L’estate mia

La luna che sorge stasera dietro il filare di pioppi è quasi tonda, quasi rossa e un po’ fumosa. Sembra una caramellona appiccicosa, e non mi stupirei se ne cominciassero a colare goccioloni gelatinosi come nel racconto di Calvino.
L’estate mia si misura in queste lune, in quei pioppi, che quando un po’ di vento passa attraverso le loro altezze ricorda il fruscio delle pinete a mare, quel fruscio che annuncia la risacca prima ancora che il terreno diventi sabbia affacciandosi sulle dune. Ma dietro i pioppi musicali dell’estate mia non ce n’è, di mare; c’è il parco di una villa veneta con le imposte sempre chiuse, e oltre ancora l’argine di un fiume che più volte ha fatto i suoi bei malanni e che comunque del mare non ha né l’odore né l’incanto.
Di canto c’è quello dei grilli e quello delle cicale. Di odore, quello dell’asfalto e della gomma surriscaldati, che persistono anche nel buio. I fossi sono cicatrici secche lungo i campi stremati, e tremolano in lontananza campanili di borghi che fanno ombra alle tende rosse di piccoli mercati.
L’estate mia è ferma al semaforo deserto di un paese alle due del pomeriggio, scenario abbacinante come un villaggio di cartapesta in Arizona, con due sole comparse che leccano pigramente un gelato davanti alla vetrina dell’agenzia immobiliare.
L’estate mia sono i nordafricani e le badanti slave accampati sotto gli alberi giovani del giardinetto, a far passare ore più inutili delle altre circondati da sacchetti di plastica e sandali rotti.
L’estate mia si misura nelle levate mattiniere con la testa piena di idee e una piccola riserva di energie per tentare di realizzarle contendendo le ore all’afa che poi arriva inesorabile già dopo il caffè; l’estate mia è correre comunque per battere il tempo, quello dell’orologio e quello meteorologico, perché più corro e meno sento il caldo. Il caldo lo sento tutto la sera, quando mi fermo quasi senza aver prima rallentato, e il contraccolpo è di quelli che fanno stramazzare sul letto in posizione di resa, mentre l’inattesa sensazione di conforto alla schiena in quell’alveo morbido e fresco è così inebriante da far girare momentaneamente la testa. E non è ipotensione. È solo annientamento nel benessere e coscienza di averlo meritato.
L’estate mia è annebbiarmi dentro un libro mentre fuori sale quella luna che dicevo e cantano quei grilli di cui sopra, finché gli occhi cominciano a socchiudersi e arriva benedetto il sonno, che durerà poche ore prima che tutto rinasca e si ripeta.
Ma l’estate mia me la tengo stretta, non ho fretta di consumare queste giornate che alludono all’imminenza di una vacanza, in cui mi muovo leggera vestita di poco e mi ricarico come una lucertola al sole. Non ho fretta di tornare a coprirmi, contare gli spiragli della nebbia, chiudermi dietro una finestra rabbrividendo nelle sere precoci. L’estate mia è quando ogni giorno, per il solo fatto che c’è il sole, potrebbe succedere qualcosa di bello, una bella corsa, un bel gelato, una voglia improvvisa di ballare, un ricordo felice che torna, una sorpresa della vita, lo stupore di una nuova storia da raccontare.
L’estate mia è una promessa di mare vecchia come me, e come me sempre incompiuta.

nell’immagine: Paul Gauguin, Donna polinesiana con mango, 1893

Sei giorni e cinque notti

In questi giorni sono in vacanza, e infatti sto scrivendo da una località di villeggiatura segreta ed esclusiva: casa mia.
Casa mia è l’albergo più comodo e tranquillo che conosca (dei pochi in cui sono stata, vabbè), perché dentro ci sono tutte le mie cose, quelle che quando parto (le poche volte che parto, vabbè) non posso mettere in valigia. E poi è tranquillo perché io sono l’unica ospite, non so se mi spiego.
In vacanza uno cosa fa? Fa quel che gli pare, e io è appunto questo che sto facendo. Mi alzo quando mi pare (intorno alle 5 di mattina), vado a letto idem (verso mezzanotte, diciamo), faccio la doccia all’ora che mi pare senza dover badare a non disturbare qualcuno, mangio quel che mi pare e quando e soprattutto se mi pare. Tipo che da domenica non ho più acceso un solo fornello, ho riempito il frigo di iogurt all’albicocca e tanti saluti. Sono in vacanza: non cucino, non apparecchio, non lavo piatti, non aziono lavatrici né folletti né moci o ferri da stiro.
E siccome sono in vacanza e in fondo mangiare e dormire occupano solo frazioni modeste della mia giornata, per il resto del tempo mi dedico senza rimorsi alle cose che piacciono a me. Che si sa che più di tutto mi piace occuparmi di libri, e nella fattispecie in biblioteca. Quindi, full immersion, orario pieno e anche qualche bella botta di straordinari, tanto sono volontaria e non mi pagano neanche l’orario normale. Però con questo stato d’animo vacanziero, rilassato, svaccato di cui godo in questi giorni, sto dando il meglio di me, proprio perché la libertà di non essere attesa da nessuno a casa è qualcosa di impagabile. È questo che mi fa sentire in vacanza: per pochi giorni ho solo me stessa cui pensare, e pare poco?

C’è un unico inconveniente, in tutto questo, e non è la solitudine (ma quando mai?). È che ho sempre la dannata paura di chiudermi fuori di casa. Quando esco devo controllare più volte (diciamo un numero irragionevole di volte) di avere con me le chiavi, perché se resto chiusa fuori, certo, potrei suonare alla vicina, chiederle di telefonare, ma a chi? Sono tutti in giro per il mondo, e in ogni caso non ricordo i numeri dei loro cellulari. Perciò l’unico aiuto che potrebbe darmi la vicina è permettermi di telefonare a un fabbro che venga a scassinarmi la porta.
Sempre che non sia in ferie anche lui, probabilmente a Sharm.