Quadratura del cerchio

L’ultima volta, l’ultima volta… fammi pensare.
Mi ricordo quella sciocchezza che ci ha tanto messo allegria, sai quella macchia di vino stampata dal tuo maglione al mio quando ci siamo abbracciati ridendo, e gli altri di là non se ne sono accorti. Io l’ho coperta col foulard, tu hai tirato su la zip della tuta da ginnastica, ma il luccichio di quel vino rosso ci è rimasto negli occhi anche dopo, tornati in salotto con gli amici. Tu di un’altra, io di un altro, ovviamente, secondo le regole della vita. Forse addirittura tu di molte altre e io di molti altri, oppure, diciamolo onestamente, di nessuno. E poi parlare di musica e delle solite cose, perché dalle tue parti c’è sempre una chitarra e ci sono sempre vecchie canzoni, le nostre, quelle invecchiate ma solo sul calendario, squallido foglio di carta pieno di numeri assurdi che io non so contare.
Di cosa stai ridendo adesso? Della mia faccia strana, che mi viene quando guardo indietro imbambolata e i miei occhi si stringono nella fatica di toccare ricordi?
Ridi, e lo so perché, perché quei ricordi sono anche tuoi, o meglio di quegli altri noi due che in questo stesso momento stai vedendo con me, da un’altra prospettiva, decisamente maschile. Eh sì, maschile. Non hai mai capito le donne, da quando io sono stata la prima e ti ho confuso le idee.  L’assurdo è invece che a me è successo il contrario: conoscendo te, il mio primo, li ho poi conosciuti anzi ri-conosciuti tutti, gli altri, quelli di dopo, fino a oggi. Non te l’immaginavi, scommetto. Di tante cose sbagliate che mi desti allora, questa è il regalo migliore, e l’ho così ben conservato, così ben vissuto e assorbito da riuscire a essere qui anche oggi, dopo una vita; alla metà della vita. Non è per caso.
Vuoi sapere degli altri? I miei amanti? Certo, ti racconto. Se non ti dispiace, li rimescolo un po’, non so fare i conti lo sai, quindi non tengo elenchi. Ma poi non cambia, tanto erano tutti uguali. Ti racconto, sì, se vuoi, ma non fidarti dei loro nomi e delle date, immaginati un continuum, una specie di riga dritta con pochi sussulti, uno o due picchi senza volto.
Delle tue donne, se ci tieni, se ne hai bisogno, parlami pure, e io sorriderò. Le conosco tutte, anche quelle; noi donne ci conosciamo e non ci stupiamo mai. Vediamo subito i contorni delle storie che voi ci proponete, e le viviamo il più possibile al centro, per poi spostarci ai margini a girare attorno fino a trovare l’uscita, dalla parte opposta a dove ci avevate fatte entrare con un mazzo di rose fra le braccia.
Lo so che tu non la vedi così, e non è colpa tua. I tuoi successi virili sono una raccolta di trofei, ossidati ma pur sempre trofei. Sei entrato nel corpo delle tue donne come un generale che si appropria di una città capitolata, ma sfilando narciso fra quelle strade non si è accorto delle persiane che si sbarravano senza cigolare e definitivamente al suo passaggio. Da una città all’altra e da una donna all’altra hai condotto la tua campagna vittoriosa, e solo ora, e solo davanti a me alla fine del cerchio, dove l’inizio incontra nuovamente la fine e vi si fonde, ti accorgi che dietro hai lasciato morti e feriti, e avevano tutti la stessa faccia, la tua.
Questo ti spiego oggi, ti spiego la sconfitta, e non solo la tua.
Ti toccherà credermi, perché tu sei un uomo e la donna sono io, la tua prima e tutte le altre lungo il cerchio che ti imprigiona. Io ti guardo da fuori, col sorriso che già avevo la nostra prima volta, mezza vita fa, e che non so cambiare. E da fuori, da fuori di quel cerchio ininterrotto, ti sfido all’impossibile: salta.

nell’immagine: René Magritte, Les amants – 1928

se ti è piaciuto, puoi leggere il seguito – al maschile – qua

Chiamatemi Brian – 3a puntata

In quasi mille anni il mondo è cambiato. Villaggi sono mutati in città, ai cavalli hanno messo il vapore, le candele sono retrocesse a cerei simulacri devozionali, le parole viaggiano su fili, e infinite altre ingegnosità hanno preso il nome di progresso. Quello che non è cambiato affatto è l’Uomo, che continua a nascere e affannarsi esattamente con lo spirito caotico e inconcludente dei vari Poggio di Malaterra e Orso di Montegiuda che conobbi da vivo; morti, quelli, di peste, veleno, gotta o  lama di spada. I loro discendenti muoiono tuttora di malattie o morte violenta. E le guerre, continuano anche quelle, per gli stessi motivi e con lo stessa demente furore di sempre. Cambiano tutt’al più gli strumenti, in nome del progresso ovviamente, ma non fa gran differenza morire per un fendente in una battaglia campale oppure abbattuto con il tuo caccia in un duello aereo. Per Susan, di certo, non faceva alcuna differenza. La differenza la faceva il fatto che a essere abbattuto negli ultimi giorni di guerra fosse stato il suo unico figlio Gareth.

