Laggiù nel Bronx

Questo racconto (che, vi avviso, è lunghetto) l’ho scritto perché nel mio precedente eds Kermitilrospo aveva notato l’assenza di mortammazzati, e ci si era messa poi anche mia sorella a storcere il naso per l’eccessivo buonismo ottocentesco.
Stavolta, come vedrete se avrete la pazienza di leggerlo tutto (è lunghetto, vi avviso), i mortammazzati non si contano, e spunta anche – forse, spero, mi auguro, ci ho provato – un non so che di sano cinismo post-moderno, nel quale in effetti mi riconosco di più.

Me ne stavo seduta sul mio gradino preferito, il penultimo, perché da lì potevo occhieggiare il marciapiede da un angolo all’altro della strada e verificare, dall’affollamento di cartacce e lattine, il grado di efficienza del servizio municipale di nettezza urbana nel nostro quartiere, e intanto facevo quella cosa stupida che faccio sempre quando sono assorta e/o triste: mi grattavo le ginocchia. Con una specie di affetto, senza graffiare, più che altro un surrogato di carezze e pacche sulle spalle come quelle di cui era carente la mia vita di dodicenne. I gatti risaliti dai seminterrati o scesi dai cornicioni sezionavano scientificamente i sacchi dell’immondizia, riportando alla luce i vassoi di cartone stagnato in cui mia madre e io avevamo cenato con la robaccia unta del cinese all’angolo. Lei aveva smesso di cucinare molti anni prima, il giorno in cui era scomparso mio padre. Molte cose aveva smesso di fare, da quel giorno, e dal momento che già prima ne faceva assai poche si può dire che fu da allora che avevo dovuto farle tutte io. Lei del resto non era in grado. All’inizio, per quasi un anno intero si era dedicata alla ricerca di papà. Era diventata una habituée dell’obitorio, ci andava non meno di due volte al mese, e in certi periodi anche quattro, se aveva fortuna. Ogni volta che ripescavano nella baia il cadavere violaceo e gonfio di un ubriaco, oppure raccoglievano quello stecchito e brinato di un barbone congelato sotto un viadotto della metro, o ancora recuperavano quello raggomitolato nel vomito secco di un tossico in un edificio in demolizione, ogni volta, purché di sesso maschile e privo di documenti – cioè in almeno metà dei casi – facevano un giro di telefonate per invitare le persone che avevano fatto denuncia di scomparsa di un familiare a presentarsi per l’eventuale riconoscimento, e mia madre fra queste.
Per mesi se li andò a vedere tutti, con cura e accanimento, non trascurando nemmeno i cadaveri di razza asiatica e gli afroamericani. Riceveva la chiamata e subito si emozionava come per un appuntamento in centro: indossava un vestito appropriato, dei pochi che aveva, e prendeva un certo numero di autobus per andare fin laggiù. Stava fuori anche diverse ore, perché prendeva la cosa molto sul serio; talmente sul serio che, lungo la strada del ritorno, sentiva il bisogno di fermarsi in qualche bar e concedersi una colazione abbondante, e poi magari un giretto per negozi dove provava vestiti che non poteva permettersi di pagare.
“Come è andata oggi? – le chiedevo educatamente.
“Niente. Era un cinese. Gli somigliava molto, non mi sarebbe dispiaciuto che fosse proprio lui, ma non c’è stato niente da fare: era proprio un cinese – riferiva, delusa.
Oppure:
“Quello di oggi non so proprio come abbiano potuto propormelo. Tuo padre aveva tanti difetti ma, diamine, non certo un occhio di vetro!”
