Laggiù nel Bronx

Questo racconto (che, vi avviso, è lunghetto) l’ho scritto perché nel mio precedente eds Kermitilrospo aveva notato l’assenza di mortammazzati, e ci si era messa poi anche mia sorella a storcere il naso per l’eccessivo buonismo ottocentesco.
Stavolta, come vedrete se avrete la pazienza di leggerlo tutto (è lunghetto, vi avviso), i mortammazzati non si contano, e spunta anche – forse, spero, mi auguro, ci ho provato – un non so che di sano cinismo post-moderno, nel quale in effetti mi riconosco di più.

Me ne stavo seduta sul mio gradino preferito, il penultimo, perché da lì potevo occhieggiare il marciapiede da un angolo all’altro della strada e verificare, dall’affollamento di cartacce e lattine, il grado di efficienza del servizio municipale di nettezza urbana nel nostro quartiere, e intanto facevo quella cosa stupida che faccio sempre quando sono assorta e/o triste: mi grattavo le ginocchia. Con una specie di affetto, senza graffiare, più che altro un surrogato di carezze e pacche sulle spalle come quelle di cui era carente la mia vita di dodicenne. I gatti risaliti dai seminterrati o scesi dai cornicioni sezionavano scientificamente i sacchi dell’immondizia, riportando alla luce i vassoi di cartone stagnato in cui mia madre e io avevamo cenato con la robaccia unta del cinese all’angolo. Lei aveva smesso di cucinare molti anni prima, il giorno in cui era scomparso mio padre. Molte cose aveva smesso di fare, da quel giorno, e dal momento che già prima ne faceva assai poche si può dire che fu da allora che avevo dovuto farle tutte io. Lei del resto non era in grado. All’inizio, per quasi un anno intero si era dedicata alla ricerca di papà. Era diventata una habituée dell’obitorio, ci andava non meno di due volte al mese, e in certi periodi anche quattro, se aveva fortuna. Ogni volta che ripescavano nella baia il cadavere violaceo e gonfio di un ubriaco, oppure raccoglievano quello stecchito e brinato di un barbone congelato sotto un viadotto della metro, o ancora recuperavano quello raggomitolato nel vomito secco di un tossico in un edificio in demolizione, ogni volta, purché di sesso maschile e privo di documenti – cioè in almeno metà dei casi – facevano un giro di telefonate per invitare le persone che avevano fatto denuncia di scomparsa di un familiare a presentarsi per l’eventuale riconoscimento, e mia madre fra queste.
Per mesi se li andò a vedere tutti, con cura e accanimento, non trascurando nemmeno i cadaveri di razza asiatica e gli afroamericani. Riceveva la chiamata e subito si emozionava come per un appuntamento in centro: indossava un vestito appropriato, dei pochi che aveva, e prendeva un certo numero di autobus per andare fin laggiù. Stava fuori anche diverse ore, perché prendeva la cosa molto sul serio; talmente sul serio che, lungo la strada del ritorno, sentiva il bisogno di fermarsi in qualche bar e concedersi una colazione abbondante, e poi magari un giretto per negozi dove provava vestiti che non poteva permettersi di pagare.
“Come è andata oggi? – le chiedevo educatamente.
“Niente. Era un cinese. Gli somigliava molto, non mi sarebbe dispiaciuto che fosse proprio lui, ma non c’è stato niente da fare: era proprio un cinese – riferiva, delusa.
Oppure:
“Quello di oggi non so proprio come abbiano potuto propormelo. Tuo padre aveva tanti difetti ma, diamine, non certo un occhio di vetro!”
Le piaceva così tanto che a volte andava all’obitorio di sua iniziativa, si affacciava chiedendo garrula “C’è niente per me?” e poi si tratteneva a prendere caffè e ciambelle con gli inservienti fino a mezzogiorno, per tornare a casa se non altro di buon umore per aver passato del tempo con amici.
Per la frustrazione, mia madre si era buttata sul cibo. In forma non era mai stata, era più il tipo tendente al tondeggiante, un tondeggiante sodo e qua e là bozzuto, ma ora si sentiva autorizzata dalle circostanze a introdurre nel suo corpo, senza il minimo riguardo, calorie sufficienti a riempire il vuoto lasciato da mio padre, sotto forma di cibi tra i peggiori, più grassi e malsani potesse trovare al supermercato o nelle rosticcerie più malfamate. Casa nostra si riempì di involucri, cartocci, scatole di pizza, incarti di dolciumi, bicchieroni di plastica di gelato; ingeriva 4 hot-dog e 2 stecche di cioccolato già per colazione, a pranzo scartocciava un vassoio formato famiglia di ali di pollo e patatine fritte, poi per cena diceva di volersi tenere un po’ più leggera e si faceva bastare un paio di pizze e una scatola di gelato. I cioccolatini se li portava a letto, erano quelli della buonanotte, diceva, e presi uno alla volta e così piccoli non potevano farle male. Di tutto questo posso riferire, ma alla mia osservazione sfuggivano gli spuntini che certamente faceva durante la giornata mentre io ero a scuola, e di cui restavano testimonianze nei rifiuti che scovavo sotto il letto quando andavo alla caccia di quei topi che, a un certo punto, cominciai a sospettare coabitassero l’appartamento.
In pochi mesi, mia madre era ingrassata ben oltre il limite dell’obesità media di cui soffre, pare, un’altissima percentuale di americani. Le sue dimensioni avevano qualcosa di sciamanico; il suo corpo non aveva più una forma, ma molteplici forme, e sotto le smisurate vestaglie con cui lo copriva assumeva aspetti sempre nuovi e sempre in movimento, come di materiali ammucchiati maldestramente che tendessero a scivolare uno sull’altro alla ricerca di un assetto meno pericolante, come ondate straripanti che si snodavano e smottavano e si riaccomodavano in balia della forza di gravità, affacciandosi flaccidamente ora all’altezza dell’addome (ormai tutt’uno con le mammelle), ora a quella dei fianchi (ormai tutt’uno con le natiche). Era tutto un ballonzolare, uno spenzolare, uno sgusciare molle, un contorcersi greve come di serpente obeso e moribondo.
Ormai pilotare nello spazio angusto del nostro appartamento quel gigantesco ammasso di carne senza controllo che era diventato il suo corpo era per lei un’impresa che la costringeva a passare di fianco attraverso le porte e a ricorrere a me per qualunque incombenza. Negli ultimi tempi usciva di casa solo per andare, soffiando come un tricheco, all’obitorio, e poiché non era più in grado di salire e scendere dall’autobus si era rassegnata a prendere un taxi, la cui spesa si aggiungeva dolorosamente alle altre più essenziali e contribuiva ad assottigliare i pochi risparmi rimasti. Io avevo cominciato a saltare giorni di scuola perché ero troppo impegnata a occuparmi di lei, della sua interminabile toilette che faceva seduta su uno sgabello rinforzato nella doccia sollevando una dopo l’altra le mammellature davanti, dietro, sopra e sotto affinché ci passassi un asciugamano insaponato e la pasta allo zinco per dare sollievo alle piaghe fetide e melmose ospitate nel fondo di ogni piega.

