riverire. Certo, non è come a casa propria, ma almeno non ci si deve preoccupare più di niente. E i figli stanno in pace anche loro. A proposito i tuoi come stanno? Saranno grandi ormai.
– Figli? Non ho mica figli, io.
– Lorenzo me lo ricordo, tanto carino, tanto studioso. Adesso sarà già alle medie. No, aspetta, Non si chiamava Lorenzo, e poi forse era tuo nipote. Eh sì per forza! Ah la mia memoria!
– Non lo dica a me…
– Salutamelo tanto, sai. Adesso però ti devo lasciare perché fra poco mi vengono a prendere per farmi il bagno. Bagno completo una volta la settimana. Mi tagliano anche le unghie, pensa. Mi viene comodissimo perché non ci vedo mica tanto bene, sai.
– Va bene, riferirò a Lorenzo. Sarà molto contento.
– Un’altra cosa. Se decidi di venire a trovarmi, guarda che domani ho intenzione di andare dalla parrucchiera con la Iole. Abbiamo anche la parrucchiera, sai? Al piano terra. Anche il barbiere. Anche un bel bar e il giornalaio. Oggi il bagno e domani la messa in piega, così se vieni mi trovi in ordine.
– Già, la parrucchiera… devo andarci anche io, devo decidermi. È che non ho mai tempo.
– Allora ti saluto. Grazie per la chiacchierata, mi ha fatto bene. Qui il tempo non passa mai. Ti aspetto, eh?
– Sì, magari un giorno di questi. Buona giornata, Olga, e stammi bene.
– Buona giornata anche a te, carissima.
– E, Olga?
– Dimmi, Andreina.
– Anche a me ha fatto bene parlare con te. Chiamami pure ogni volta che vuoi. Mi trovi sempre.