Le piaceva così tanto che a volte andava all’obitorio di sua iniziativa, si affacciava chiedendo garrula “C’è niente per me?” e poi si tratteneva a prendere caffè e ciambelle con gli inservienti fino a mezzogiorno, per tornare a casa se non altro di buon umore per aver passato del tempo con amici.
Per la frustrazione, mia madre si era buttata sul cibo. In forma non era mai stata, era più il tipo tendente al tondeggiante, un tondeggiante sodo e qua e là bozzuto, ma ora si sentiva autorizzata dalle circostanze a introdurre nel suo corpo, senza il minimo riguardo, calorie sufficienti a riempire il vuoto lasciato da mio padre, sotto forma di cibi tra i peggiori, più grassi e malsani potesse trovare al supermercato o nelle rosticcerie più malfamate. Casa nostra si riempì di involucri, cartocci, scatole di pizza, incarti di dolciumi, bicchieroni di plastica di gelato; ingeriva 4 hot-dog e 2 stecche di cioccolato già per colazione, a pranzo scartocciava un vassoio formato famiglia di ali di pollo e patatine fritte, poi per cena diceva di volersi tenere un po’ più leggera e si faceva bastare un paio di pizze e una scatola di gelato. I cioccolatini se li portava a letto, erano quelli della buonanotte, diceva, e presi uno alla volta e così piccoli non potevano farle male. Di tutto questo posso riferire, ma alla mia osservazione sfuggivano gli spuntini che certamente faceva durante la giornata mentre io ero a scuola, e di cui restavano testimonianze nei rifiuti che scovavo sotto il letto quando andavo alla caccia di quei topi che, a un certo punto, cominciai a sospettare coabitassero l’appartamento.
In pochi mesi, mia madre era ingrassata ben oltre il limite dell’obesità media di cui soffre, pare, un’altissima percentuale di americani. Le sue dimensioni avevano qualcosa di sciamanico; il suo corpo non aveva più una forma, ma molteplici forme, e sotto le smisurate vestaglie con cui lo copriva assumeva aspetti sempre nuovi e sempre in movimento, come di materiali ammucchiati maldestramente che tendessero a scivolare uno sull’altro alla ricerca di un assetto meno pericolante, come ondate straripanti che si snodavano e smottavano e si riaccomodavano in balia della forza di gravità, affacciandosi flaccidamente ora all’altezza dell’addome (ormai tutt’uno con le mammelle), ora a quella dei fianchi (ormai tutt’uno con le natiche). Era tutto un ballonzolare, uno spenzolare, uno sgusciare molle, un contorcersi greve come di serpente obeso e moribondo.
Ormai pilotare nello spazio angusto del nostro appartamento quel gigantesco ammasso di carne senza controllo che era diventato il suo corpo era per lei un’impresa che la costringeva a passare di fianco attraverso le porte e a ricorrere a me per qualunque incombenza. Negli ultimi tempi usciva di casa solo per andare, soffiando come un tricheco, all’obitorio, e poiché non era più in grado di salire e scendere dall’autobus si era rassegnata a prendere un taxi, la cui spesa si aggiungeva dolorosamente alle altre più essenziali e contribuiva ad assottigliare i pochi risparmi rimasti. Io avevo cominciato a saltare giorni di scuola perché ero troppo impegnata a occuparmi di lei, della sua interminabile toilette che faceva seduta su uno sgabello rinforzato nella doccia sollevando una dopo l’altra le mammellature davanti, dietro, sopra e sotto affinché ci passassi un asciugamano insaponato e la pasta allo zinco per dare sollievo alle piaghe fetide e melmose ospitate nel fondo di ogni piega.