Conobbi Susan e suo marito grazie alla loro giardinetta. Mi ero congedato da una biblioteca universitaria in una storica cittadina e mi avviavo a una nuova residenza presso un circuito bibliotecario rurale dove pensavo di trascorrere un’estate rilassante in letture umoristiche o sentimentali, giusto per alternare i generi dopo una secolare scorpacciata di codici e cronache medievali, di filosofia presocratica e astrologia fenicia, di biografie dinastiche e feuilleton ottocenteschi – che a dirla tutta ormai non mi dicevano più niente. Progettavo un periodo di semplici delizie agresti all’ombra di un presbiterio, cose del genere. Per l’ultimo tratto di strada colsi l’occasione di un passaggio su un macchinino modesto e vecchiotto, una giardinetta verde smorto che si intonava perfettamente con il mio sogno di villeggiatura in campagna. Alla guida, un uomo di mezza età, e accanto sua moglie, dignitosissima nella sua mestizia. Susan. Tornavano dalla visita giornaliera al camposanto dove la settimana prima avevano sepolto il figlio, e nei loro volti si era già insediata l’irreversibile dolce pazienza dei genitori rimasti orfani. Non li avrei osservati con particolare interesse, come non osservavo granché i miei occasionali compagni di viaggio con i quali in nessun caso avrei potuto comunicare, se non fosse stato che l’argomento della loro sobria conversazione si rivelò riguardare i libri, quelli preferiti dal figlio, che stavano pensando di donare alla bibliotechina locale in sua memoria. Susan per la verità, dopo aver riflettuto mentre si toglieva il fazzoletto dai capelli grigi, si mostrava ancora impreparata a quella donazione, che per lei avrebbe rappresentato un distacco troppo concreto dalla presenza di Gareth che ancora aleggiava fra le mura della loro casetta. E così suggeriva al marito di aspettare ancora un po’, di lasciarli al loro posto sullo scaffale accanto al caminetto, magari per rileggerli lei stessa un’ultima volta prima di cederli a estranei insieme al ricordo del figlio e a quanto restava, forse, dell’odore delle sue mani.

Non so come mi spinse a deviare dal mio itinerario; probabilmente qualche arcaico sentimento della mia natura umana che non si era del tutto scollato dalla mia forma incorporea, e che aveva a che fare, che ne so, con la mia infanzia, con mia madre morta di parto e mai conosciuta, vai a sapere. Io per la verità non ho ancora ben capito a fondo come funzionino i fantasmi, quelli normali, ed essendo palesemente un fantasma anomalo (malriuscito, direbbe il Decano), meno ancora posso esprimermi sulla logica del funzionamento di me medesimo.
In ogni caso li seguii, Susan e Jasper, nel loro lindo cottage; era  come se avessi in qualche modo percepito una specie di spinta sulle mie spalle evanescenti che mi incoraggiava vai, vai, e insieme una voce dolce che mi invitava entra, entra.
Susan era pensierosa, e cominciò ad aggirarsi nel salottino riordinando con gesti assorti piccole cose già in ordine, mentre Jasper preparava silenziosamente il tè, forse per dare un senso a quell’ora così desolata.
I libri erano su una piccola libreria di legno accanto al caminetto.  Mi avvicinai per guardare qualche titolo, e Susan, rivolta al marito, parlò:
“Ti ricordi Jasper, quando tornava a casa la sera si fermava sempre lì davanti a scegliersi un libro. Leggeva i titoli come se si aspettasse di trovarne di nuovi, non ancora letti…”
Io in quel momento mi ero proprio fermato davanti alla libreria, leggevo i titoli, ne cercavo qualcuno di sconosciuto.
“Poi allungava la mano e ne prendeva uno, come se cogliesse il frutto migliore da un albero – rievocava Susan.
Proprio quello stavo facendo: avevo individuato un Cronin che non conoscevo e stavo allungando una mano trasparente, non tanto per prenderlo ora ma quasi per prenotarlo per la notte, quando fossi rimasto solo.
Ritirai di colpo non solo la mano ma anche l’intenzione, e mi spostai di lato, appoggiandomi allo schienale di una poltrona a fiori.
“E poi si metteva lì, lo apriva sopra la spalliera e cominciava a leggere le prime righe, perché non poteva aspettare. Ma dopo lo richiudeva e lo lasciava da parte per la notte”.
Mi spostai nuovamente per sfuggire la molesta sensazione di essere osservato. Nell’angolo c’era una grossa radio su un tavolino e, sopra, la foto incorniciata di un ragazzotto in giubbino della Raf, col sorriso della vittoria sul volto solo poche settimane prima di inabissarsi sulla Manica. Lo guardai con un brivido turbato.
“Prima di cena, però, accendeva sempre la radio. Vero Jasper? Quanto gli piaceva, la radio! – sospirava Susan, ma il ricordo ora sembrava rivestirsi di una strana triste allegrezza, forse perché le risuonavano nella mente le canzonette che il figlio ascoltava, magari accennando qualche passo dei nuovi balli.
E io dov’ero, se non accanto alla radio? E anche quando mi avvicinai alla finestra aperta con una mezza idea di scavalcarla e fuggire da quella casa stregata, Susan rivide in quel gesto invisibile il suo Gareth che da bambino usava quella via di fuga per scappare a giocare oltre l’orario, e lei lo richiamava da quel davanzale prima che facesse buio.
Così quando il mio sguardo si posava su un quadro o sull’orologio o sul piattino dei biscotti, ecco che Susan pareva raccogliere un invito dall’Aldilà – dal mio aldilà – e subito la sua attenzione si posava su quegli oggetti ed essi diventavano il fugace filo conduttore di un ricordo sorridente del suo Gareth.
Jasper portò il vassoio del tè, e Susan gli disse:
“Oh caro, hai sbagliato di nuovo: hai preparato tre tazze!”
E fu un caso se Jasper, confuso, tolse la tazza di Gareth dal vassoio e la posò sull’angolo del tavolo dove mi ero seduto io? E se, un momento dopo, per consolarlo – per consolare entrambi – Susan dichiarò: “In fondo hai fatto bene, è come se lui fosse ancora qui con noi” prima di versare con un lieve sorriso il tè per tutti?