Un giorno, dopo quasi un anno, tornando a casa da scuola la trovai seduta in cucina in compagnia di due tipe dei Servizi Sociali. Una di esse si alzò per venirmi incontro e con un certo garbo compunto molto professionale mi annunciò che quella mattina mia madre aveva riconosciuto papà nel cadavere di un uomo rinvenuto in un vagone merci in disuso abbandonato da anni su un binario morto. Mia madre guardava nel vuoto e non mi parve sconvolta, aveva le labbra strette come stesse riflettendo e ogni tanto annuiva a se stessa. Quando restammo sole, non mi disse molto: solo che ora dovevamo pensare a noi stesse e che quelle due brave signore ci avrebbero aiutate. Io ero così abituata a pensare mio padre come morto che averne avuto la conferma non cambiò molto le cose.
Invece le cose cambiarono. I Servizi Sociali ci riconobbero un assegno di sostentamento e controllarono che non mancassi più alle lezioni. Una volta ogni tanto passava qualcuno a chiedere se avessimo bisogno di qualcosa, ci portavano bende e pomate per la mamma, abitucci usati per me. Ma la più grande novità fu che mia madre si mise a fare progetti. Un giorno mi disse che si era trovata un lavoro, un lavoro da svolgere in casa. Mi disse che la sua lunga frequentazione dell’obitorio l’aveva illuminata, le aveva fatto scoprire di possedere una dote che ci avrebbe fatte ricche: la dote di saper parlare con i morti. Nel quartiere la notizia non stupì, e la clientela, fatta per lo più di vedove superstiziose, non tardò a raccogliersi numerosa.
Mia madre per l’occasione evocò lontane origini pellerossa e si impadronì dello spirito di una bisnonna Cherokee, prendendone a prestito il nome, Esmeralda, e l’acconciatura, una parrucca con lunghe trecce corvine con la quale nascondeva i capelli stopposi e rarefatti vittime di decenni di sciagurate tinture nonché degli squilibri nutrizionali. Riceveva nella saletta da pranzo, sacrificata a studio esoterico e addobbata di drappi neri alle pareti e di un’oggettistica dissennatamente ibrida che comprendeva simboli indiani, zampe di conigli, teschi di gatti, campanellini buddhisti, candele da catacomba, fotografie di ectoplasmi. Aromi di incensi di poco prezzo coprivano la puzza dei cibi e dello zinco rancido. I clienti arrivavano riverenti, in soggezione, e li accoglievo io, conciata con una tunichetta di pizzo tinto di nero che cominciò presto a starmi stretta ma che mi conferiva dignità e mistero. Li introducevo al cospetto della sciamana Esmeralda e poi mi ritiravo, per ricomparire solo al termine della seduta e incassare la tariffa, che non era esosa ma nemmeno modesta. Mia madre non voleva che assistessi, e da dietro la porta sentivo solo qualche mormorio e un tintinnare di sonagli che significavano l’arrivo dell’anima richiesta. Le anime rispondevano sempre alla chiamata. Ogni vedova, ogni orfano ultrasessantenne, ogni decrepito reduce di Corea ansioso di ricollegarsi a un vecchio commilitone caduto, tutti avevano il loro momento magico e misterioso, il loro contatto dall’aldilà, risposte alle loro domande, conforto alle loro nostalgie. Mia madre non so come facesse, ma dispensava del bene a tutti. E di quell’attività campavamo.

Me ne stavo, insomma, sul penultimo gradino e mi grattavo sconsolatamente le ginocchia, quando dall’angolo della strada vidi avanzare, col suo inconfondibile passo danzante, mio padre morto da cinque anni.
La sua andatura era quella delle persone molto alte e smilze, di un giocoliere, o forse di un giocatore di basket sul parquet: dondolante, rilassata e piacevolmente controllata. Il gesto gli partiva dalle spalle, come si apprestasse a cingere una donna per un giro di valzer, e si trasmetteva alle lunghe gambe leggermente arcuate, poi ai piedi che sembravano accarezzare il suolo con la leggerezza di un Fred Astaire.
Avanzava lungo il marciapiede sorridendo fra sé come un fanciullo in vacanza, le mani nelle tasche dei pantaloni color verde stagno, una giacca di velluto assai frusto color melanzana, scalciando affettuosamente le cartacce che i suoi piedi incontravano e puntando verso casa nostra. Quando mi fu vicino, si inclinò un po’ per scrutarmi attentamente e mormorò cantilenando:
“Guarda guarda Betty Lou come si è fatta grande…”
Io, dico la verità, non feci quello che sarebbe stato ovvio per chiunque: non mi alzai di colpo, non mi impressionai, non tentai di ritrarmi per lo spavento né feci domande con voce strozzata. E lui non fece niente di quello che ci si sarebbe potuto aspettare: non mi sfiorò, non mi accarezzò i capelli, non fece il gesto di abbracciarmi. Ci guardammo per qualche istante, forse rimandando tutto a un altro momento.
Poi lui disse, educatamente:
“Beh, io salgo un attimo”.
E io rimasi lì su quel gradino, senza pensare a niente, perché qualunque cosa avessi pensato certamente era troppo grande per me. I gatti selezionavano gli avanzi, raspando fino all’ultima molecola le carte oleate della rosticceria e lasciando ai cani, che sarebbero sopraggiunti più tardi e che notoriamente mangiano di tutto, la stagnola del cioccolato del resto già meticolosamente leccata da mia madre.
Non rimase di sopra a lungo, diciamo un quarto d’ora secondo la mia incerta percezione di dodicenne. Io non mi ero mossa, e lo sentii alle mie spalle lasciar ricadere il portoncino e saltellare giù dai gradini con lo stesso lieve atteggiamento fanciullesco e malandrino di quando era salito.
Ora mi aspettavo, che ne so, una frase, qualcosa, qualcuna di quelle cose che prima ritenevo avessimo solo lasciato in sospeso, e dentro di me pensavo che non ne avevo poi un gran desiderio, perché poteva saltar fuori una situazione ben più che bizzarra o imbarazzante. E io di situazioni bizzarre e imbarazzanti ero, a dir la verità, anche abbastanza stufa.
“Dice tua madre di salire per aiutarla a mettersi a letto – mi informò con gentilezza, e in quel momento sentii il suo odore, che era di elefante, e vidi che aveva i capelli raccolti in un codino e ai polsi portava due braccialetti di misere perline.
Poi se ne andò, verso l’angolo di strada da dove era svoltato, ma a metà si fermò un attimo, mi chiamò:
“Ehi!”
E mi lanciò qualcosa, che io fui svelta ad afferrare tra le mani.
Poi un ultimo gesto di saluto, e fu tutto.
Mi aveva donato un pacchetto di sigarette, ciancicato e mezzo vuoto. Lo guardavo chiedendomi se un padre che regala sigarette a sua figlia di dodici anni è un padre molto moderno, oppure nessun padre.
Mia madre mi aspettava sulla sua poltrona sfiancata. Senza una parola le sfilai le calze dalle gambe pachidermiche e l’immensa tuta di ciniglia di un fragoroso color fragola, le rinnovai gli strati di garze intrise di pomate puzzolenti, raccolsi da terra i resti di un paio di scatole di cioccolatini e la scortai nella penosa navigazione verso il letto.
Fu solo quando si fu sistemata con molti ansiti e gemiti e il suo immane corpo ebbe finito di spargersi, dilagare e invadere il materasso, che mi parlò. Era provata ma durissima, determinata.
“Nessuno deve saperlo. Giura che non lo dirai a nessuno. A nessuno, capito?”
“Ma allora non era morto davvero?”
“A nessuno, ti dico, a nessuno – ribadì con forza.
Poi aggiunse:
“Non piangere. Pensa solo a questo: se qualcuno lo viene a sapere, noi perderemo il sussidio, e io perderò la mia reputazione. Ho un lavoro onorato, la gente crede in me. Non vuoi rovinare tutto, vero? Dimmi che non vuoi”.
Io non è che stessi piangendo, né ne avevo l’intenzione. Trovavo solo ingiusto che certe cose succedessero un metro sopra la mia testa.
“No che non voglio, ma se lui tornasse? – tentai, per farla ragionare.
“Ah no che non torna, puoi star sicura. Gli ho detto che se torna lo ammazzo con le mie mani – mi assicurò, e la sua voce era colma di desiderio di vendetta. Capii che parlava seriamente, e del resto disponeva di un’arma letale: il suo stesso peso, con il quale avrebbe potuto mantenere la minaccia col solo accasciarglisi addosso e schiantarlo come un qualunque sgabellino di bambù.
“Ma tu lo sapevi, però – protestai debolmente.
Lei non rispose. Un giorno, cinque anni prima, aveva fatto la sua scelta, e oggi non le restava che ribadirla.