Un giorno, dopo quasi un anno, tornando a casa da scuola la trovai seduta in cucina in compagnia di due tipe dei Servizi Sociali. Una di esse si alzò per venirmi incontro e con un certo garbo compunto molto professionale mi annunciò che quella mattina mia madre aveva riconosciuto papà nel cadavere di un uomo rinvenuto in un vagone merci in disuso abbandonato da anni su un binario morto. Mia madre guardava nel vuoto e non mi parve sconvolta, aveva le labbra strette come stesse riflettendo e ogni tanto annuiva a se stessa. Quando restammo sole, non mi disse molto: solo che ora dovevamo pensare a noi stesse e che quelle due brave signore ci avrebbero aiutate. Io ero così abituata a pensare mio padre come morto che averne avuto la conferma non cambiò molto le cose.
Invece le cose cambiarono. I Servizi Sociali ci riconobbero un assegno di sostentamento e controllarono che non mancassi più alle lezioni. Una volta ogni tanto passava qualcuno a chiedere se avessimo bisogno di qualcosa, ci portavano bende e pomate per la mamma, abitucci usati per me. Ma la più grande novità fu che mia madre si mise a fare progetti. Un giorno mi disse che si era trovata un lavoro, un lavoro da svolgere in casa. Mi disse che la sua lunga frequentazione dell’obitorio l’aveva illuminata, le aveva fatto scoprire di possedere una dote che ci avrebbe fatte ricche: la dote di saper parlare con i morti. Nel quartiere la notizia non stupì, e la clientela, fatta per lo più di vedove superstiziose, non tardò a raccogliersi numerosa.
Mia madre per l’occasione evocò lontane origini pellerossa e si impadronì dello spirito di una bisnonna Cherokee, prendendone a prestito il nome, Esmeralda, e l’acconciatura, una parrucca con lunghe trecce corvine con la quale nascondeva i capelli stopposi e rarefatti vittime di decenni di sciagurate tinture nonché degli squilibri nutrizionali. Riceveva nella saletta da pranzo, sacrificata a studio esoterico e addobbata di drappi neri alle pareti e di un’oggettistica dissennatamente ibrida che comprendeva simboli indiani, zampe di conigli, teschi di gatti, campanellini buddhisti, candele da catacomba, fotografie di ectoplasmi. Aromi di incensi di poco prezzo coprivano la puzza dei cibi e dello zinco rancido. I clienti arrivavano riverenti, in soggezione, e li accoglievo io, conciata con una tunichetta di pizzo tinto di nero che cominciò presto a starmi stretta ma che mi conferiva dignità e mistero. Li introducevo al cospetto della sciamana Esmeralda e poi mi ritiravo, per ricomparire solo al termine della seduta e incassare la tariffa, che non era esosa ma nemmeno modesta. Mia madre non voleva che assistessi, e da dietro la porta sentivo solo qualche mormorio e un tintinnare di sonagli che significavano l’arrivo dell’anima richiesta. Le anime rispondevano sempre alla chiamata. Ogni vedova, ogni orfano ultrasessantenne, ogni decrepito reduce di Corea ansioso di ricollegarsi a un vecchio commilitone caduto, tutti avevano il loro momento magico e misterioso, il loro contatto dall’aldilà, risposte alle loro domande, conforto alle loro nostalgie. Mia madre non so come facesse, ma dispensava del bene a tutti. E di quell’attività campavamo.