Da qualche mese vivo con loro. Peccato che non lo sappiano, ma io so che a modo loro lo sentono, e li fa stare meglio. Leggo i libri di Gareth, sfioro gli oggetti della sua stanza prima che Susan passi a spolverarli, mi siedo accanto a loro davanti alla tazza da tè col suo nome. Sono diventato l’utile fantasma di Gareth, visto che non ero mai riuscito a essere altro che l’inutile fantasma di Brian. Li seguo nell’orto, al mercato, in chiesa, perfino in biblioteca. Quando vanno al camposanto, li precedo e mi faccio trovare accoccolato sulla tomba di Gareth. Portano fiori, poi parlano con me, ed è come se parlassero con lui.
E io rispondo a nome suo.

fine

(qui la1a puntata e qui la 2a puntata)

Chiamatemi Brian – 2a puntata

qui la puntata precedente e qui la terza e ultima

Il Decano di zona lo rividi ancora diverse volte, nel corso dei secoli. Era suo compito passare periodicamente a verificare i progressi dei fantasmi di nuova nomina, ma quando veniva da me faceva una smorfia di desolazione:
“Muri? Catene? Ancora niente?” 
E se ne andava.
Io come fantasma mi arrabattai. L’unica facoltà che possedevo era l’invisibilità, che mi permetteva però di prendermi qualche soddisfazione. Potevo parlare ad alta voce, cantare, imprecare, senza che nessuno mi sentisse. Potevo entrare dappertutto purché qualcuno lasciasse aperta la porta, e nessuno mi vedeva. Non sapevo volare ma mi spostavo a piedi, oppure su un carro o in groppa a un cavallo senza che né il carrettiere né il cavaliere dietro cui salivo in sella se ne accorgessero. Non avendo più la necessità di dormire, potevo aggirarmi ovunque di notte come di giorno senza disturbare o spaventare le anime sensibili. Che poi ero rimasto lo stesso di prima, ossia troppo sensibile io stesso per fare di questi macabri scherzi.
Per lunghissimo tempo soggiornai nella quiete dell’Abbazia. I monaci leggevano, scrivevano e salmodiavano, e io ebbi tutto il tempo per imparare a fare altrettanto. Il loro gregoriano era un’onda di misticismo così sublime che mi commoveva, e ancor più quando partecipavo al coro io stesso, accoccolato ai piedi del priore con le lacrime agli occhi. Lacrime di fantasma, e occhi pure, si intende.
Dai monaci imparai anche a leggere e a scrivere. Loro lo facevano solo di giorno, ma io potevo continuare anche la notte, perché non avevo bisogno di candele né avvertivo il freddo pungente d’inverno. Lessi l’intera biblioteca, imparai il latino, il greco, l’ebraico e il sanscrito. Conobbi anno dopo anno tutta la cultura disponibile in quel periodo di amanuensi che si sarebbe chiamato Medioevo, e fu un modo straordinariamente dolce ed esaltante di far passare un infinitesimale frammento dell’eternità che mi era stata predetta. La lunghezza infinita della mia pena mi concedeva se non altro un incommensurabile vantaggio sul Tempo: ne avevo quanto ne volevo e potevo farne uso e abuso senza temere di restarne sprovvisto. Lo investii dunque in un’attività che sembrava promettere molte gratificazioni allo spirito, e io cos’ero infatti se non uno spirito?
Così mi specializzai in biblioteche.