Quella notte mi svegliai di soprassalto perché mi ero dimenticata di controllare una cosa. Tirai fuori dal comodino il pacchetto di sigarette e lo esaminai per bene: ne conteneva cinque, storte, mezze morte, mezze sbriciolate. Cercai dentro e fuori se vi fosse un biglietto, un messaggio, un indirizzo.
Ma era solo un pacchetto cincischiato e mezzo vuoto, giusto con un fondo di odore di elefante.

*    *    *

E anche con questo partecipo all’eds Nero di Natale della solita stregonessa Donna Camèl, in ottima e abbondante compagnia con:
Hombre con Ti prego, non chiamarmi Barbie
Dario con Zebre e savane
Leuconoe con Placida come il fiume
Pendolante
con Natale con soffritto
Kermitilrospo
con Pedalata nera
Fulvia
con Il quadro capovolto – 2a parte
Lillina
con Una vita segnata
Calikanto
con Nero livido
La Donna Camèl
con Se tu mi amassi
Singlemama
con Dissolvenza in nero
Angela con Chi è di scena
Angela
(ancora) con Taccido 

L’appartamento

L’ultimo cliente era uscito da venti minuti.
Alle diciannove e trenta, Augusto Linassi, libraio in Campo santa Margherita, spense le luci, chiuse il negozio e percorse i pochi metri che lo separavano dall’ambulatorio dell’amico dottor Attilio Cavagnis. Lo faceva almeno due volte la settimana da oltre vent’anni; passare, affacciarsi un momento solo per un saluto, oppure aspettare che terminasse e poi uscire per fare un pezzo di strada insieme, chiacchierando sobriamente.
La sala d’attesa era vuota, e un lieve mormorio segnalava la presenza di un ultimo paziente dietro la porta chiusa. Non ci mise molto.
Attilio lo ricevette serenamente rilassato sulla sua poltrona dietro la scrivania in disordine.
“Finito?”
“Credo”.
Seduti uno di fronte all’altro, si guardavano con vecchi sorrisi virili, assaporando la soddisfazione in cui si stemperava la stanchezza di fine giornata.
“Allora”.
“Allora – ripeté Augusto. Era un vezzo quello di rimpallarsi l’esordio della conversazione, la quale avrebbe dovuto svolgersi senza fretta, su un registro disteso. Potevano farsi compagnia per interi minuti così, senza parlare, senza affrontare alcun tema, solo lasciandosi scorrere addosso quei preziosi istanti di serenità e reciproca confidenza.
“Tanto lavoro? – chiese il medico.
“Non mi lamento. C’è ancora chi regala libri a Natale, per fortuna. Meno di una volta, ma c’è”.
“Adesso va il tecnologico – notò Cavagnis.
“E tu, qua? Arrivata l’influenza?”
“Il solito, i malanni di stagione, i certificati di malattia, sai com’è”.
“Guarda che io non mi vaccino, sai. Il vaccino è per i vecchi, io mica sono vecchio. Ho la tua età!”
Risero affettuosamente.
“Casomai dovrei vaccinarmi io, che passo tanto tempo in mezzo a gente piena di bacilli”.
Poi, come ricordando improvvisamente la sua missione, chiese:
“E Liliana come sta? Tanto che non passa a misurarsi la pressione”.
“Liliana sta da dio, figuriamoci. Sempre in giro a conferenze, corsi di yoga. La pressione se la fa vedere dal farmacista, dice. Costa 3 euro”.
Attilio si alzò prendendo l’apparecchio:
“Vieni qua che a te la misuro io, e gratis”.
“Tre euro! – ribadì Augusto, scoprendo il braccio.
“E vai sempre a remare? – chiese Attilio dopo la misurazione.
“Come no, come no. E do dei punti ai giovini, anche”.
“Ci credo, ci credo. Sei sempre stato uno sportivo”.
“Com’era la pressione?”
“A posto”.
Tornarono a sedere l’uno di fronte all’altro.
“Cosa fai a Natale? Perché non vieni da noi? Liliana mi ha raccomandato di invitarti”.
“Vado a Padova da mia sorella, ma ti ringrazio lo stesso”.
“Attilio, da quant’è che siamo amici?”
Attilio Cavagnis la conosceva, quell’ouverture. Saltava fuori nei momenti di maggiore abbandono, di più intima confidenza, e preludeva a un piccolo viaggio nella commozione della memoria.
“Dall’asilo, Augusto. Dall’asilo”.
“Suor Geromina, te la ricordi?”
“Eccome se me la ricordo. Cicciottella ma con manine piccolissime. Anche i piedi. Piedini minuscoli. E il resto, tutto cicciottello”.
“Ci soffiava il naso fino a farci uscire il cervello”.
“E il liceo, te lo ricordi?”
Domande che non necessitavano di risposte.
“Tu sei l’unico con cui non abbia fatto a pugni al liceo. Perché portavi gli occhiali” – rievocò Augusto, e aggiunse, togliendoli per pulirli col fazzoletto:
“E adesso li porto anch’io”.
Tacquero per qualche istante, poi fu il medico a prendere in mano la situazione:
“Ma tu volevi dirmi qualche cosa, vero?”
I loro sguardi, da dietro le rispettive lenti, si fecero complici. Il libraio assunse un’espressione da cospiratore e si sporse sulla scrivania per dare un tono più teatrale alla sua rivelazione:
“L’appartamento. Quello sopra il negozio. Due piani luminosi più soffitta abitabile – qui una pausa strategica, per poi subito dopo raddrizzarsi e annunciare trionfante: “L’hanno messo in vendita”.
La notizia era delle più felici.
“Ma non mi dire!”
“Il vecchio è morto l’anno scorso, e ora il figlio, l’australiano, sì, quello emigrato in Australia, si è deciso a venderlo. Sì sì. Già”.
“E tu hai fatto un’offerta, immagino?”
“Fatta. E accettata. Lunedì firmiamo”.
Il dottore rimase senza fiato:
“Bel colpo, vecchio mio! Erano anni che gli stavi dietro!”
“Anni. Anni che me lo sognavo anche di notte. Casa e bottega, capisci.  Così il giorno che mi stufo di lavorare affido il negozio a qualcuno e mi limito a scendere qualche ora ogni tanto, per vedere se tutto va come dico io”.
“Son contento, son proprio contento”.
“Sai, mia moglie è figlia unica e ha ereditato bene. Io ho messo da parte un po’ di soldi, e poi ho il mio appartamento ai Frari, che se la banca mi fa un prestito posso venderlo bene, con calma”.
“Ottimo, ottimo. Passerete un bel Natale. Son proprio contento – ripeté Attilio, sul viso un largo sorriso.
Poi, stringendosi un po’ nelle spalle come per timidezza, si decise a mettere in tavola la propria, di notizia.
“Anch’io, Augusto, ho una cosa da dirti. Niente di che, in confronto alla storia dell’appartamento, però nel suo piccolo per me è importante”.
Augusto lo incalzò con aria canagliesca:
“Dai, spara!”
Attilio Cavagnis abbassò gli occhi, congiungendo le mani sul piano della scrivania in atteggiamento imbarazzato, ma felice.
“Un editore mi ha offerto un contratto. Il mio libro uscirà tra poco”.
Augusto saltò su dalla sedia alzando le braccia giubilante:
“Alleluia, era ora! Il tuo romanzo storico, quello sulla peste a Venezia! Grande lavoro, grande affresco, io l’ho letto in bozza e posso ben dirlo!”
“Allora, lo venderai nel tuo negozio? – chiese Attilio ridendo.
“Gli farò una vetrina apposta, scherziamo. Ti organizzerò una presentazione al pubblico e farò venire mezza città. Ah, lascia fare a me che conosco tutti!”
“Vedremo, vedremo… – si schermì il medico, notoriamente schivo.
“Qua ci sta uno spritz! – tuonò Augusto alzandosi – Alla nostra salute, alla salute di due vecchi veneziani che alla loro non fresca età ancora sono capaci di fargliela vedere!”

