C’era quella cosa

C’era quella cosa importante da fare.
Cominciò a rigirarsela nella testa ancora sotto il buio del cuscino, poi ne riconobbe il sapore nel dentifricio e il bruciore negli occhi insaponati.
Gli ronzava in un orecchio come un insetto, si divincolava nel fumo del primo caffè.
Per la strada si aggrovigliava al mazzo delle chiavi in tasca, un attimo dopo incespicava in una cartaccia in volo radente sul marciapiedi nell’aria di marzo.
Se la ritrovava davanti su fogli di vecchi quaderni, impigliata come uno sbavo di inchiostro sulla punta della penna. La inseguiva negli occhi di chi gli parlava, nascosta dietro senza farsi trovare. Gli interrompeva le parole faticose con cui rispondeva, obbligandosi a non distrarsi.
C’era una cosa.
Alla cassa del bar tintinnava metallica con i centesimi del resto, poi si accartocciava nello scontrino.
Per tutto il pomeriggio gli percorse vie senza uscita dentro la mente, scontrandosi con ovvietà più sopportabili e sgusciandone via verso altri labirinti a fondo cieco.
Appesa di storto sulle spalle del cappotto camminò con lui nelle strade grigio-azzurre dell’imbrunire. Girava lo sguardo a spiarsela addosso riflessa nelle vetrine, ma era solo per ritrovarsela tra i piedi quando si bloccavano nervosi a un semaforo.
Per un attimo soltanto gli parve di leggere qualcosa, un indizio, su un muro d’angolo, tratteggi incerti come graffiti di pietra su pietra. Ma un istante dopo era già più buio e le luci delle auto la risucchiarono via.
Davanti a un portone socchiuso – e, dentro, una scala – fu tentato di pedinarla, ma non era certo fosse proprio lei. Si fermò comunque lì davanti ancora un po’ per girarsi attorno a rievocarla, scrutandosi il fondo delle tasche e interrogando in viso i passanti di profilo.
Aspettò fuori da un ristorante, poi da un cinema, poi da un parcheggio, poi sotto un cartello con molte direzioni, più di quelle cardinali, molte di più.
Aspettò nel buio del cielo nero di città, fino a perdersi come un’ombra senza più nome né storia, solo lui e il suo senso di perdita – malattia se non addirittura lutto – perché c’era quella cosa importante da fare, e da tanti, troppi anni non riusciva a rammentarla.

*  *  *

Contributo all’eds della donna Camèl, insieme a:
Incanto, di Dario
Io, l’amministratore e la signora grassa, di Hombre
Il viaggio, di Pendolante
Quel certo non so che, di Lillina
Io non c’entro, della Donna Camèl
Mercoledì, di *cla
Tutto quello che avreste voluto sapere sul seNso ma non avete mai osato chiedere, di Hombre
Cinque, di effe 

Cerca di capire

Da un quadro una storia:
Edward Hopper – Summer evening, 1947


È proprio questa piattezza, questa immobilità, questa voluta assenza di vibrazioni, di una seppur minima brezza, che mi affascina nei quadri di Hopper. Mi affascina quello che affiora evidente dalla fredda geometria dei suoi spigoli, dei suoi volti inespressivi. Mi affascina e mi commuove il sottinteso d’angoscia, un’angoscia giunta a tal punto da trasformarsi non tanto in disperazione (che può essere anche un passaggio transitorio da cui si riemerge) ma in definitivo disconoscimento di qualunque speranza di comunicare. Uomini e donne, le coppie e i singoli e anche i gruppi, nei suoi quadri sono pedine scompagnate di un mondo muto, fissato in un fermo immagine, senza domani. L’ieri si può immaginare, ma sarebbe un gioco sterile.