Donne in quarta

Su, fate i bravi, non siate banali, trattenevi dall’alludere, ammiccando, alla storiella delle volpe e dell’uva; lasciatemi dire, piuttosto, cosa penso della pubblicità mendace. E mi riferisco a quella perpetrata da certe scrittrici (gli uomini li prenderò casomai in considerazione in seguito) che invadono la quarta di copertina con affascinanti ritratti di sé medesime volti ad accreditare presso il pubblico dei lettori una propria immagine sublimata. Io, di costoro, diffido.
Per raggiungere l’effetto più incisivo, la scrittrice si affiderà al suo agente, generalmente un bel marpione. Costui le suggerirà tutti i dettagli cui attenersi, dal maquillage all’abbigliamento, dall’espressione del viso alla posizione delle mani, e curerà con altrettanta minuzia la scelta dello sfondo.
Per esempio, la scrittrice italiana nasce avvantaggiata. Per cominciare, potrà/dovrà avvalersi di uno pseudonimo affascinante corredato da due o anche tre cognomi dal sapore vagamente rinascimentale, o al minimo umbertiano. Si farà ritrarre in abiti  esclusivi ma sobri, niente gioielli o al più un anello, importante, che confonda le idee sul suo stato civile, e alle spalle potrà scegliere il panorama più consono alla sua cifra stilistica. Se il suo genere è la narrativa d’atmosfera, si farà trovare su una terrazza colma di piante verdi e affacciata sui tetti di Roma, seduta a un tavolino davanti a una tradizionale macchina per scrivere e a una pila di libri visibilmente vissuti. Se i suoi romanzi contengono un certo tasso erotico e le sue eroine sono donne decise e spietate, riceverà il fotografo in un luminoso appartamento milanese tutto cromo e cristalli; in questo caso è concesso un paio di orecchini sadomaso, e eventualmente l’ostentazione delle gambe inguainate in seta fumé. Nell’angolo del divano, è raccomandata la presenza, casuale, di una copia del Sole 24 Ore. La mistica che canta l’amore impossibile oppure il fantasy crepuscolare sarà sorpresa dall’obiettivo nella nicchia di una finestra affacciata su una valletta umbra o toscana, e porterà una gonnellona a fiori e una sciarpa a frange oppure un amuleto esoterico. L’ora migliore, il tramonto autunnale. Si alluderà, discretamente, alla vicinanza con una antica abbazia diroccata e forse infestata da fantasmi medievali.
La scrittrice francese esibirà un boudoir sulla rive Gauche stipato di abat-jour con le perline e di bomboniere d’argento; la sua postazione di lavoro sarà un prezioso tavolino antico spiritosamente sdrammatizzato da un femminile disordine di carte e posacenere fra i quali è opportuno venga installato un gatto placido dal pelo folto (un angora o un persiano vanno benissimo, si possono noleggiare facilmente in un buon negozio di animali). Indispensabile che da un angolo della finestra in fondo si intuisca lo svettare della torre Eiffel. O in alternativa che i cieli siano bigi e vi si veda fumare, dai mille comignoli,  Parigi. Quella che invece giocasse il personaggio schivo, si sarà ritirata in una dimora di campagna in Provenza e si presenterà in una linda cucina aperta su un giardino dove pascolano candide oche e prospera la lavanda. Farà la sua bella figura anche un cesto rustico di mele posato casualmente su una sedia impagliata.
Anche la scrittrice inglese punterà molto sulla natura, prediligendo la vecchia villa georgiana e il prato impeccabile. Ma si renderà ancora più plausibile fra le pareti foderate di libri del suo studiolo, in cui non mancheranno per alcun motivo un caminetto, un levriero e una collezione di teiere. Se è in età, imiterà l’acconciatura della Regina e avrà una stola di cachemire a cingerle morbidamente le spalle. Il tweed invece è da scartare perché ormai fuori moda.
Di scrittrici americane esistono varie tipologie. Quella di successo che descrive ambienti e vicende altolocate da soap-opera gronderà gioielli vistosi e un look da red carpet; la più avanzata versione di Photoshop le garantirà un incarnato radioso e levigato da eterna Barbie anche in età ampiamente postmenopausale. Il salone hollywoodiano alle sue spalle sarà arredato con mobili antichi, leziosi, pacchiani, sovraccarichi di fiori e portafotografie. L’intellettuale tormentata avrà trovato pace e ispirazione nei quieti boschi del Connecticut o sulla costa del Maine; d’obbligo un maglione sformato, un paio di sneakers e un’espressione pensierosa con lo sguardo rivolto all’oceano livido e inquieto in fondo a un molo di legno, fra gabbiani, ventaccio e nuvole basse. La nuova stella del firmamento postmoderno invece brillerà in un attico lievemente e volutamente malconcio al Village, con arredi improbabili, stravaganti e multicolori e gaiamente ornato di megaposter di rockstars. Sono ammessi bicchieri sporchi per terra accanto al futon, ma si dovrà intuire che hanno contenuto solo perrier o gatorade. Tira molto anche lo sfondo di un allegro ranch con cani, puledrini e tanti figli, almeno cinque, metà dei quali evidentemente adottati; questa location si presta particolarmente alla scrittrice leggera, brillante e politicamente corretta.

Tutte le ambientazioni summenzionate, soprammobili compresi, possono essere affittate tramite apposite lussuose agenzie per il pomeriggio necessario alla mise en scène, oppure riprodotte secondo modelli standard in un teatro di posa di proprietà della casa editrice. Per la tariffa, trattativa riservata, ma ci pensa il marpione (l’agente).
In tutti i casi, nessuno escluso, nelle quattro righe di didascalia al ritratto il soggetto riuscirà a comunicare al pubblico un unico e univoco messaggio, valido a tutte le latitudini: che non si capacita del successo, che non è minimamente interessata al denaro, che la scrittura l’ha aiutata a crescere, che alle serate mondane preferisce la quiete di casa sua e che deve tutto alla sua meravigliosa famiglia che l’ha sempre sostenuta con amore e pazienza.
Fa niente se detto soggetto è fisicamente una cozza, anagraficamente una zitellona e culturalmente un’impedita. Fa niente se detesta i bambini e gli animali e invece adora sbronzarsi e giocare a bridge. Dove non arriva Photoshop, il marpione arriverà a scritturare una controfigura.