Sulla soglia sostarono a infilarsi i guanti osservando benevolmente i passanti con i pacchetti lucenti, le luminarie rosse e oro, le vetrine dei caffè appannate di vapore.
Augusto alzò gli occhi annusando il cielo buio sopra i tetti invisibili.
“Sai cosa ti dico? – annunciò in tono sapiente – C’è aria di neve”.

 nell’immagine, un’opera di Renato Ambrosi

La pappa!

Questa è vera quant’è vero Iddio, tramandata negli annali della mia famiglia come una delle pagine più pittoresche e significative della prima infanzia di me medesima, quella me medesima che, nata sotto il segno dell’Acquario, già in tenerissima età manifestava intraprendenza, talento artistico e doti creative.
Era una bella estate sul finire, al Lido passava la Mostra del Cinema (fu l’anno di Rashomon, per illustrare il livello) e sulla spiaggia attricette e parvenus si facevano immortalare dai fotografi, mentre nelle serate danzanti dei grandi alberghi impazzavano le musiche elettrizzanti di Perez Prado.
Io avevo mesi pochi ma sufficienti a gattonare e a progettare guai, ragion per cui nei momenti di maggiore indaffaramento mia madre mi neutralizzava deponendomi all’interno di un box con sbarre di legno. Mi ci trovavo, contro ogni mia volontà, anche il mattino di quella famosa telefonata. Il telefono lo avevamo da poco, e infatti a poco serviva. Lo avevamo messo più che altro in caso si dovesse chiamare il pediatra, perché quasi nessuno dei nostri parenti e conoscenti lo aveva. La nonna, per esempio, che abitava a Venezia, non lo aveva. Quella santa donna, per avere notizie della sua prima nipotina, si alzava all’alba, puliva casa, preparava il pranzo per il nonno, prendeva il vaporetto e in un’oretta, pian pianino, fermata dopo fermata, sbarcava al Lido e si presentava a casa nostra con la sua sporta piena di piccoli doni umili.
Una che aveva invece il telefono era la più cara amica della mamma, e con lei stava parlando quella mattina di bel sole, finestre spalancate e Tico Tico dalle radio di tutte le case vicine.
Io nel box mi annoiavo. I giocattoli li avevo già gettati tutti sul pavimento, avevo tirato anche un po’ di strilli nervosi e tentato inutilmente di scardinare le sbarre, ma quelle due ne avevano, da raccontarsi. Avessi avuto una sorellina, un fratellino, un gatto. Ma vennero tutti dopo, col tempo..
A proposito di gatti, lo sai cosa fa un gatto quando non sa più come attirare la tua attenzione? Ti fa gli scherzoni. Ti rubacchia la penna, ti fa cadere un soprammobile, ti graffia il divano, finché non gli dai retta.
Io feci la cacca.
E dato che avevo mangiato la pappa di carote, feci la cacca di pappa di carote, per colore e consistenza perfettamente identica, giusto un po’ differente quanto a odore. La feci, l’osservai e mi dissi che com’era entrata così era uscita, tale e quale. Arancione e papposa. E siccome non mi era nemmeno piaciuta, l’idea di averla trasformata in cacca fu un po’ una vendetta.
Solo che non è tutto qua. Una marmocchia di pochi mesi è perfettamente autorizzata a fare la cacca nel box, non c’è nulla di cui rimproverarla, soprattutto se la mamma è temporaneamente distratta altrove.
Bisognava aggiungerci il tocco speciale, quello che avrebbe trasformato un evento naturale in un monito degno di essere ricordato.
Così, mentre la mamma continuava a parlottare al telefono, io con le manine sante cominciai a raccogliere la santa cacchina papposa e a spalmarla coscienziosamente dappertutto, sulle odiate sbarre, sul pavimento di cartone, sulle gambette nude e, con maggiore abbondanza, sul bel musino lentigginoso che mi ritrovavo e che tutti volevano sempre sbaciucchiarmi. Tracciai pennellate spontanee secondo una tecnica di mia invenzione (successivamente copiata da certi pittori astratti) ottenendo interessanti effetti cromatici e soprattutto materici, e avrei continuato a perfezionare la mia performance se ad un certo punto non mi fosse venuta a mancare la materia prima.
Finita la telefonata, la mamma mi trovò così, placida e orgogliosa della sontuosa opera pittorica che mi circondava e di cui facevo parte. Un quadro vivente, e olezzante. Mi sentivo come mi sarei sentita tante altre volte nella mia vita, in futuro: appagata per un atto artistico originale, come quando metto la parola fine a un racconto perché ormai quello che avevo dentro è uscito tutto (sì, ammetto che il paragone è imbarazzante, potete astenervi da battutacce ovvie).
Qui il biografo dice solo che a mia mamma cascarono le braccia, sorvolando con eleganza sulla scena isterica che ne seguì, e che sfociò in una nuova telefonata di sfogo, stavolta a mio padre, il quale non la prese tanto bene e minacciò di sciogliere il contratto con la Telve. Poi però non lo fece. E neppure mia madre mi fece più la pappa di carote.

*    *    *

Scherzosamente scritto per l’Eds arancione del grande cocomero, bandito dalla Donna Camèl che ormai tutti ben conoscono…
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Il quadro capovolto (1a parte) di Fulvia
Pronto soccorso di La Donna Camèl
Maracaibo di Lillina 

L’albatro – 4 di 4

A volte fui malato. Un’estate, la dissenteria. Sudavo freddo e tremavo, e il mio corpo si svuotava di continuo lasciandomi stremato. In più occasioni mi procurai ferite brutte, talora slabbrate, con gli attrezzi da lavoro. Mi capitò di dover stare inattivo e a riposo sulla branda, alternando la coperta contro i brividi e la fiasca dell’acqua per la febbre che mi prosciugava. Quando non mi vedevano affacciarmi, cominciavano a preoccuparsi, così predisposi un cartello ed ebbi cura di appenderlo al parapetto non appena avvertivo segni di malattia: “Tutto bene, sono solo molto occupato”. Mentivo, un po’ per orgoglio e un po’ per amore.
Una mattina, però, più o meno un anno fa, al risveglio dopo una notte d’inferno in cui ero stato più che altro incosciente a causa di una febbre polmonare, feci una scoperta che mi fece singhiozzare di tenerezza: sulla panchetta accanto al mio letto madido qualcuno aveva deposto un bottiglino di sciroppo e un biglietto: 3 cucchiai al giorno per abbassare la febbre.
Qualcuno, Maxim o il dottore o entrambi, erano saliti a bordo furtivamente per portarmi soccorso, infrangendo le regole e i vincoli finora rispettati da tutti.
Ed è successo ancora, più di recente, e stavolta erano compresse di aspirina o asciugamani puliti, brodo di carne, disinfettanti, un cuscino di piuma d’oca, mutandoni di lana ruvida, liquore d’erbe. Libri, tanti libri. Contro l’ignoranza e l’isolamento.
Approfittano delle mie infermità, dei miei stati di sopore, e si curano di me più di quanto si curino della Legge. Non si fanno sentire né vedere, non si lasciano ringraziare. Di tutto questo non si parla, non si deve parlare. Succede, lo fanno, e io lo accetto in silenzio. Un patto più forte di tutti i patti. Dio lo chiamerebbe Misericordia.