Non c’è posto al mondo più quieto, raccolto e suggestivo di una biblioteca. Nemmeno una chiesa è così vicina alla purezza, perché in essa, poco o spesso tanto, circolano denaro e favori, ipocriti e farisei, falsi pentiti non ne parliamo. In biblioteca invece si entra a cuore umile e disposto alla conoscenza, si depongono fuori armi e vanagloria e ci si accosta alla grazia suprema del Sapere con l’animo assetato di pace.
Non si contano, le biblioteche che ho visitato. In ognuna mi fu facile ambientarmi e dissimularmi, vi era sempre qualche pertugio o magazzino o nicchia in cui stabilire il bivacco preferito delle mie scarne membra virtuali. Il silenzio e la devozione rendevano uguali tutti i frequentatori indistintamente, si trattasse di canonici o di studiosi, di aristocratici o di umili studenti. Per ognuno, una sedia, un tavolo, un libro e l’obbligo di chinare il capo alla Regola del Rispetto per la Concentrazione altrui, cosicché l’ignorante può permettersi di fulminare con lo sguardo il sapiente cui è sfuggito un colpo di tosse. Dai finestroni ho visto mutare le stagioni, e ho colto i segni del Tempo in ogni crepa nuova, nuovo sgretolamento. Ho assistito impotente a crolli, incendi, saccheggi, disperati tentativi di salvataggio dei tesori cartacei, abbandoni, esodi. Quando una biblioteca moriva, mi mettevo in viaggio – a piedi, a dorso di mulo, sui carri dei mercanti – per raggiungerne un’altra e riprendere le mie letture interrotte. Nel corso dei secoli non ho fatto che inseguire libri, o forse erano loro a inseguire me, ma in ogni caso ci si arrendeva l’uno agli altri con profondo trasporto. Sono stati i libri e gli scaffali delle biblioteche, i muri sublimi della mia prigione di fantasma, le mie amatissime sbarre. Io, il piccolo Brian senz’arte né parte, troppo brevemente in vita per capirne il senso, nella mia non richiesta condizione di entità invisibile avevo trovato l’unico dialogo possibile, quello con la parola scritta tramandata da chi della vita aveva cercato di cogliere il nocciolo e ne aveva lasciato la possibile soluzione a quanti, venuti dopo, si tormentassero ancora a inseguirla. Ero circondato da voci vive di uomini morti, il passato e il futuro si intrecciavano insieme tra quelle pagine di tentativi, sogni e bestemmie cui l’Uomo ha affidato la memoria di sé e di tutti.
A cosa servisse tutto questo, ecco la mia domanda. Ad arricchire me stesso, non v’è dubbio, e dacché ero solo e smarrito nel Mondo di Mezzo poteva e doveva anche bastare. Ma qualcosa della mia solitudine da vivo mi era rimasta nelle pallide vene, e mi faceva continuamente rimpiangere il dono non concesso di dividere con qualcuno il patrimonio della mia anima. Non mi era sufficiente assistere alle dispute dei sapienti, che nelle biblioteche confrontavano le loro tesi discutendone con fervore e aggiungendo insospettati e fruttuosissimi argomenti. Erano momenti di grande interesse, non lo nego, ma non mi procuravano il calore e la commozione di una condivisione diretta, di un rapporto personale, occhi negli occhi, cuore in mano. Avrei voluto la parola, la materia, per poter alimentare la mia febbre di sapere con quella di un altro, per scambiare con lui a viva voce emozioni, domande, scoperte.
Questo non mi era dato. Fra me e il mondo dei viventi esisteva un velario invalicabile, che continuava a rendere oscura e inutile la mia esistenza anche nella inconsistente dimensione degli spiriti. 

Poi, qualche mese fa, conobbi Susan.

Chiamatemi Brian – 1a puntata

Perché questo è il mio nome, Brian, anche se nessuno lo ricorda.
E questa è la mia storia, la storia di quella sensazione di appagamento, di realizzazione, di avere svelato il significato della propria esistenza e di avere quindi conquistato la propria univoca identità – cosa tanto rara, in questa vita –  che io non ho raggiunto in questo mondo, e neppure nell’Altro, bensì nel mondo che sta in mezzo fra i due: il mondo delle anime smarrite, intrappolate a metà strada sotto la forma imperfetta e miserevole di Fantasmi.

Sì, per essere morto sono morto. Sono morto nei primi anni bui del secondo millennio, dopo una vita breve e insignificante.
Già di mio pezzente di nascita (e per di più mingherlino, scialbo e di salute cagionevole), ero l’ultimo degli stallieri del barone Poggio di Malaterra e passavo le mie giornate occupandomi del più umiliante dei lavori: raccogliere lo sterco nelle stalle. Inutile, oltre che umiliante, poiché appena avevo finito con l’ultima vacca della fila era già ora di ricominciare con la prima. Inutile, umiliante e anche alienante, al punto che nessuno ricordava nemmeno più il mio nome, e tutti mi si rivolgevano con uno sferzante e generico “Ehi tu”, cui seguivano invariabilmente ordini, legnate o entrambe le cose insieme. E così ero un invisibile, destinato a restare tale per sempre.
Di certo non mi vedeva Guendalina, la figlia del barone, né sospettava che mi fossi storditamente innamorato di lei e avessi deciso di mettere in gioco la mia vita per vincere la sua indifferenza. L’unico modo era distinguermi in un’impresa virile, e all’epoca non era così difficile imbattersi in qualche fatto d’arme. Il barone Poggio era giusto in sempiterna tenzone con il duca Orso di Montegiuda, e a ogni minima scusa i loro armigeri si scontravano nella piana e se le davano di santa ragione. Avevo vent’anni e il cuore gonfio di disperata voglia di rivalsa – nonché d’amore – quando mi gettai anche io in una di quelle mischie, e fui travolto dai cozzi delle mazze ferrate, dai sibili degli spadoni, dai nitriti terrorizzati dei cavalli, dal clangore dei ferri e dagli apocalittici incoraggiamenti delle trombe di guerra. Paralizzato sulle mie gambe tremanti e con uno spadino ridicolo in mano, tutto quello scenario sanguinoso e brutale mi si dispiegò davanti agli occhi per un solo istante, quello sufficiente a crollare per terra senza colpo ferire né averne inferti, morto semplicemente e incruentamente di spavento.
Intorno a me continuarono a squartarsi ululando per un bel po’, mentre nel cielo sopra il mio corpo esanime navigavano le nubi del mattino, poi quelle del pomeriggio e alla fine quelle viola del crepuscolo, quando gli echi della battaglia pian piano si spensero e ciò che restava dei suoi protagonisti si trascinava a casa, lasciando sul campo il dubbio che nemmeno stavolta ci fosse stato un vincitore e la certezza che il numero di caduti fosse gloriosamente alto per entrambi gli schieramenti.
Passarono a recuperare i feriti, ma io non ero fra quelli.
“Questo come ti pare?”
“Morto, morto”.
“Allora lo prendiamo su dopo”.
Più tardi ripassarono infatti a recuperare i morti, e tra loro si aggiravano un Angelo e un Diavolo inviati dai loro superiori a spartirsi le anime. Si scambiavano brevi commenti sommessi del genere: “Questo prenditelo pure tu” e “Sì, direi che spetta a me. Tu magari prenditi quest’altro”.
Arrivati accanto a me, litigarono. Ma non perché mi volessero entrambi, bensì per il motivo opposto.
 “Questo proprio non lo conosco: si vede che non era poi così buono. Prendilo tu”.
“Non lo conosco neanche io, si vede che non era nemmeno così cattivo. Prendilo tu”.
“E io che me ne faccio, scusa?”
“E perché dovrei sapere cosa farmene io, allora?”
“Vabbè, intanto lasciamolo qua e andiamo a informarci meglio – conclusero, e poi mi si rivolsero – Tu resta qua, capito? Da qualche parte ti si sistema, vedrai”.
Ma quel tono così poco convinto mi suonò subito come una scusa. Infatti aspetta aspetta, non venne più nessuno.

