Madeleines

E insomma, c’era quella poesiola delle elementari che stava sempre lì, ai primi posti della classifica dei ricordi fissi, impressa parola per parola e intonazione per intonazione nell’anfratto più blindato dei ricordi remoti. Più stabile e immutabile di tanti altri ricordi remoti, che invece escono a fatica e solo dopo numerosi tentativi di decifrazione. La tiravamo sempre fuori come prova di fedeltà quando ci trovavamo insieme tutti e tre, il che accade solo una volta l’anno in occasione della visita di nostro fratello da Parigi. Quando ci troviamo insieme tutti e tre, torniamo bambini. Ma bambini cretini. E il nostro gioco preferito, lontano da orecchie estranee, è il piccolo archeologo. Archeologia familiare, riesumazione del lessico e della mitologia delle nostre infanzie. Immagino lo facciano tutti. A noi è sempre riuscito benissimo, uno comincia con un “Vi ricordate questo?” e gli altri si illuminano e inizia la gara a chi riesce a recuperare più particolari. “Vi ricordate quest’altro?” Come no, e tutti giù a spararle grosse, arricchendo il ricordo di risvolti umoristici. A volte vengono in soccorso le vecchie foto, nelle quali ci riconosciamo impacciati e ingenui nei nostri cappottini anni ’50, dei quali ricordiamo i colori anche se è tutto rigorosamente in bianco e grigio (il nero si è già stinto).
La poesia delle elementari è un must di queste riunioni. C’è sempre qualcuno che la mette sul tavolo, e allora la recitiamo all’unisono, sovrapponendo le nostre voci nel ritmo e nella pronuncia indelebilmente imparati allora. Imparati dai nostri cuginetti, che dovevano studiarla per scuola, ma noi l’avevamo memorizzata meglio e la ripassavamo con loro. Sotto la brina il pioppo è di cristallo, intona uno, e gli altri subito dietro, come in chiesa per il rosario: Se lo tocchi l’infrangi, e piomba al suolo con tinitinnio di frantumate lastre. Una poesia sull’inverno, sulla natura, triste, accorata, antiquata. Eppure ci divertiva declamarla con intonazione teatrale, era una specie di infantile esorcismo.
L’ultima volta, a febbraio, non abbiamo resistito: l’abbiamo cercata su google. E l’abbiamo trovata al primo colpo. Abbiamo finalmente riportato alla luce il testo completo e anche l’autrice, nientemeno che Ada Negri (magari a questo ci saremmo potuti arrivare anche da soli). Era esattamente come lo ricordavamo noi dopo tutti questi anni. Ma non ce ne siamo rallegrati. No, perché era come un enigma svelato, che ha perso tutto il suo sapore. Prima era un tesoro esclusivo della nostra memoria, ora è un bene comune alla portata di tutti e perciò svilito, banalizzato.
Google è onnisciente: basta digitare qualcosa, un’esca, un brandello, e lui ti spiattella tutto quello che c’è da sapere. È stato un colpo vederlo apparire senza sforzo e tutto intero, il testo de Il pioppo.
Quello che google non sa, però, è molto altro. Non sa quanto ci divertivamo ad andare a trovare i cuginetti. Non sa che lo zio, un buontempone che recitava dai preti, ci raccontava un sacco di storielle e imitava in modo spassoso il parroco di San Giovanni Grisostomo. Non sa che la casa dei cuginetti era per noi l’antro delle meraviglie, perché in cucina c’era un cassetto che conteneva solo carta e matite per farci disegnare, e che in bagno, davanti alla tazza, c’era un armadietto con un giacimento di giornalini (un lusso che a casa nostra era visto come un’abitudine volgare). Né che la mattina ci svegliavamo nel profumo del pane tostato, e gli zii ci davano a credere che fosse appena arrivato a bordo di un elicottero dei Servizi Segreti. E che, staccando il letto dalla parete, ci ricavavamo un nascondiglio dove simulavamo di pilotare una nave spaziale ben prima dell’allunaggio del ’69.

Queste cose google non le sa.
Anzi sì, mannaggia, ora che ve le ho raccontate le sa anche lui.

Mi manda Google

Tra i molti motivi che alimentano il mio strisciante senso di colpa c’è la consapevolezza di deludere il mio prossimo spesso e volentieri. Vorrei essere sempre all’altezza delle aspettative, della fiducia e dell’interesse di cui – indegnamente – vengo fatta oggetto. Per esempio, se in biblioteca un utente mi chiede di fargli una fotocopia fronte-retro, vado in panico e spreco mezza risma di fogli prima di imbroccare la procedura giusta. Me la cavo con un sorriso da imbranata e mille scuse.
Ma non so come cavarmela con quegli utenti virtuali che, per certe loro ricerche specifiche e della massima importanza, si affidano a google e da lì vengono indirizzati al mio blog, evidentemente sulla base di una fiducia malriposta (o di un sistema di selezione all’ingrosso?).
Nell’elenco delle chiavi di ricerca che portano a me, spicca al vertice e con incolmabile vantaggio – che per di più si consolida ogni giorno che passa – il termine (in sé rispettabilissimo) casalinga. Immagino la delusione di chi ci casca, alla ricerca di ricette di cucina o diari erotici che da me non troverà mai. Sto pensando seriamente di sostituire in tutto il blog quel termine ingannevole con un altro privo di ogni ambiguità, ma qualcosa mi dice che potrei cadere dalla padella nella brace oppure confondere le idee di chi mi legge (e pure le mie).
Al secondo posto ci sta un prestigioso Chagall. Questo mi sta bene, Non so se starebbe bene anche a Chagall, però.
Altri avventurosi arrivano qua sperando di risolvere problemi pratici (stanno freschi, io ho già i miei). Vorrei tanto capire come si possa pensare che melusina sia in grado di informare su ingranaggi per tirare acqua dai pozzi oppure come nascondere il water o ancora cosa mangiano i gabbiani. Al massimo potrei accontentare chi cerca prosecco e gatti che fanno cose strane.
Mai nessuno, finora, che Google abbia rimbalzato da me alla ricerca di fanfaluche.
Strano, dal momento che il mio blog ne è pieno.