Il resto è nel diario, un quaderno ormai slegato, con i fogli che si staccano e cambiano posto, invertendo e confondendo la cronologia di questi dieci anni, forse quindici.

Aprile
Da tre giorni non vedo Maxim. Il secondo giorno un pescatore mi ha detto che sua moglie sta male. Il terzo giorno che è morta. Non sapevo avesse moglie. Non sapevo fosse malata. Vorrei solo essere con lui. 

Settembre
Sento dire che la guerra è finita, o sta finendo. Di più non si sa, ce lo racconteranno i reduci se e quando torneranno. Questa nave non potrà mai più navigare, questo è certo. Un po’ per volta ho utilizzato tutti i materiali sfruttabili, tramezzi di legno e piastre di ferro, lucerne, pezzi di ricambio, barili, olio, pece, cordami, vernici, manopole di ottone. L’ho mangiata viva. 

Agosto
Ho letto un libro che parla di me. Si intitola Robinson Crusoe. 

Dicembre
Il capo dei gendarmi mi ha regalato una bottiglia per Natale e mi ha messo in guardia. Dice che a guerra finita non finiranno automaticamente anche i miei guai, perché dovrò rispondere del reato di diserzione, clandestinità e furto di beni della Compagnia armatrice. Dice che devo essere paziente e aspettare ancora un po’ finché non si chiariscano le cose. Io invece penso che dopo tanto tempo si saranno dimenticati sia di me che della nave, che ci avranno creduti naufragati e buonanotte. 

Giugno
Ho chiesto consiglio a Maxim. Gli ho detto che vorrei scrivere una lettera a qualcuno perché mi aiuti a risolvere la mia situazione. Non so, un giornale, un ministro, un presidente di qualcosa. La Croce Rossa, eventualmente. Mi ha risposto che il servizio postale ancora non è ripreso del tutto, ma che intanto, se voglio, posso buttar giù qualche brutta copia. Lui me le correggerebbe volentieri. 

Luglio
A volte mi prende il delirio  che mi stiano ingannando tutti. Fin dall’inizio. Mi hanno convinto a restare qua, libero purché rimanga a bordo, e anche adesso che sembra che la guerra sia finita continuano a esortarmi a non fidarmi, a non scendere, ad avere pazienza. Io non lo so più cosa sto aspettando, a cosa serva avere ancora pazienza. Mi chiedo per quale diabolico motivo non vogliano lasciarmi andare. E subito dopo mi do dell’idiota per averlo anche solo pensato. 

Luglio
E se chiedessi asilo politico? 

Luglio
Ma a chi? 

Novembre
Tosse. 

Novembre
La nave sta andando in malora. Ruggine. Cattivo odore. Non ce la faccio, non ho più voglia. Mi metto sulla branda e faccio buio nella testa. Posso passare interi giorni così. Nella nebbia. 

Novembre
Ancora tosse, schiena indolenzita, testa che mi scoppia. Fa notte troppo presto. A volte sogno i topi, allora mi decido a ispezionare dappertutto, ma per ora nessuna traccia. Se arrivassero anche loro, non 

Febbraio
Freddo secco, rigido. Tutto bianco e d’alabastro. La tosse va meglio. Appetito, niente.

 Febbraio
Quanto mi manca un lungo bagno caldo, quanto. 

Marzo
Rondini!

Uno di questi giorni verranno festanti ad annunciarmi:
“Tutto a posto, è finita, sei libero, puoi scendere a terra!”
E per quel giorno io vorrei essere pronto, aver domato questa tosse, rimpolpato un po’ queste gambe scheletriche, raddrizzato questa schiena ingobbita, cicatrizzato tagli ed escoriazioni, ripassato come si fa a ridere, e preparare per loro una grande festa, farli salire, mostrare loro con orgoglio questo relitto generoso ripulito e lucente, e brindare, consegnare a ognuno piccoli doni (metterli in quelle mani che non ho mai toccato), ballare le loro canzoni suonate con la chitarra e la fisarmonica, girare girare girare fino a rischiare di perdere i sensi, e alla fine abbracciarli tutti e chiedere loro “Tenetemi con voi”.

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L’albatro – 3 di 4

Certe albe verde-azzurre, certe nottate di stelle estive passate in coperta un po’ dormendo e un po’ piangendo, certi cigolii di gomene sfilacciate, cullanti o stridenti a seconda della marea, gli odori dell’acqua stagnante e del ferro riscaldato dal sole, di vecchio combustibile e di alghe fresche al mattino. Le bitte di pietra, i gabbiani di cristallo.
Le case stinte con imposte da bambole, i tetti violacei dimore di cicogne; il fumo dei focolari in inverno, qualche spruzzo di neve, le ventate che scendono impetuose dalle montagne lontane e ruggendo si allargano verso il mare aperto lasciando turbini di foglie e polvere e stracci  e un cielo più vasto e abbacinante. Le lunghe sere di primavera, un muggito lontano dalle stalle, il canto semplice e contadino dei secchi di zinco. Il timbro antico di zoccoli di legno sui selciati sconnessi, le campane della domenica e dei morti, i bambini con lenze improvvisate che imparano a pescare dal molo, a piedi scalzi.
Un paese mai veduto eppure imparato a memoria.

Quando morì il vecchio Elijah, ne ereditai il mestiere e tutti gli arnesi. Mi sistemai un piccolo laboratorio in una cabina con luce e misi in piedi l’unica attività possibile: l’aggiustatutto. Mi facevo mandare su nel cesto o con corde robuste sedie spagliate, madie traballanti, mastelli sfondati, ma anche casseruole da stagnare, orologi incagliati o giocattoli di legno da riparare. Tutti lo impararono presto: se c’è qualcosa di rotto, portatelo a Viktor, sa fare un po’ di tutto e ha tanto tempo. Mi sono mantenuto così in questi anni, in una scambievole assistenza. Dalla mia prigionia a cielo aperto, ho sopperito con le mie alle mani degli uomini – mariti, padri – lontani in guerra.
“Maxim, cosa mi dici della guerra?
“Eh, la guerra. Va e viene”.
La guerra non si vide mai, ma si sapeva che c’era anche quando pareva tacere. Si spegneva qua per riaccendersi a tradimento un po’ più in là, e non si capiva mai chi stesse vincendo.
“Maxim, ma chi è che vince?”
“Non si sa. Devono ancora deciderlo”.
I bambini continuavano ad andare a scuola e a venire sotto la murata a fare i compiti.
A volte sotto la murata venivano anche gruppetti di ragazze, la domenica pomeriggio. Passeggiavano chiacchierando nell’unico giorno di festa, con i loro vestiti rilucidati e rammendati, le gonne coi ricami tradizionali che nascondevano le calze grosse, sui capelli larghi scialli a fiorami con frange di seta. Mi facevano sorrisi e cenni di saluto, ma erano vergognose perché ero un uomo e passavano oltre senza fermarsi. Forse però, allontanandosi ridacchiando a braccetto, fra loro parlavano di me.
Olga no, perché era sordomuta, e con lei usavano il linguaggio dei segni. E io, di Olga mi innamorai. Di quegli amori necessari ma solo sognati, un’invenzione della solitudine e dell’incertezza. Era un volto da riconoscere e cui pensare come fosse cosa mia pur sapendo che non lo era, come i giocattoli costosi nelle vetrine a Natale. Era una buonanotte dolce e malinconica quando scendeva il buio e mi rintanavo come un topo nell’unico letto che mi era concesso.
Più avanti si sposò, con un ragazzo sordomuto come lei, l’unico rimasto in paese perché scartato dall’esercito per la sua menomazione. Ed ebbero anche dei bimbi, che salutavo dal parapetto quando li conducevano a fare i primi passi lungo il molo. Non ero geloso di quella loro felicità, al contrario provavo una gioia dolente e matura nella mia rinuncia, e mi sentivo quasi un saggio custode di quelle giovani vite.