A notte fonda passò un altro personaggio, uno alto, bianco e diafano, così diafano che i neri cespugli dietro a lui si vedevano in trasparenza. In quel momento avevo già perso di vista il mio corpo, che era stato raccolto e buttato nella calce insieme a decine di altri con un procedimento del tutto indolore. Il nuovo giudice era venuto dunque per occuparsi d’altro, dell’ultima cosa che mi restava: la mia anima, rifiutata dall’Angelo di San Pietro e dal Luogotenente del Diavolo.  
“Guardi che sono morto, sa – lo avvertii per correttezza.
“Lo so che sei morto, per la precisione sei un morto malriuscito; per questo non ti hanno voluto né di qua né di là, quindi ora sono costretto a prenderti in custodia io.”
Così fu lui che mi si prese, lui, il Decano di zona, borbottando un po’ schifato perché già a prima vista non gli avevo fatto una bella impressione, né come morto né come potenziale fantasma.
Mi esaminò subito, e scoprì ciò che temeva: non sapevo attraversare i muri, non sapevo apparire e sparire, non sapevo appollaiarmi sopra le tombe o trascinare catene in soffitta, non avevo la minima idea di cosa dovesse saper fare un fantasma e soprattutto di esserlo diventato io stesso.
“Ho già bell’e capito: come fantasma non servi a nulla”.
Cercai dentro di me un minimo di orgoglio e gli assicurai che ce l’avrei messa tutta per imparare, ma lui la sapeva più lunga.
“Lascia perdere, sei proprio negato. Guarda solo come sei morto: di spavento! Uno che muore di spavento prima ancora che qualcuno lo tocchi non imparerà mai a terrorizzare nessuno”.
“E allora? – chiesi io, umiliatissimo.
“Allora niente. Trovati un posticino tranquillo e rassegnati. Ti aspetta un’eternità di invisibilità e noia, che ti sarebbe convenuto bruciare all’inferno”.
“Beh, grazie tante, eh – replicai piccato – Non mi avrebbe fatto schifo neanche salire a tripudiare in Paradiso, ma se non mi hanno voluto vorrà dire che resterò qui, e cercherò di non dare fastidio a nessuno. Cosa che peraltro quando ero vivo mi riusciva benissimo”.

(qui la seconda puntata e qui la terza e ultima)