Cosa di cui mai sentirà il bisogno una come Margherita Hack, Dio la benedica per l’onestà e lo spirito.
Ecco, di lei sì che mi fido.

Chi non lavora non fa l’amore

L’anno che chiusero la fabbrica e misero in strada quasi duecento operai, io ero un poppante ancora attaccato al seno di mia madre, perciò questa storia me l’hanno raccontata dopo, ma c’è da crederci.
Mio padre, che era un rosso di quelli irriducibili, dapprima arringò i compagni con comizi ringhiosi, poi li convinse a incatenarsi con lui davanti al municipio, e alla fine organizzò la resistenza a oltranza. Con un manipolo di incazzati a morte si installò sul coperto dello stabilimento e proclamò col megafono l’intenzione di rimanervi senza scendere fino a che il padrone non avesse fatto marcia indietro. Furono compilati dei turni, stesi degli elenchi di generi di sopravvivenza, pitturate delle lenzuola con slogan battaglieri, e la guerra di resistenza ebbe inizio ai primi di dicembre, un’alba buia e annegata nel nebbione padano. Parenti e amici, dal piazzale, salutavano gli eroi che si arrampicavano sul tetto portando in spalla rotoli di coperte e sacchetti di viveri. Da lassù, una volta arrivati, si affacciarono come scalatori giunti in vetta all’Everest e agitarono striscioni presaghi di vittoria.
Mia madre quel mattino a quell’ora stava preparando il caffelatte per i miei fratelli che andavano a scuola, con me attaccato alle tette. Il suo uomo lo aveva salutato la notte prima, brontolando molto perché a lei quella storia pareva una bravata da imbecilli. Due volte al giorno, con le altre mogli e sostenitrici, portava il pranzo agli assediati, i quali calavano cesti e panieri pieni di panni da lavare e li recuperavano colmi di cartocci di cibi caldi. Inneggiavano, gli stolti, e le donne un po’ si commovevano e un po’ si innervosivano. Alcune addirittura già il secondo giorno cominciarono a imprecare mentre schiaffavano il ben di Dio in quei panieri e poi dovevano tornare a casa e dividere avanzi con il resto della famiglia. Mia madre era una di queste ultime, perché con un marito senza stipendio che perdeva tempo a fare il Robinson Crusoe su un tetto invece di cercarsi un altro lavoro non è che se la passasse molto bene.
Faceva freddo, i fossi gelavano, i miei fratelli più piccoli dovevano percorrere tre chilometri di sterrato fangoso per andare a scuola, e appena uscivano di casa la mamma spegneva la stufa per riaccenderla solo alle quattro, quando tornavano. Per racimolare qualcosa, si portava a casa la roba da stirare delle signore del quartiere nuovo, ma di più non poteva fare perché non aveva nessuno a cui affidarmi. Tutti speravano che il padrone si lasciasse intenerire per Natale, invece ovviamente non avvenne, né sarebbe potuto avvenire dato che il padrone se l’era filata da tempo in Sudamerica. Avvenne invece che i comitati di sostegno, i sindacati e la Caritas, per mostrare la loro vicinanza agli operai asserragliati, cominciarono a fare collette per fornirli di qualche comodità in più, che ne so, stufette, indumenti pesanti, casse di liquori forti, un televisore, il nuovo calendario Pirelli.
Io intanto mi ero preso una bronchite per via della stufa spenta, così adesso, oltre al cibo di tutti i giorni e alle bollette della luce, mia madre doveva lasciar giù dei soldi anche al farmacista. Mia madre si imbacuccò, mi affidò temporaneamente alla perpetua del canonico e si avviò alla fabbrica, decisa a salire su quel dannato tetto e a trascinare suo marito alle proprie responsabilità. Arrivata in cima, anzitutto le toccò difendersi dai grossolani complimenti degli operai, che erano a digiuno di donne da quasi un mese, e poi affrontò il marito, che sembrava il più esaltato e allegro di tutti, e infatti per l’allegria prima le rise in faccia e poi la insultò, rispedendola al suo posto, che secondo lui era quello accanto alla stufa a fare la calza mentre gli uomini erano in prima linea a rischiare la salute per il futuro delle famiglie.
Quando scese, rossa in viso per l’indignazione, tutte le altre donne le si fecero intorno per sentire come avesse trovato la situazione.
“Stanno benone, ve lo dico io! Non gli manca niente, hanno le tende, le coperte, le stufette, le carte, la grappa, il televisore, i giornaletti sporchi e pure il pallone quando fa bel tempo. ‘Sti disgraziati! E noi a cucinargli i mangiarini e a lavargli le mutande! E i bambini con i buchi nelle scarpe! E il piccolo con la bronchite! E il padrone in Sudamerica! E intanto chi è che tira la carretta, eh? Indovinate un po’! Ma aspettate che scendano (perché prima o poi scendono, eh se scendono!), e non so voi ma io il mio lo faccio correre, a gambe levate lo faccio correre!”
Mia madre era così: la vera rossa della famiglia, la vera sindacalista, la vera lottatrice, era lei. La mattina dopo, prese la carriola, mi ci sistemò dentro ben infagottato e scarriolò baldanzosa fino all’emporio. Gastone era nel retro.
“Tu mi devi qualcosa – lo apostrofò lei con aria decisa.
Lui arrossì:
“È passato tanto tempo, avevo vent’anni…”
“Io invece sedici. Ero minorenne – gli ricordò lei, implacabile.
“Cosa vuoi? – si arrese Gastone, temendo conseguenze imbarazzanti.
E lei glielo disse. Voleva un sacco di farina, mezzo chilo di lievito, due chili di burro, due di zucchero e trenta uova. A credito, ché se le cose fossero andate per il verso giusto, lo avrebbe pagato entro un mese fino all’ultimo, miserabile centesimo.