(continua)

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L’albatro – 2 di 4

Maxim mi insegnò la lingua. Una donna con tanti figli piccoli accettò di lavarmi e rammendarmi i panni in cambio di coperte, e le diedi tutte quelle dell’equipaggio, infeltrite. Ricambiavo l’assistenza alimentare come potevo, calando dalla murata ciocchi di legno presi dalla stiva carica o piccoli oggetti di uso comune trovati in cambusa, donando pastrani e cerate lasciati dai marinai la notte della fuga precipitosa. Trascorremmo l’inverno combattendo il freddo ciascuno come poteva: una parte del legname scaldò le casupole più povere del paese, con poco mi arrangiai anche io e ne rimase abbastanza per affrontare almeno un altro anno. A qualche vecchio pescatore donai stivali di gomma e acciarini, e ne fui ripagato addirittura con del vino. Quel giorno mi dissero che era Natale, e che tutti dovevano festeggiare, e oltre al vino mi portarono una ciambella con la glassa di quelle che mangiavano loro. La sorella del prete mi mandò un maglione pesante fatto da lei, ma non si fece vedere perché era donna pia e timidissima.
Tutti questi traffici, i doni reciproci, entravano e uscivano da bordo per un’unica via: attraverso un cesto appeso a un pezzo di fune e calato dalla murata, perché né io né loro mai e poi mai contravvenimmo alla regola del primo giorno. Eravamo due Paesi sovrani e confinanti, con la sbarra abbassata fra di noi. Questo diceva la Legge, e noi ci limitammo a passarci i nostri scambi attraverso il filo spinato virtuale che ci teneva divisi. Per dire le cose come stanno, le nostre mani non si toccarono mai.

Finiva l’inverno e io cominciavo a smaniare. La mia prigione mi stava stretta quando annusavo gli odori della terraferma e la brezza mi portava profumo di erba. Mi tenevo attivo ripulendo parti della nave che nessuno aveva mai curato, liberandomi di ciarpame che cominciava a puzzare di stantio, inventariando quanto di utile restava a bordo e che ormai consideravo tutto il mio avere. Ma non bastava a farmi dormire, e le notti senza altra luce che quella della luna, quando c’era, erano sempre più lunghe e febbrili.
Scrissi un biglietto per Maxim. Lo scrissi perché sapevo che certe cose non avrei mai saputo dirle a voce, con quel nodo in gola che mi soffocava. Glielo calai nel cesto senza una parola, e poi rientrai subito sotto coperta lasciandolo lì sul molo con la faccia accigliata e quel ridicolo pezzo di carta in mano.
Mi chiamò forte, due, tre, quattro volte, finché mi decisi a tornare fuori. Mi sentivo malissimo, mi rendevo conto di essere sul punto di perdere ogni dignità, tutto il mio coraggio, qualunque motivo di vivere.
Avevo scritto:
Maxim ti supplico, fammi fuggire. Una di queste notti io scappo, e tu non cercarmi. Scusa ma non ce la faccio più. Il tuo povero amico Viktor“.
Maxim aveva un’espressione severa, durissima. Agitò il foglio e gridò:
“Cos’è questa idiozia?”
Poi fece una cosa stupefacente: a passi rabbiosi raggiunse l’estremità del molo, scardinò il capanno dei pescatori e ne estrasse una scaletta di legno, che si trascinò dietro col viso paonazzo, e la appoggiò alla fiancata.
“No, cosa fai? – urlai io agitando le braccia.
“Cosa faccio? – ruggì mentre già saliva i primi pioli – Adesso vengo su lì da te e ti do un pugno in mezzo al naso, ecco cosa faccio!”
Era serissimo, deciso e furibondo, lo avrebbe fatto senz’altro, e io ero troppo inerme per reagire.
Non fuggii. Né quella volta né mai.

L’indomani mi sentivo convalescente, ma accadde qualcosa che mi fece guarire del tutto.
Maxim si presentò sul molo nel primo pomeriggio, stavolta seguito da cinque o sei dei suoi scolari: ragazzetti goffi di famiglie povere, con le guance rosse e i piedi irrequieti.
“Ti dispiace – mi chiese tranquillamente, come se il giorno prima non fosse successo nulla – ti dispiace se mi metto qui a fare un po’ di doposcuola a questi piccoli asini?”
Si era portato uno sgabellino, e i discepoli si sedettero per terra come gli indiani, aprendo sulle gambe i loro quadernetti ciancicati. Io assistetti a quell’ora di doposcuola con la commozione e la gratitudine di un figliol prodigo, e imparai anche qualcosa.
Quella notte fu l’ultima inutilmente insonne: la passai a cercare i pezzi di legno adatti e a inchiodarli col martello fino a costruire seggiolini per tutti, e una sedia più grande per il maestro. Alle due del pomeriggio, quando tornarono, li calai uno per uno con la corda e i ragazzi fecero un baccano da non credere. Maxim si pulì gli occhiali con il fazzoletto, o forse gli bruciavano un pochino gli occhi, non so.

(continua)

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L’albatro – 1 di 4

La ruggine sta avanzando tutto intorno, e dentro di me.
I primi tempi la contrastavo con tutte le mie energie; ero giovane, avevo tempo da buttare e rabbia da sfogare, avevo ideali confusi e bisogno di tenermi attivo per non dare di matto. Ogni giorno pulivo, grattavo, lucidavo, fino a farmi sanguinare le mani. Percorrevo la nave da poppa a prua e in tutti i suoi cunicoli, alla caccia dei segni del degrado che sapevo inevitabili. Tenere vivo e sano questo piccolo mercantile che è tutta la mia casa e la mia prigione era un punto d’orgoglio, era lo scopo del mio tempo interminabile e l’unica buona ragione per alzarmi ogni mattina dalla branda. Per anni, per decine e decine di stagioni, contro l’ossidazione, il salso, il marciume, il disfacimento. Con pochi arnesi, alcuni inventati, e con le unghie e la collera che coltivavo per tenere indietro la disperazione.