Notte prima degli esami

21 luglio 1969, stanotte tutti svegli a guardare la tivù: si va sulla Luna!
Io per la verità quel viaggio lo avevo già fatto con Jules Verne, e con Asimov ero sbarcata anche molto più lontano, ma ero pur sempre una fresca diciottenne cresciuta negli anni della guerra fredda  e dell’era spaziale (i comunisti cattivissimi, gli americani invece buonissimi che quindi meritavano di vincere) perciò ma sì, dai, viviamocela, questa notte magica in bianco e nero, con il bel Tito Stagno – il più americano dei nostri giornalisti di allora – e l’arguto Ruggero Orlando che mal che andasse faceva sempre ridere.
Un caldo da liquefarsi. A Trieste quando fa caldo fa caldo, mica si scherza. Il Carso tremolava nell’afa in quei pomeriggi di canicola incorniciati dalla finestra di camera mia. L’acqua del golfo era immobile come uno stagno d’asfalto intorno al molo Audace. Si grondava giorno e notte, in quei tempi remoti in cui l’aria condizionata l’avevano solo a Cape Canaveral. Noi invece, manco la coca cola, che era roba troppo avanti: acqua di rubinetto e limone di frigo. Eventualmente, piedi a mollo in bacinella e ventagli di carta giapponesi.
Questa è la cornice. Vengo al fatto (intanto vi ho fatti aspettare, così resto in tema).
A inizio serata avevamo preso posto tutti e cinque fra divano e poltrone davanti al televisore. Il primo a cedere è papà, cui la giornata risultava sempre pesante e poi non era, per sua natura, un uomo curioso. Mamma è più eccitabile, ma anche lei verso le dieci sceglie di andare a letto con un libro della Du Maurier. I miei fratelli si annoiano, e si eclissano subito dopo. Rimango alzata solo io, decisa a sfruttare l’euforia di quella trasgressione al solito orario. Abbasso al minimo l’audio e mi accomodo nella posizione più distesa possibile e perfettamente al centro dell’eventuale correntina d’aria che si fosse decisa a transitare nel salotto arroventato.
Immagini sfocatelle e grigiastre, piani americani di giornalisti che riempiono l’attesa ripetendo all’infinito commenti e previsioni, preparandosi al grande momento di cui saremmo stati testimoni e che loro avevano il privilegio di scortare nella Storia.
Io allora mica lo sapevo che di ben altri momenti della Storia sarei stata testimone in diretta televisiva. Momenti che, col senno di poi, hanno cambiato le nostre vite assai più di quell’equipaggio di astronauti mandati sulla Luna salcazzo a fare cosa. Le picconate – e le mani nude – sul Muro di Berlino. Il ragazzo di Tienanmen. Le due Torri trapassate dai fulmini di Allah. Ma quella notte mi piaceva essere sveglia e alzata da sola ad aspettare. Ad aspettare, come già detto, salcazzo cosa.
Alle undici mi si chiudevano gli occhi. Resisti, mi diceva Tito Stagno: manca poco. Dopo un altro po’, continuava a mancare sempre poco. Talmente poco che Tito Stagno, forse stufo anche lui come me, provò a bluffare e annunciò emozionato che gli eroi avevano toccato. Magari. Invece macché, lo sgamano e lo fanno rettificare “Mi dicono che non è vero“.
A quel punto, dopo cioè quella storica battuta, il clou dello show per me era già arrivato, e guardando l’orologio decido che non è più così importante seguire centimetro dopo centimetro quegli ultimi dieci metri che mancavano all’allunaggio vero e proprio.
Insomma, non ho aspettato di vedere in diretta il piedone che lascia la prima orma né i saltelli da orso alticcio sulla cenere lunare. Ho spento la tivù e, facendo pianissimo per non svegliare gli altri, me ne sono andata a letto.
Avevo, del resto, un ottimo motivo: la mattina dopo, dovevo sostenere gli orali della maturità. Senza aria condizionata. Quello sì che sarebbe stato un evento storico da coprire in diretta, altro che Luna.

* * *

Questa indegna spiritosaggine partecipa all’eds Attesa, lanciato dalla Donna Camèl, insieme a:
– SpeakerMuto con Ti aspetto
– Hombre, con Faccio lo sborone
– firulì firulà (1) con E tu come stai?
– Lillina con Anime
– Dario con Ombre di fiori sul mio cammino
– Chiagia con In-attesa
– firulì firulà (2) con Quanto manca alle nove
– firulì firulà (3) con Credevo, e invece
– La Donna Camèl con Quanto a me
– Pendolante con Il melo
– MaiMaturo con E se