Mia madre passò tutta la notte a cuocere torte. La mattina dopo, era domenica, le impilò nella carriola, coperta da una tovaglia pulita, e andò a venderle sul sagrato all’uscita dalla messa grande. Aveva preparato un cartello: Torta Proletaria della Rosina, fatta a mano e genuina. Il primo ad avvicinarsi fu il Maresciallo dei Carabinieri, che con aria di disapprovazione le chiese:
“Ma Rosina, ce l’hai la licenza?”
E la Rosina, che non aveva paura della verità, gli rispose dura:
“La licenza no, però ho quattro figli, e un marito sul tetto della fabbrica”.
Le prime torte andarono a ruba: tutti volevano un dolce fatto in casa per il pranzo domenicale, compreso il farmacista, le signore del quartiere nuovo e perfino la fornaia, che le chiese la ricetta. Mia madre gliela diede (“Le solite cose, farina, zucchero, uova, burro e lievito”) ma tenne per sé i suoi due ingredienti segreti, cosicché nessuna delle massaie che tentò di riprodurre l’ottima Torta Proletaria della Rosina otteneva lo stesso risultato di gonfiezza e leggerezza.
Il giorno dopo cominciarono ad arrivare le prime ordinazioni. La torta era squisita, si scioglieva nel latte della prima colazione, accompagnava i bambini a scuola nel cestino della merenda, completava degnamente un pranzo e si presentava trionfante agli ospiti. Mia madre infornava torte tutta la notte, e le vendeva nella sua cucina. A mio padre non la fece neanche assaggiare: gli portava ogni giorno la minestra, lo spezzatino, le melanzane alla parmigiana, ma la torta no.