Me ne stavo, insomma, sul penultimo gradino e mi grattavo sconsolatamente le ginocchia, quando dall’angolo della strada vidi avanzare, col suo inconfondibile passo danzante, mio padre morto da cinque anni.
La sua andatura era quella delle persone molto alte e smilze, di un giocoliere, o forse di un giocatore di basket sul parquet: dondolante, rilassata e piacevolmente controllata. Il gesto gli partiva dalle spalle, come si apprestasse a cingere una donna per un giro di valzer, e si trasmetteva alle lunghe gambe leggermente arcuate, poi ai piedi che sembravano accarezzare il suolo con la leggerezza di un Fred Astaire.
Avanzava lungo il marciapiede sorridendo fra sé come un fanciullo in vacanza, le mani nelle tasche dei pantaloni color verde stagno, una giacca di velluto assai frusto color melanzana, scalciando affettuosamente le cartacce che i suoi piedi incontravano e puntando verso casa nostra. Quando mi fu vicino, si inclinò un po’ per scrutarmi attentamente e mormorò cantilenando:
“Guarda guarda Betty Lou come si è fatta grande…”
Io, dico la verità, non feci quello che sarebbe stato ovvio per chiunque: non mi alzai di colpo, non mi impressionai, non tentai di ritrarmi per lo spavento né feci domande con voce strozzata. E lui non fece niente di quello che ci si sarebbe potuto aspettare: non mi sfiorò, non mi accarezzò i capelli, non fece il gesto di abbracciarmi. Ci guardammo per qualche istante, forse rimandando tutto a un altro momento.
Poi lui disse, educatamente:
“Beh, io salgo un attimo”.
E io rimasi lì su quel gradino, senza pensare a niente, perché qualunque cosa avessi pensato certamente era troppo grande per me. I gatti selezionavano gli avanzi, raspando fino all’ultima molecola le carte oleate della rosticceria e lasciando ai cani, che sarebbero sopraggiunti più tardi e che notoriamente mangiano di tutto, la stagnola del cioccolato del resto già meticolosamente leccata da mia madre.
Non rimase di sopra a lungo, diciamo un quarto d’ora secondo la mia incerta percezione di dodicenne. Io non mi ero mossa, e lo sentii alle mie spalle lasciar ricadere il portoncino e saltellare giù dai gradini con lo stesso lieve atteggiamento fanciullesco e malandrino di quando era salito.
Ora mi aspettavo, che ne so, una frase, qualcosa, qualcuna di quelle cose che prima ritenevo avessimo solo lasciato in sospeso, e dentro di me pensavo che non ne avevo poi un gran desiderio, perché poteva saltar fuori una situazione ben più che bizzarra o imbarazzante. E io di situazioni bizzarre e imbarazzanti ero, a dir la verità, anche abbastanza stufa.
“Dice tua madre di salire per aiutarla a mettersi a letto – mi informò con gentilezza, e in quel momento sentii il suo odore, che era di elefante, e vidi che aveva i capelli raccolti in un codino e ai polsi portava due braccialetti di misere perline.
Poi se ne andò, verso l’angolo di strada da dove era svoltato, ma a metà si fermò un attimo, mi chiamò:
“Ehi!”
E mi lanciò qualcosa, che io fui svelta ad afferrare tra le mani.
Poi un ultimo gesto di saluto, e fu tutto.
Mi aveva donato un pacchetto di sigarette, ciancicato e mezzo vuoto. Lo guardavo chiedendomi se un padre che regala sigarette a sua figlia di dodici anni è un padre molto moderno, oppure nessun padre.
Mia madre mi aspettava sulla sua poltrona sfiancata. Senza una parola le sfilai le calze dalle gambe pachidermiche e l’immensa tuta di ciniglia di un fragoroso color fragola, le rinnovai gli strati di garze intrise di pomate puzzolenti, raccolsi da terra i resti di un paio di scatole di cioccolatini e la scortai nella penosa navigazione verso il letto.
Fu solo quando si fu sistemata con molti ansiti e gemiti e il suo immane corpo ebbe finito di spargersi, dilagare e invadere il materasso, che mi parlò. Era provata ma durissima, determinata.
“Nessuno deve saperlo. Giura che non lo dirai a nessuno. A nessuno, capito?”
“Ma allora non era morto davvero?”
“A nessuno, ti dico, a nessuno – ribadì con forza.
Poi aggiunse:
“Non piangere. Pensa solo a questo: se qualcuno lo viene a sapere, noi perderemo il sussidio, e io perderò la mia reputazione. Ho un lavoro onorato, la gente crede in me. Non vuoi rovinare tutto, vero? Dimmi che non vuoi”.
Io non è che stessi piangendo, né ne avevo l’intenzione. Trovavo solo ingiusto che certe cose succedessero un metro sopra la mia testa.
“No che non voglio, ma se lui tornasse? – tentai, per farla ragionare.
“Ah no che non torna, puoi star sicura. Gli ho detto che se torna lo ammazzo con le mie mani – mi assicurò, e la sua voce era colma di desiderio di vendetta. Capii che parlava seriamente, e del resto disponeva di un’arma letale: il suo stesso peso, con il quale avrebbe potuto mantenere la minaccia col solo accasciarglisi addosso e schiantarlo come un qualunque sgabellino di bambù.
“Ma tu lo sapevi, però – protestai debolmente.
Lei non rispose. Un giorno, cinque anni prima, aveva fatto la sua scelta, e oggi non le restava che ribadirla.