God save the Queen

Stavo giocando con la mia raccolta di figurine quando è entrato il mio valletto.
“Allora? – gli ho chiesto speranzoso.
“Ringraziando Dio e San Giorgio, Sua Maestà si è completamente rimessa. Si è trattato solo di un leggero imbarazzo di stomaco, probabilmente dovuto all’ingestione di qualche muffin di troppo a colazione.”
“Sicché, neanche stavolta…?”
“Pare di no, Altezza.”
Di colpo mi sono sentito vecchio, molto più vecchio di quanto già non sia; ho pensato anzi che vecchio devo esserci nato, perché io ero nato proprio per questo, per aspettare, aspettare, aspettare, e magari per niente.
Ma se io sono vecchio, lei cos’è? Decrepita, dal punto di vista anagrafico. Una delle donne più decrepite al mondo, forse la più decrepita di tutte. Si è perso il conto. Ha battuto tutti i record. La bisavola Vittoria a lei le fa un baffo. Ma che dico la bisavola: neanche Matusalemme può competere con lei. Quella lì ci seppellirà tutti. Anzi in parte lo ha già fatto.
“Immagino che sarebbe doveroso portarle di persona i miei rallegramenti – ho borbottato infelice.
“Un gesto molto nobile da parte di Vostra Altezza, se così posso esprimermi – ha risposto devotamente il mio valletto (90 anni appena compiuti, praticamente un ragazzo).
“Vabbè, andiamoci. Però mi spingi tu, perché non ho proprio voglia di farmi a piedi tutti quei corridoi”.
E così ci siamo avviati, io in carrozzella e lui a spingere, lungo i corridoi, le scale, i saloni, fino all’appartamento privato di Mom. Lì ci è venuto incontro un maggiordomo circa centenario e ci ha altezzosamente informati che Sua Maestà era già scesa nelle scuderie per esaminare i nuovi cavalli. Come se fosse la cosa più ovvia del mondo che la Regina, a quella sua stratosferica età e fino a poco fa in preda a una crisi di vomito da muffin che avrebbe potuto essere l’ultima azione della sua incredibilmente lunga e regale vita terrena, avesse immediatamente ripreso le attività in programma per la giornata, come nulla fosse, e come sempre, del resto.
Perciò dietrofront, giro completo delle ruote della mia carrozzina e daccapo corridoi, scale, saloni, anticamere, vestiboli, in direzione parco con annesse scuderie. Lungo il tragitto non ho potuto fare a meno di sfogarmi con quella sogliola in catalessi del mio valletto.
“Perché capisci, Cedric, tu hai solo novant’anni e tra qualche decennio andrai regolarmente in pensione: il tuo futuro è tracciato, ce l’hai lì davanti bello chiaro e rassicurante, una bella rendita, un collare d’onore della Regina, un cottage in campagna, tutto il tempo per scrivere le tue memorie. Ma io? Eh, ci pensi? Io che ero stato messo al mondo per essere Re e sono qua che aspetto che succeda e ogni anno e secolo che passa non succede niente se non che invecchio un altro po’, e tutto per niente?”
“Ma no, ma no, Altezza. Voi siete pur sempre il Principe di Galles, e nessuno ha un titolo più prestigioso del Vostro. Siete sempre il primo in linea di successione, si tratta solo di aspettare”.
“Aspettare, aspettare… Sì, ma cosa? E per quanto tempo ancora?”
“Altezza, sapete bene che quel giorno luminoso dipende dalla dipartita della Vostra amatissima Madre, e questo triste evento, se così posso esprimermi, non è nei desideri di nessuno, vero?”
“Parla per te! – ho replicato stizzito – Mi hanno cresciuto, educato, fatto studiare perché diventassi Re, ho passato l’infanzia a fare ciao con la manina dal balcone, a carezzare musi di cavalli e ad ascoltare compitamente i sermoni dell’Arcivescovo. Poi sono cominciate le uniformi militari, le partite di polo, le inaugurazioni, le parate, le visite di rappresentanza. Ho fatto di tutto per combaciare perfettamente con l’immagine di un futuro Re, dedicandomi in particolare al guardaroba da dandy, avulso da tutte le mode, e al fair play in ogni circostanza, anche quando mi hanno dato da sposare una sciacquetta come quella Spencer. Cos’altro ci si poteva aspettare da un erede al trono, se non che, al momento giusto, su quel trono ci salisse davvero? Invece macché. Su quel trono ci sta ancora lei, Mom, e non c’è verso di scollarla di lì.”
Il sovrintendente alle scuderie reali ci informa con aria saccente che Sua Maestà ha già finito con i cavalli ed è andata nelle cucine a dare istruzioni per il menu del pranzo diplomatico di stasera.
“Certo che quella non sta mai ferma, eh Cedric? E va bene, portami in cucina Potrei mettere di soppiatto un po’ di veleno nei muffin, così magari… no no, non vacillare, sto scherzando. Sono ammirato in tutto il mondo per il mio humour inglese, così regale e così frustrato dalle circostanze. Ma perché, mi chiedo, perché privare i miei sudditi di un Re così spiritoso, così elegante, così disinvolto anche in gonnellino e calzettoni, così finemente equino e fotogenico? Anche loro, poveracci, sono lì che aspettano. Tutti stiamo aspettando. Ah, che vita!”
Il capo macellaio ci sbarra il passo e, senza smettere di affilare un coltellaccio, ci respinge avvisandoci che la Regina è ora nel salottino lilla a provare cappellini per il derby di domenica.
“Dio stramaledica il derby: una noia mortale, e tutto quel ciarpame aristocratico e quelle improbabili stelline del cinema e il tè tiepido e lei, Mom, che se la gode come una ragazzina mentre io, al suo fianco se si è degnata di convocarmi, sorrido a tutti, contenuto e impassibile come deve essere un vero Re anche sotto il sole e con la prostata un po’ ingrossata. A proposito, Cedric, il mio catetere ultimamente non mi convince un granché; vedi di informarti sul modello che usa l’Arcivescovo di Canterbury, perché vorrei provarlo, hai visto mai che funzioni meglio. I prelati sono informatissimi su queste cose, sono la fonte più affidabile. Ecco, per la verità, questa storia di salire al trono con il catetere non rientrava nei miei programmi, e per dirla tutta neanche l’impiccio del bastone e della carrozzella, della dentiera, dell’apparecchio acustico, delle cataratte e dell’artrosi all’anca. Al trono contavo di arrivarci giovane, pimpante e in splendida forma, non come il catorcio rabberciato che sono diventato nei decenni. Lei invece, Mom, sempre inossidabile, immarcescibile, al di sopra di tutto. Ma come farà, come farà!”