Era ormai primavera. Io gattonavo. Mio fratello maggiore, quando seppe che sarebbe stato bocciato, lasciò la scuola e si occupò delle consegne a domicilio. Il papà, lassù sul tetto, cominciava a smaniare perché aveva voglia di andare a pesca, ma si era preso un impegno e gli seccava darsi per vinto, anche se ormai le piogge avevano dilavato gli striscioni e i giornaletti sporchi erano venuti a noia.
Una volta la settimana il Sindaco andava sotto la fabbrica – che stava ormai vistosamente arrugginendo – e gridava:
“Dai, scendete. Non serve a niente. Vi troviamo un lavoretto, in qualche modo si farà!”
Ma loro volevano riavere il posto in fabbrica, mica accettare un impiego da spazzino o da becchino.

In capo a un mese mia madre si era fatta una fama. Le sue torte partivano ogni mattina per i clienti del paese e dei dintorni. Erano Torte Proletarie a prezzo proletario, perché mia madre era onestissima, però chi chiedeva delle varianti pagava qualcosa di più, perché gli ingredienti extra costavano. Nacquero ed ebbero successo la Torta Proletaria con le mandorle, quella con le mele, quella con il maraschino e la ricotta, e infinite altre. Mia madre aveva ripulito e imbiancato il vecchio capanno degli attrezzi e aveva trasferito lì il suo laboratorio di pasticceria. Tutto andava a gonfie vele. Io fui svezzato a colpi di torta, e questo è il ricordo più remoto che ho della mia infanzia.
Il Primo Maggio i vigili del fuoco fecero una sortita: salirono sul tetto e riportarono giù i dimostranti, che  opposero una resistenza solo formale. Da settimane annusavano, da lassù, il profumo di torta che aleggiava costantemente sul paese, e fu questo senza dubbio a farli capitolare. Quel giorno, le vendite della Torta Proletaria registrarono un picco mai visto, il primo di una serie ininterrotta a tutt’oggi.
Il papà entrò in casa mogio mogio. La mamma lo spedì a lavarsi, poi lo rifocillò, gli mostrò le pagelle dei figli e il conto del farmacista, e la mattina dopo lo mandò all’Ufficio Collocamento, dove il Sindaco aveva messo una buona parola per un posto di lava-auto in un garage. Probabilmente lo riprese anche nel suo letto, perché l’anno dopo nacque un altro bamboccio, una femmina che adesso studia da estetista.

Oggi compio ventun anni. Li ho passati quasi tutti nella pasticceria di mia madre, in piazza. Mia madre è diventata un’imprenditrice: in laboratorio ha quattro aiutanti, e due ragazze stanno al banco. Lei arriva per prima, se ne va per ultima, passa le giornate a impastare e decorare, esce ogni tanto nel suo grembiule immacolato per salutare qualche cliente di riguardo, ma non ne vuole sapere di lasciare il suo posto al tavolo di lavoro. Mio padre quest’anno è andato in pensione: ora trascorre i pomeriggi al bar con gli amici di un tempo e continuano il torneo di scopa iniziato sul tetto quand’erano giovani combattenti e martiri del lavoro. I miei fratelli e le mie sorelle si sono sistemati tutti; quello bocciato ha poi ripreso gli studi e adesso fa il commercialista per l’azienda di famiglia. Io sono diventato capo-pasticcere e ho anche inventato nuove torte di tendenza (al kiwi, alla papaia, ipocaloriche, senza glutine) che però non supereranno mai la gloriosa Torta Proletaria di mia madre, sempre in vetta alla classifiche e esportata ormai in tutto il mondo.
Per il mio compleanno, mia madre mi ha fatto una sorpresa: sull’insegna, accanto al suo nome, è comparso il mio. “Rosina e Figlio“, c’è scritto adesso. Ora che sono diventato ufficialmente suo socio ed erede, ho finalmente avuto accesso al segreto dei suoi ingredienti speciali, quelli mai rivelati a nessuno e responsabili della universalmente acclamata unicità delle sue torte. Me li ha confidati solennemente.
“Incazzatura per impastare, coraggio per lievitare. Senza questi due trucchi non si arriva da nessuna parte. Tienilo bene a mente, Tonino”.