Quella notte mi svegliai di soprassalto perché mi ero dimenticata di controllare una cosa. Tirai fuori dal comodino il pacchetto di sigarette e lo esaminai per bene: ne conteneva cinque, storte, mezze morte, mezze sbriciolate. Cercai dentro e fuori se vi fosse un biglietto, un messaggio, un indirizzo.
Ma era solo un pacchetto cincischiato e mezzo vuoto, giusto con un fondo di odore di elefante.

*    *    *

E anche con questo partecipo all’eds Nero di Natale della solita stregonessa Donna Camèl, in ottima e abbondante compagnia con:
Hombre con Ti prego, non chiamarmi Barbie
Dario con Zebre e savane
Leuconoe con Placida come il fiume
Pendolante
con Natale con soffritto
Kermitilrospo
con Pedalata nera
Fulvia
con Il quadro capovolto – 2a parte
Lillina
con Una vita segnata
Calikanto
con Nero livido
La Donna Camèl
con Se tu mi amassi
Singlemama
con Dissolvenza in nero
Angela con Chi è di scena
Angela
(ancora) con Taccido 

Sostiene Teresa

Sostiene Teresa che lei non ci voleva andare, al collegio delle monache. Che lei è una bambina buona, obbediente e studiosa, mentre le sue compagne sono qui perché a casa facevano i capricci e a scuola non combinavano niente. Che l’hanno messa in collegio per essere liberi di litigare su chi deve tenersi la villa con piscina, la bmw, la casa al mare, la casa in montagna e tutti i soldi della cassaforte. Per essere più liberi di litigare su tutto, e farsi i dispetti a vicenda. Che erano loro, casomai, a dover andare in collegio, i suoi genitori.

Sostiene Teresa che con lei hanno fatto presto, troppo presto, e perfino senza bisogno di litigare: la bimba la mettiamo in collegio, così non è né mia né tua. E infatti il sabato e la domenica, quando tutte le altre bambine tornano a casa, nessuno dei due la viene a prendere, così lei resta lì, nella sua stanzetta di collegio, a guardare dalla finestra il parco coperto di foglie gialle.

Sostiene Teresa che il blu della divisa la sbatte, perché è già pallidina di suo, e si fa pena da sola quando si guarda allo specchio dopo aver indossato la gonnellina scozzese a pieghe e il cardigan blu, e se si fa la coda di cavallo il fiocco deve essere blu anche quello perché così vogliono le monache, e dicono che il rosa – che le piace di più – è troppo frivolo.

Sostiene Teresa che le manca il suo cane e che ignora che fine gli abbiano fatto fare, forse hanno mandato in collegio anche lui perché non hanno tempo di occuparsene mentre litigano.
Che lei non sa dire chi dei due ha torto e chi ragione, ma se la mamma esce tutti i pomeriggi con le amiche e il papà torna a casa sempre a notte fonda un motivo ci sarà. Un motivo da grandi, magari. Il brutto è che ad andarci di mezzo è stata lei, sostiene Teresa. Che sarebbe stato meglio avere meno soldi e più figli, così lei avrebbe avuto fratelli e sorelle per giocare e i genitori meno grilli per il capo.

Sostiene Teresa che da grande non si sposerà mai, oppure si sposerà con un uomo buono e gentile e avranno tanti bambini buoni e gentili e felici. Sostiene che non sa bene come far passare gli anni che ci vogliono per diventare grande, e che non ha nessuno a cui chiederlo. Perciò sta pensando di farcela da sola, Teresa.

Questo sostiene Teresa, signor Giudice del Tribunale per i Minori.
Ne tenga conto.

(nell’immagine, Berthe Morisot: Lucie Léon al pianoforte, 1892)

Contributo all’EDS Il blues del blu della Donna Camèl (qualcuno fermi quella donna!) insieme a:

Diavoli blu di Dario
NY Blues di Singlemama 
Colori di MaiMaturo
La linea blu di Singlemama
Il blu dell’universo che non c’è di Lillina
Morte nel blu di Lillina
Il trattore di Pendolante
Crossroad di Call me Leuconoe
Le ore scure (grigio, rosso e blu) di Marco C.
I won’t let you down di Hombre
Onde
di Calikanto
Fever di Cielo (AKA Fevarin e carnazza)
Diritto e rovescio
di La Donna Camèl
Diritto e rovescio due, la vendetta di La Donna Camèl
So long di Brux
Davvero non lo so di Hombre
L’automobile di Pendolante
Non importa
di Lillina 