Quei due sulla veranda in una sera calda come immagino siano calde le estati negli stati americani del sud (lo immagino io, senza mai essere stata in America e senza sapere dove l’artista abbia ambientato il quadro; ma deve essere un posto dove le sere d’estate hanno quel particolare calore che nemmeno il buio allevia, quel particolare calore che inghiotte i gesti, come le braci accartocciano la carta, con lo stesso silenzioso torpore distruttore).
Chi sono, quei due? Chi sono uno per l’altra?
Potrebbero essere due innamorati.
No, non c’è nulla di innamorato fra loro, nulla di romantico.
Lui potrebbe essere passato a trovarla dopo cena, e se così fosse le starebbe raccontando quanto le è mancata tutto il giorno, quanto ha aspettato la sera per tornare dal lavoro, lavarsi, bagnarsi i capelli e correre da lei. Ma avrebbe un altro tono, un altro ardore. Non starebbe seduto sul parapetto. La starebbe abbracciando dentro il buio del prato, un po’ più in là, fuori dalla vista del pittore, fuori da quella luce cruda della veranda che, a lei, spiove sul viso tirato e le infossa gli occhi in due buchi scuri senza fondo.
Potrebbe essere comunque il suo innamorato, e la loro potrebbe essere una crisi. Ecco, lui magari, una mano sul cuore per rafforzare le parole, le starebbe spiegando che c’è stato un equivoco, è solo un po’ di stanchezza, ma niente è cambiato fra loro. Lui la ama sempre. Devi credermi, le starebbe dicendo. Ma lo sforzo di lui è così debole, così poco convincente. Lei invece, la sua bocca ha una smorfia troppo amara, e c’è troppa tensione nel suo corpo tornito di bella statua. Lontana, inavvicinabile.

Oppure è suo marito, e quella è la loro casa, e dentro, in cucina, lei ha lasciato i piatti sporchi sul tavolo per seguirlo fuori. Dobbiamo parlare, le ha detto. E lei sa di cosa. Di quel divano dove lo ha costretto a dormire da un mese. Dove lui si sente solo. E scomodo. Di quel divorzio che per lei è ormai cosa fatta, passo compiuto, decisione non più negoziabile. Vattene o me ne vado io. Lasciami libera, ché non sono più quella che hai sposato. Che è finita. Che è stato uno sbaglio. Non parliamone più, non serve, non si torna indietro. Non promettermi niente, non farmi proposte, non cercare di impietosirmi. Non offrirmi altro tempo per pensarci, perché sei tu, non io, quello che deve capire. Ma tutte queste cose lei non ha più voglia di dirle. Lascia che parli lui, e non lo ascolta neanche più. Ha la testa altrove, al buco nero della sua stanchezza, che lui non immagina neanche. E quando due, un marito e una moglie, non condividono nemmeno questo, allora è proprio finita davvero.

E se fossero, invece, fratello e sorella? E quella la casa dei vecchi genitori, sempre più sordi e esigenti? E se lui avesse deciso di andarsene, di tentare una nuova vita per il suo giovane futuro? Lui può. È un uomo. Può andare in città e cominciare dal basso, dalla gavetta, da qualche rischio.
Tu devi restare, lo capisci, vero? Devi stare con loro, non puoi abbandonarli. Ma io non posso continuare così, devo scappare da questa prigione, riuscire a combinare qualcosa di buono e poi tornare a prenderti quando potrò rendere libera anche te.
E lei lo sa che ha ragione, che deve lasciarlo andare e abituarsi a pensarlo lontano, estraneo, cambiato, mentre a lei resteranno quei due vecchi ormai incapaci di comunicare e di amare, il loro penoso egoismo, la casa che va in pezzi, le pentole nel secchiaio, il bucato alla pompa, il podere, la legnaia, le termiti. E quel caldo, e quel tempo fermo, e quella mancanza di una qualunque minima, umana, tiepida attesa, perché il pittore non l’ha prevista, gliel’ha negata in partenza, in cambio di una stasi che è come un’anestesia. O come il gelo che iberna il cuore e lo incastona in un ghiacciaio eterno.

 Il quadro è del 1947.
Quei due è da 65 anni che stanno cercando di dirsi qualcosa, e non ci riusciranno mai.