Mia madre, che gran donna. Mi chiedo dove sarebbe arrivata se fosse entrata in politica.

L’età dell’argento

Da un quadro una storia:
Henri Matisse – Mme Matisse, 1913

Grazie, sì, adesso sto bene. Mi sono rimessa abbastanza, da qualche giorno ho anche ripreso a uscire, adesso poi con questo sole tiepido, queste prime giornate di primavera… Ho preso l’abitudine di mettermi qui, a questo tavolino tranquillo nel parco. Mi faccio servire un tè, mi leggo un libro, mi guardo intorno, respiro. Insomma sto meglio, anche internamente. Come serenità, intendo.
È stato un inverno un po’ così, difficilino; sa, quella tosse che non passava mai. In famiglia poi abbiamo sempre avuto tutti i polmoni un po’ delicati: il povero papà è morto giovane in un sanatorio svizzero, lei capisce dunque. La mia comunque è stata solo una brutta bronchite. Vede? mi porto sempre dietro una sciarpina, per prudenza.
Sì, sono stata dieci giorni in ospedale, più che altro per precauzione. Il cuore non c’entrava, per fortuna quello è a posto. Dice però il mio dottore che mangio troppo poco, così mi fa fare delle curette a casa. Le iniezioni viene a farmele la sua infermiera in persona, una carissima signora con la mano d’oro. Poi ho tante amiche, ci sentiamo, vengono a trovarmi, oppure vado io da loro. Mia sorella è venuta a stare con me qualche giorno, appena uscita dall’ospedale, e ci siamo fatte molta compagnia. Come quando eravamo ragazzine, abbiamo passato pomeriggi leggendo libri ad alta voce.
Mio figlio insiste che mi trasferisca da lui, in campagna. Hanno una casa grande con tanto verde intorno, un posto tranquillissimo. Dice che l’aria di città mi fa male, con tutto questo smog, questa umidità. Non che gli dia torto, sa. Però cosa vuol mai, non è che abbia tutta questa voglia di cambiare. Alla mia età, poi. Ottanta, carissima, ottanta. Lei lo farebbe? Sia sincera: lascerebbe la casa dove ha vissuto quasi una vita?
Lo smog, capisco; però qui ho tutto, tutto quello che mi serve, tutte le cose che amo. Le mie abitudini, le mie comodità. Il dottore, le dicevo, che mi conosce da tanti anni; le amiche; un appartamento grande con un bel terrazzo pieno di piante, tutti i miei libri, i miei quadri, i miei armadi pieni di cose, il mio studiolo così confortevole col pianoforte e la collezione di fermacarte di cristallo. La mia libertà, capisce. La mia intimità. Sono doni che cercherò di difendere più a lungo possibile, proprio per cercare in questo modo di fermare la vecchiaia.
Sola no, non mi sento sola. Non mi sento affatto sola, e non lo sono realmente. Mi sentirei più isolata in una villa di campagna, dopo aver vissuto tanti anni in un palazzo di città.
Quando era vivo mio marito, abbiamo viaggiato molto. Sono stata in alberghi di lusso nelle più grandi capitali del mondo, ho visitato musei e castelli, però sa, ogni volta che tornavamo a casa era un bel momento. Ritrovare gli odori e i rumori di casa propria dopo un viaggio, beh è impagabile.
Non so, tutt’al più potrei pensare di svernare in Riviera l’anno prossimo. Ma è presto per pensarci, non crede? Per adesso mi godo questo inizio di primavera in città. Mi sento proprio benino. Aspetto le rondini, questione di giorni.