Neon

Abbiamo passato il confine verso mezzanotte. Alla  frontiera, un posto sperduto e mal illuminato, ci hanno controllato sommariamente i documenti. Tutto in regola.
Oltre la sbarra, siamo entrati nel buio della notte messicana. Immensa.
“Da qui, altri 300 chilometri di strade malmesse – ha detto Rafael. Io ho rabbrividito. Per la stanchezza, la scomodità, l’inquietudine dell’ignoto.
“Dobbiamo dormire qualche ora – ha detto ancora Rafael, e si è girato per farmi una carezza sulla guancia.
Ci siamo fermati nel primo centro abitato, dopo quasi un’ora di strada sconnessa in mezzo a un mare di tenebre che profumavano di erba secca e altri odori sconosciuti.
C’era un posto per mangiare, con ancora qualche cliente e della musica sudamericana sotto lampadine multicolori e impolverate. Giusto di fronte c’era anche un motel, modesto e un po’ scrostato. Ci siamo buttati sul letto vestiti e siamo sprofondati nel sonno.

Sono entrati in camera verso le sei di mattina: erano tre uomini in divisa, con stivali sporchi e rumorosi. Siamo balzati su di soprassalto, senza capire.
Quello che comandava ha chiesto con durezza:
“Rafael Velasco?”
Rafael ha detto “È il mio nome” e non ha fatto in tempo ad aggiungere altro perché lo hanno tirato giù dal letto e se lo sono portato via. Lui era incredulo, sbalordito ma cercava di rassicurarmi dicendomi che era un equivoco, che presto si sarebbe chiarito tutto, che stessi tranquilla. Le ultime raccomandazioni le ho raccolte già in strada, sul marciapiede, mentre lo caricavano rapidamente su una camionetta della polizia e partivano.

Il gestore del motel non sembrava scosso. L’ho guardato con mille domande impazzite negli occhi, e lui si è limitato a chiedere: “Cittadina americana?” e ha scrollato le spalle, dando a intendere che da quelle parti succedono cose che gli stranieri non possono capire. Poi mi ha allungato una tazza di caffè, insistendo che era compresa nel prezzo della stanza, e questo è stato tutto quello che ha fatto per me.
Ho cercato informazioni dai passanti per raggiungere la stazione di polizia. Il mio scarso spagnolo contro il loro pessimo  inglese. In ogni caso, è servito a poco: al comando, mi hanno tenuta sulla porta, senza rispondere alle mie domande né darmi spiegazioni.
“Può dirmi almeno perché lo avete arrestato? È cittadino messicano, non ha fatto niente di male”.
“Lei è moglie? Sorella? Parente?”
“Siamo venuti in Messico per sposarci.”
“Allora non posso dirle niente”.
“Perché?”
“È il regolamento”.
“E non posso nemmeno vederlo, cinque minuti soltanto?”
“Nessuno può vederlo finché non lo vede l’avvocato”.
“Quale avvocato? Rafael non ha un avvocato”.
“L’avvocato d’ufficio”.
“E quando viene, l’avvocato d’ufficio?”
“Quando sarà libero. Non è in città. Viene quando può. Una volta la settimana, una volta al mese, dipende.”
“Come faccio a sapere quando verrà, come faccio ad avere notizie?”
“Non è parente. Non può avere notizie. Provi domani, o un altro giorno. È il regolamento”.

Stavamo nel Maine. Io tenevo i bambini di una famiglia benestante, Rafael puliva la piscina. La signora ci ha licenziati quando ha scoperto che dormivamo insieme. Siamo venuti in Messico per sposarci. Rafael parlava di una grande festa con tutta la famiglia, diceva che sua madre mi avrebbe prestato il suo vecchio abito da sposa. Io non volevo tutto questo. Mi bastava Rafael. Ora penso che se ci fossimo sposati da un giudice di pace lungo la strada sarebbe stato meglio, perché adesso avrei il diritto di stargli vicina anche se è in prigione.