Attraccammo una notte senza luna, con le luci spente e i motori al minimo, in un porto nemico che non era la nostra reale destinazione. Era però il più vicino da raggiungere quando il marconista ricevette il messaggio dell’entrata in guerra. Eravamo in alto mare, trasportavamo legname, e nei giorni precedenti una burrasca ci aveva rivelato quanto poco fosse affidabile il nostro piccolo cargo. Il capitano forse perdette la testa quando decise di staccare la radio e di prendere terra ovunque fosse, purché il prima possibile.
Nessuno ci udì ormeggiare. Il paese disteso lungo il porticciolo era chiuso nel buio del coprifuoco. Gli uomini dell’equipaggio sgattaiolarono giù dalla passerella e si dileguarono alla spicciolata, ognuno verso una sorte diversa che li portava comunque a sparire nelle tenebre, come topi o ladri, come disertori o prigionieri evasi, inseguiti dal demone della Paura.
Io, clandestino su questa nave, non vidi nulla di tutto questo, ma dal mio nascondiglio dietro una paratia sentivo le voci e i rumori, e il resto lo immaginai e l’alba me lo confermò, quando finalmente riuscii a spostare i cassoni che mi incastravano e ad abbattere la porticina a furia di calci e spallate. Sul molo si era raccolta un po’ di gente, e osservavano la nave straniera arrivata di notte, chiaramente abbandonata.
Ma a poppa alitava appena nell’aria fredda la bandiera di un Paese neutrale (una scelta di comodo che mai come ora si rivelava opportuna), e ciò conferiva alla nave fantasma il privilegio dell’extraterritorialità, rendendola intoccabile con tutto il suo contenuto. Me compreso. Questo me lo spiegò il maestro della scuola, chiamato a fare da interprete perché loro e io parlavamo due lingue diverse.
“Come ti chiami?”
“Viktor!”
Gridavamo, lui dal molo e io dall’alto della murata, non ancora ben consapevole dell’effetto sconcertante che faceva il mio aspetto denutrito, straccione e allucinato.
“Io Maxim. Dove sono gli altri?”
“Scappati”.
“Lo sai dove sei?”
“No. Ma posso immaginare che i nostri due Paesi siano in guerra uno contro l’altro”.
“È così. Perciò ascoltami bene: qui il comandante dei gendarmi dice che se scendi a terra ha il dovere di farti prigioniero. Questo è quello che mi ha ordinato di dirti. Io però aggiungo che se invece resti a bordo nessuno potrà toccarti, perché il cargo è registrato presso un Paese neutrale e quindi è come se tu fossi in un’ambasciata, cioè al riparo. Finché resti lì godi una specie di immunità. Hai capito bene?”
“Sì, ho capito bene.”
“E allora, cosa pensi di fare?”
“Se resto a bordo non mi succederà niente?”
“Non ti succederà niente. Certo, dovrai cavartela da solo, perché nessuno potrà salire… ne hai da mangiare?”
“Provviste? Penso di sì…”
“Acqua? Da scaldarti? Hai una radio?”
“Credo che l’abbiano messa fuori uso prima di lasciare la nave, e anche tutta la strumentazione”.
“Beh, pensaci. Se hai qualcosa da comunicare, fammi chiamare. Ti ricordi come mi chiamo?”
“Maxim”.

Maxim è stato il mio primo amico. Non fosse stato per lui, forse avrei aspettato il buio e avrei tentato di lasciare il mio riparo la notte seguente, buttandomi alla cieca verso i boschi, le montagne, incontro a un ignoto inimmaginabile.
Maxim i primi tempi veniva al molo tutti i giorni a sentire come me la cavavo e a portarmi qualche notizia, anche se ne arrivavano poche. La guerra era cominciata, ma era lontana. Gli unici effetti erano una certa paralisi nei trasporti e un iniziale isolamento, ma in qualche modo la secondarietà del porticciolo e la sua insignificanza strategica lo tenevano fuori dagli eventi bellici. A volte, in quel primo inverno, nelle giornate più limpide si vedevano lampi e colonne di fumo dietro le vette delle montagne, ma lontanissimo. In paese la vita continuava i suoi gesti arcaici, spartiti fra le donne e i vecchi. Gli uomini validi erano stati in gran parte richiamati, e restavano il prete, il medico, i pescatori anziani.
A bordo provviste ne avevo; non grandi cose, le cose che si mangiano sulle navi da trasporto, cose conservate, secche, insapori e monotone. Non mi feci molti scrupoli a servirmene, anche se sentivo la mancanza di cibi freschi.
Dopo i primi giorni, cominciai a pensare al baratto: alla gente che veniva sul molo incuriosita facevo vedere le mie scatolette e a gesti proponevo di scambiarle con altro. Ebbi latte fresco e pane di casa in cambio di lattine di zuppa e di carne. E quando terminai le provviste di bordo, il pane continuò ad arrivare, insieme a qualche ortaggio fresco, qualche quarto di pollo la domenica, e soprattutto fiaschi di acqua pulita, di pozzo. L’acqua non me la fecero mai mancare: si creò presto fra me e il paese un semplice legame di solidarietà, un rapporto di reciproca adozione. Erano persone pacifiche e oneste, risolvevano i loro casi al modo di una volta, col buon senso e con lo spirito della comunità. Non fummo mai in guerra, loro e io. La guerra ci sfiorava senza vederci né interessarsi a noi, dimenticati in quel lembo di terra di nessun valore né importanza, rimasto quasi estraneo al tempo che passava e cambiava sconvolgendo ogni cosa.

(continua)