Donne tu tu tu

Giovedì ho passato il pomeriggio su un divano comodissimo, sotto un plaid, in compagnia di mia sorella. Ci siamo raccontate cazzate a macchinetta, una tirava l’altra. Con mia sorella riesco a parlare di cazzate che non mi passa neanche per la testa di condividere con altre donne, perché solo con lei riesco a caricarle di quella ironia che rende sopportabili certi argomenti oziosi. Per esempio, considerazioni sulla moda, le pettinature, gli smalti per unghie, il colore della biancheria intima: tutti argomenti da parrucchiera. Da lì, siamo scivolate a tessere l’idea utopistica di trovarci una parrucchiera per sordomuti, nel cui salone dovrebbe regnare quel confortante silenzio che ci permetterebbe di leggere mentre le nostre capigliature vengono sottoposte a trattamenti chimici di cui ignoriamo la natura e l’utilità. Tra una cazzata e l’altra ci siamo scaldate i piedi a vicenda e abbiamo anche chiacchierato di libri. Fatte le debite proporzioni (lei un miniappartamento, io una casa enorme), credo ne possieda più di me. Se non ricordo male, abbiamo disquisito anche di politica. Ci perplime il nuovo slogan lavorare di più, lavorare in più, lavorare più a lungo. Ci perplime perché non vediamo come si possa allo stesso tempo lavorare in più e anche più a lungo, se lo stesso posto di lavoro deve rimanere occupato fino a un’età più avanzata. Ci perplime perché non capiamo come si possa lavorare di più se non c’è lavoro in generale.
Si stava così bene sotto quel plaid che si è fatta sera in un attimo e ho dovuto rimettermi in strada per casa mia. Sulla porta i soliti saluti: “Cerca di mangiare, che sei magra” e “Senti chi parla”. Ogni volta mi viene in mente quell’aneddoto di P.M.Pasinetti a proposito di due sue vecchie zie:
“Come la fastu, ti, la carne in tecia?”
“Come ti”.
“Anca mi!”

L’indomani mattina, venerdì, abbiamo replicato le quattro ore di chiacchiere ma stavolta in trasferta al pronto soccorso, per motivi che esulano dalle tematiche di questo blog e che comunque restano fortunatamente banali. Di trovare parcheggio in ospedale, neanche a parlarne, perciò ci siamo fatte il nostro quarto d’ora a piedi lasciando comunque la macchina in sosta contromano. Dopo il triage, abbiamo aspettato un’oretta in una sala d’attesa dove una tivù al plasma (non umano, o forse sì? ora che ci penso, forse sì) trasmetteva La storia siamo noi di Minoli. La puntata era dedicata alla Thatcher; i passaggi migliori erano quelli con Meryl Streep. Sui titoli di coda ci hanno chiamate in area verde e lì abbiamo aspettato di nuovo, stavolta senza plasma però stranamente fra molti spifferi. Ci eravamo portate la Domenica quiz per ingannare il tempo, ma non ci è servita perché avevamo ancora tante cazzate da raccontarci, rimaste in sospeso dal giorno prima. Tipo analizzare in quali svariati modi e per quali insondabili motivi noi due siamo così diverse dalla massima parte delle nostre coetanee. Deve essere perché noi, a differenza di loro, siamo scresciute.
E mentre stavamo lì a gelarci il culo su sedie di metallo tutto tranne che ergonomiche abbiamo visto passare la solita corte dei miracoli che si vede ogni giorno in pronto soccorso, in particolare anziani con ematomi in faccia causa cadute su marciapiedi sconnessi o extracomunitari con fazzoletti insanguinati intorno a dita affettate o schiacciate in corso di lavoro nero. Ci ha portato un po’ di distrazione un momentaneo trambusto dentro l’ambulatorio dove un medico stava visitando un detenuto. In un attimo il corridoio si è riempito di agenti della polizia carceraria e del presidio di pubblica sicurezza interno, e si sono visti cipigli, parecchie fondine gonfie e un paio di mitra esibiti in chiaro.
Dopo la visita, i raggi e il responso favorevole, ci hanno rimandate a casa previo pagamento di un ticket che è risultato sensibilmente più caro dell’importo della prestazione in sé.
Fanculo, ci siamo dette, noi stamattina ce la siamo spassata: è anche giusto, in fondo, lasciare una mancia.