La prima sera sono tornata al motel stanchissima e da sola, dopo aver girato per strade che non riuscivo più a distinguere e a memorizzare, tentando più volte di tornare nei pressi della stazione di polizia con la speranza che fosse cambiato qualcosa.
Mi sono persa più volte, poi ho riconosciuto il motel dall’insegna illuminata: una pin up di neon blu elettrico che si staglia fluorescente contro il blu più denso del cielo notturno. La sua luce sguaiata e fredda mi entra nella stanza e si distende sulla metà vuota del mio letto. Il bagliore blu si irradia sulle pareti, sullo specchio, sulle mattonelle sbeccate del pavimento. Rende fosforescente la sacca dei vestiti di Rafael rimasta aperta e abbandonata accanto all’armadio. Mi guardo le mani nel buio, e sono blu. Ho mangiato qualcosa in camera, al buio, ed era blu. Non il blu delle piscine, né quello degli occhi dei tre bambini del Maine. Piuttosto il blu di un grottesco obitorio, o di un laboratorio di quelli dove studiano virus letali, o materiali radioattivi. Il blu falso e freddo delle navette spaziali. Il blu osceno del pesce al fosforo. Nulla di gaio, in quella luminescenza submarina. Nulla di rasserenante, nulla che aiuti a dormire. Si spegne all’alba, come evaporata in cielo, e la pin up diventa invisibile mentre per strada cominciano a passare camion, motociclette, i rumori della nuova giornata.

Vado alla stazione di polizia ogni giorno, da due settimane. Forse tre. Forse un mese. O una vita.
Cittadina americana.
Non è parente.
L’avvocato d’ufficio non si è ancora fatto vivo.
Non è consentito lasciare messaggi, né pacchi.
Non è moglie, né sorella.
Non ha diritto ad avere notizie.
Non insista.
È il regolamento.

Lavo le mie cose nel lavandino. A Rafael non mi permettono nemmeno di portare un po’ di biancheria. Ho trovato con grande fatica il numero di telefono del consolato americano, ma dicono che sono affari interni e loro tutelano solo i diritti dei cittadini americani. Si offrono tutt’al più di facilitare il mio rientro negli Stati Uniti, se voglio. È il regolamento.

La pin up mi aspetta tutte le sere. Ormai credo di aver capito che in fondo è una brava ragazza, forse finita male per colpa di qualcun altro. Una brava ragazza ingenua come me. La notte mi copre di blu, stende su di me il lenzuolo blu della sua e mia insonnia. Penso che siamo sole tutte e due, e che non sappiamo più cosa stiamo aspettando da tanto, tanto tempo. Perché qui i giorni passano e non succede niente.
E io sto finendo i soldi.

Contributo all’EDS Il blues del blu della Donna Camèl (qualcuno fermi quella donna!) insieme a:

Diavoli blu di Dario
NY Blues di Singlemama 
Colori di MaiMaturo
La linea blu di Singlemama
Il blu dell’universo che non c’è di Lillina
Morte nel blu di Lillina
Il trattore di Pendolante
Crossroad di Call me Leuconoe
Le ore scure (grigio, rosso e blu) di Marco C.
I won’t let you down di Hombre
Onde
di Calikanto
Fever di Cielo (AKA Fevarin e carnazza)
Diritto e rovescio
di La Donna Camèl
Diritto e rovescio due, la vendetta di La Donna Camèl 
So long di Brux 
Davvero non lo so di Hombre 
L’automobile di Pendolante 
Non importa di Lillina

I cavalieri che fecero l’impresa

I cavalieri siamo noi, tutti blogger, ed eccoci qua nome/cognome/indirizzo:
*ClaCielosopramilanoDario D’Angelo, Fulvia, Hombre, La Donna Camèl, Lillina,   MaiMaturo, Melusina, Pendolante, Singlemama.

La condottiera, in groppa a un cammello dall’espressione vagamente sardonica tipo tiprendoperilculomaèperchémistaisimpatico, è l’ineffabile Donna Camèl, per la quale non esistono più aggettivi da qui ad Alpha Centhauri. Essa è la nostra editrice e a lei dobbiamo tutto, pure una pizza.

L’impresa è la pubblicazione della raccolta dei nostri EDS incentrati sui 5 Sensi + 1.
Il titolo (che prevede altre uscite fino a creare una collana di EDS sui temi più pazzeschi che intelletto umano possa concepire) è Quaderno degli EDS: i sensi. Titolo molto più sobrio e professionale del contenuto, ci teniamo a dirlo.

Lo volete?
Beh, compratevelo, no?
E per non fare discriminazioni vi offriamo sia la versione cartacea che quella digitale. Che poi non si dica che siamo anche snob, oltre al resto che già pensate di noi…:-)