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Per esempio la neve

I primi a cantare erano i galli dei monaci della Certosa, nella lontananza della campagna, quando dietro il bosco il nero della notte virava al blu scuro.
Clotilde si alzò, accese il lume e si affacciò alla stanza del fratello. Magnus era già sveglio, come ogni mattina, e con la sola testa e le mani fuori dalle coperte aspettava solo quel segnale per scostarle e balzare giù dal letto, pronto e felice come se ogni giorno fosse di festa.
Magnus era così: il corpo di un uomo di trent’anni, il cervello di un bimbo di tre, l’anima di un angelo. Le febbri che lo avevano colto quando era piccolissimo lo avevano lasciato un po’ tocco, di una stoltezza buona, fatta di candore e mansuetudine. Obbediente come un cane, laborioso come un mulo e portato alla felicità come un rondone a primavera. Sì, magari parlava poco, ma aveva il dono della sintesi e ciò che gli sarebbe riuscito complicato da dire lo esprimeva in sorrisi espliciti. E quelle mani, poi: mani d’oro, che sapevano fare di tutto.
Clotilde scese in cucina, ravvivò il fuoco e scostò le imposte: fuori era ancora troppo buio, restava una debole coda di luna al tramonto, già incalzata dall’indaco che sorgeva. Nella notte il gelo pareva essersi allentato: la campagna era molle di umidità ma non brillava più di brina. Magnus apparve sulla porta, alto e robusto e con la bocca già pronta al sorriso, e fece l’annuncio:
“Ho visto la neve”.
Se l’aveva vista, significava che l’aveva sognata; per lui non c’era differenza, non esisteva confine fra la realtà e il sogno, il suo contatto viscerale con la natura era vivo anche durante il sonno e gli parlava con la stessa certezza che percepiscono gli animali.
Clotilde gli credette subito. Gli credeva sempre. I due si scambiarono uno sguardo interrogativo, come stessero esaminando tutta una serie di fatti e programmi che non necessitavano di parole, e Magnus alla fine ripeté, con la medesima lieta sicurezza di prima:
“Ho visto la neve”.
Poi prese il secchio e uscì a mungere le vacche, mentre la sorella iniziava a impastare il pane sul piano infarinato della madia. Altri lumi si andavano accendendo nelle stalle dei casolari sparsi, altri coloni cominciavano la giornata dopo aver annusato l’aria per trarne presagi, altre donne impastavano acqua e farina e riponevano le pagnotte a lievitare accanto al focolare. Il latte fresco si scaldò sulla stufa e andò a riempire due grosse ciotole piene a metà di caffè d’orzo. I due fratelli fecero colazione continuando a lanciare occhiate alla finestra, come presi da un’urgenza che aveva tuttavia qualcosa di festoso.
C’era molto da fare, se davvero avrebbe nevicato. Clotilde rassettò velocemente le stanze, estrasse le trapunte più pesanti dalla cassapanca, spazzò i pavimenti poi raggiunse Magnus che stava rigovernando le bestie. Era nato un sole piccolo e fumoso, buono solo a spandere un chiarore lattiginoso e senza riflessi. Rabboccarono il mangime e l’acqua per le galline, i maiali, i conigli, e fissarono pezzi di tela cerata a coprire le lamiere del pollaio. Nell’orto sguarnito le verze si aprivano sfarzose, barocche, e Clotilde ne colse le due migliori per conservarle in salamoia. Con le ultime piccole mele e una decina di cachi riempì una cassetta e la mise in salvo dal gelo. Poi protesse con fascine di paglia il piede degli alberi da frutto, mentre Magnus rivoltava la terra dell’orto per l’ultima volta in quella stagione, affidandola poi alle drastiche cure dell’inverno. Avere dei compiti lo elettrizzava, e poterne contemplare alla fine i risultati gli dava alla testa dalla felicità.
Per tutta la mattina portarono avanti i preparativi per il lungo isolamento che li aspettava, e intanto il disco pallido del sole si era lasciato ingoiare da un grigiore denso come vello di pecore. La luce si era fatta spettrale, e anche la gatta si guardava intorno in attesa, senza allontanarsi troppo dalla soglia. Anche lei aveva visto la neve. Anche le cornacchie che volavano basse rasentando i pendii l’avevano vista.
Magnus salì sul tetto per verificarne la tenuta. Clotilde raccolse un cestino di uova. La gatta tornò dentro e si rannicchiò di nuovo a dormire accanto al fuoco.
Ingrassarono i serramenti esterni, i mozzi del carro, la carrucola del pozzo, gli scarponi. Magnus stipò la legnaia con nuovi ciocchi tagliati a misura e accatastati con ordine, occupando meticolosamente ogni spazio. Il fienile traboccava: con un forcone ciascuno rivoltarono il foraggio perché non prendesse di muffa, e non sentirono più il freddo.
Il nevischio cominciò intorno a mezzogiorno. Il primo a vederlo fu probabilmente il pettirosso sulla staccionata, poi lo videro anche loro dalla finestra della cucina, e terminarono la loro zuppa di castagne in piedi, con la ciotola in mano, guardando fuori dai vetri. Il cielo aveva assunto lo stesso colore e l’apparente consistenza del latte cagliato.
Magnus uscì di nuovo, stavolta per mettere al riparo gli attrezzi; prima li ripulì, li affilò, li fece brillare. Anche i suoi occhi brillavano di soddisfazione, e cominciava a brillare anche il terreno, dove la neve ancora sottile stava attaccando.
Clotilde ispezionò la dispensa: i sacchi di farina, di noci, di castagne, di patate; la damigiana dell’olio, il mastelletto di strutto; gli orcioli di miele, i vasi di composte, marmellate e confetture; le salamoie di ortaggi, le scatole di latta con le spezie seccate; i salami appesi alle travi; il sale, lo zucchero, gli scuri  bottiglioni di vino, le forme di cacio. Tutto in ordine, tutto confortevolmente in ordine.
L’imbrunire scese presto: la neve aveva preso forza e scendeva a falde più grandi, calma e sicura, senza vento né rumori, solo quella maestosa regolarità che indicava una nevicata lunga e abbondante, forse per giorni. Ormai era tutto bianco, e Magnus vi impresse le sue orme quando uscì per rigovernare gli animali per la notte, ma le tracce furono ricolmate presto e la neve ristabilì il suo ordine armonioso tutto intorno. Nel silenzio del vespero giunse ovattato il rintocco della campanella dei monaci, e parve lontanissimo. In fondo lo era, lontano, al di là di un mare di neve che ricopriva tutti i sentieri e donava nuove forme e dimensioni ai dossi e agli avvallamenti della campagna.
Cenarono alle cinque, o poco dopo, benché la notte si preannunciasse lunga, e tutte le notti seguenti. E dopo cena lasciarono aperte solo l’imposta della finestrella in cucina, per gettare ogni tanto uno sguardo alla neve che si ammucchiava agli angoli del vetro e continuava senza posa.
Clotilde avvicinò al focolare la sedia con il cuscino imbottito, inforcò gli occhialini che erano stati di suo padre e si mise in grembo i calzettoni di lana da rinforzare con nuove punte e nuovi talloni sulle vecchie smagliature.
La gatta si leccò a lungo il pelo già lucente prima di acciambellarsi con estrema cura per la notte.
E Magnus aprì sull’angolo del tavolo il suo quaderno, appuntì alla perfezione la matita con un coltellino, si diede uno sguardo contento tutt’intorno, incrociando quello rassicurante della sorella, poi cominciò, col sorriso nel cuore, a disegnare le sue macchine per volare.

nell’immagine: Claude Monet, La pie (1869)

Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi

a gentile richiesta, il seguito al maschile del post precedente

Io invece ho un altro ricordo, di un pomeriggio freddissimo che il sole già calava alle quattro, noi in cima alle scalette che scendevano giù in Città Vecchia, la bora al suo terzo giorno che strapazzava i teloni di un piccolo cantiere abbandonato. Io che mi guardavo le scarpe per evitare non il tuo sguardo ma il mio, mentre ti dicevo basta, che ci sto a fare qui, devo partire; e tu che guardavi un bottone del mio cappotto come se la mia voce venisse da lì, come se sotto ci fosse la mia anima ben chiusa perché non scappasse – avrebbe potuto perdersi – poi alzavi la testa verso i miei occhi terribilmente imbarazzati, pentiti quasi, e quietamente mi dicevi solo va bene, vai,  ti aspetterò.
In quel momento mi hai fatto paura. In quel momento ho smesso di credere che l’avrei fatto sul serio. Partire. Andarmi ad arrischiare una vita migliore. Già di per sé era un’impresa formidabile il solo prospettarmelo, ora poi diventava maledettamente più difficile realizzarla perché avrei dovuto assumermi l’ulteriore responsabilità di avere qualcuno che mi avrebbe aspettato.
Eppure tu eri così tranquilla, così ragionevole. Credevi di esserti immedesimata in me, nel mio desiderio, credevi di averlo fatto tuo serenamente, così come in una coppia si cerca di condividere il bene e il male. Ma per me non era così. Io non ero ancora pronto a tanto. Quello che volevo non era una vita migliore ma fuggire da me, lo stavo capendo solo in quell’esatto momento. E se tu mi avessi aspettato, non avrei mai potuto fuggire così lontano.
Dimmi la verità, lo sapevi e lo hai fatto apposta?
Perché, vedi, più tardi ho pensato che tu avessi voluto mettermi alla prova. E se così è stato – magari lo hai fatto inconsapevolmente, in fondo avevi solo diciassette anni ed è questo che poi mi turbò più di tutto – in quel caso io la prova l’ho fallita, restando qui, e nel tempo cambiando poco di me e della mia vita, senza troppa infamia e senza troppa lode, senza troppo rischio né troppa ambizione, qui lungo il sentiero, sempre quello, sempre lo stesso, ma sicuro nella sua mediocrità.
Se fossi partito davvero, avrei dovuto vincere per trovare il coraggio di tornare. Per non temere di affrontare le risatine e lo scherno degli amici del bar, la pallida delusione di mia madre, il silenzioso disgusto di mio padre. Perdendo non avrei potuto tornare. Ma poiché tu mi aspettavi, avrei dovuto farlo comunque. Quindi niente, non ne feci più niente.
Voi donne la fate facile: se qualcosa vi va storto, piangete, tornate dalla mamma, le amiche vi consolano e danno la colpa a qualcos’altro; alla sfortuna, agli uomini. Gli uomini invece non possono permetterselo. Noi dobbiamo competere, essere cinici, essere superiori. Altrimenti ti cancellano, ti annientano, ti ridono dietro le spalle come i barboni ubriachi agli angoli dei giardinetti.
Fai presto, ora, a dirmi “salta”. E cosa trovo, al di là: il ventenne che ero, le ali per volare, il coraggio di cadere? E se cado davvero, e mi faccio male? E se sbaglio? E se combino una figuraccia, una di quelle che ti mettono ridicolo tutto, credibilità, carriera, posizione, identità sessuale perfino? Chi mi recupera, dopo, me lo dici tu, chi mi salva, chi mi rimette in piedi, chi trova una nuova giustificazione alla mia vita?

Perché mi guardi così, adesso? Ho detto le solite fesserie, vero? E tu non dici niente, sorridi tranquilla come quel giorno di bora, e come quel giorno di bora aspetti che ci arrivi da solo, alla risposta.
Tu.

nell’immagine: Henri Matisse, Icarus – 1943