Il salottino lilla è un campo di battaglia, dove un’affranta modista si affanna a raccogliere nastri, velette e uccellini impagliati. No, dice, Sua Maestà non è più qui. È nello studio a discutere di politica estera con una delegazione di mastri birrai dell’Ulster, e non può essere disturbata per alcun motivo.
“Basta, mi arrendo. Le manderò un bigliettino, e una sua dama di compagnia si incaricherà di leggerlo e, bontà sua, di rispondere. Tanto ormai è chiaro che lei, Mom, sta meglio di me. Io infatti a quest’ora e dopo tutto questo girare per il palazzo mi sento così stanco, così a pezzi che desidero solo una cosa. E tu, Cedric, sai quale. Un goccetto”.
E dov’è che si può trovare il brandy migliore di tutto Buckingham Palace, se non nella camera privata di Daddy?
“Per cui, forza, ragazzo mio, andiamocene a far visita al Vecchio,che almeno tra uomini ci si capisce”.
Daddy, il Vecchio, mio padre, vecchio lo è davvero, fisiologicamente, anatomicamente e autenticamente. È una mummia incartapecorita che vive su una poltrona imbottita, avvolto in una vestaglia di seta con i colori di un clan scozzese e una serie di tubi che entrano e escono da vari pertugi naturali e/o artificiali della sua ultracentenaria carcassa adempiendo a funzioni vitali ormai in disuso da decenni. Tubi lo nutrono, lo fanno respirare, veicolano all’esterno i prodotti del suo letargico catabolismo, eccetera eccetera. A suo tempo gli hanno sostituito tutto il corredo di coronarie, safene e valvole cardiache; alla prostata – beato lui – ha detto addio fin dagli ultimi anni del secolo scorso, eppure, in mezzo a tutto questo, è regalmente assente e assuefatto, anzi gli si è paralizzato in faccia quel suo famoso mezzo sorriso sornione di quando, mentre riceveva ospiti illustri restando un passo dietro la Regina, gli passavano improvvisamente per la mente pensieri indecenti e del tutto fuori luogo che lo divertivano di gusto. Tra le altre limitazioni che gli impone l’età, c’è la difficoltà a pronunciare discorsi intelligibili: nella sua mente nascono ancora battute e adagi fulminanti, ma nel tempo che ci mettono ad arrivare all’organo della fonazione si trasformano in biascicamenti sputacchiati, che solo un’addestrata Interprete, assunta appositamente, è in grado di decifrare e trasmettere. Si tratta di una bielorussa trilaureata, che svolge il suo delicato lavoro con fredda imparzialità e impassibile neutralità. Una donna che, lo confesso, mi fa paura.
“Hi, Dad – esordisco.
Uliana scruta la geografia preistorica del viso di papà e ne decritta l’espressione con precisione fiscale:
“Sua Altezza Reale il principe consorte, Filippo duca di Edimburgo, ha detto: Buondì, figliolo”.
“Ti vedo benone, oggi – lo corteggio.
Uliana, dopo un istante, traduce:
“Sua Altezza Reale il principe consorte, Filippo duca di Edimburgo, ha detto: In effetti, figliolo, mi sento particolarmente ilare e soddisfatto. La flebo di rognoncini e Chablis era eccellente: mi ha rimesso al mondo”.
“Beato te, io invece sto di me… sono depresso, ecco. ”
Uliana non esita a trasmettermi la replica incoraggiante:
“Sua Altezza Reale il principe consorte, Filippo duca di Edimburgo, ha detto: Vuoi aprirti con il tuo vecchio padre, figliolo? E perché prima non ti fai un goccetto di brandy? Anche Cedric, si intende.”
Mio padre, che grand’uomo.
Con il mio bicchiere in mano e badando a non tremolare troppo, mi lascio andare a uno di quegli sfoghi che sono possibili solo tra un figlio tribolato e un padre saggio e comprensivo.
“Perché vedi, dad, la mia vita è uno schifo. A quest’ora dovrei essere tranquillamente in pensione dopo aver regnato per almeno sessanta o settant’anni come era scritto nel mio diritto di nascita, no?, e invece sono ancora qua a fare il lacchè, l’ombra, la controfigura, l’eterno secondo, anzi l’eterno scornato, l’eterno perdente. Praticamente uno zerbino. Eppure mi spettava. Ma cos’ho avuto mai dalla vita, io? Oh certo, dei figli belli e simpatici. Per uno di loro avrei rinunciato al trono, non del tutto volentieri ma lo avrei fatto. Ho anzi creduto per molto tempo che quel posto sarebbe stato del mio primogenito, e me ne sarei anche accontentato. Ma anche lui ormai ha superato la mezza età e non è cambiato niente. A Mom non bastava neanche lui, forse voleva aspettare un erede ancora migliore; abbiamo puntato tutti su James, il primogenito di William, anche lui bello e brillante e probabilmente più adatto ancora di suo padre e di suo nonno a ricevere la Corona, ma è andata buca anche a lui. Ora c’è in ballo la successione per l’ultimo della famiglia, il piccolo George, cui sta appena crescendo la prima barba. Il mio pronipote, ti rendi conto? E forse anche lui sta cominciando a covare la stessa inutile, inutilissima illusione mia e di tutti gli altri possibili eredi che lo hanno preceduto. Siamo una squadra, ormai; io sarò anche il più vecchio, ma gli altri sono ancora abbastanza in gamba da dimostrarsi degni della scelta. E allora perché non sceglie ancora nessuno, quella dannatissima egoista? Cosa le costa abdicare? Possibile che non sia ancora stufa di fare la Regina? E intanto io sto invecchiando oltre ogni limite ragionevole, accanto a una moglie bolsa, con le vene varicose, gli alluci valgi e un guardaroba imbarazzante. Ah sì, se la povera Diana era una sciacquetta, questa qui può ben dirsi uno sciacquone! Dimmi tu cosa devo fare, perché è una vita che porto pazienza ma adesso proprio – con tutto il rispetto – ne ho due palle così”.
Oh là. Mi sento un po’ meglio. Mi ha fatto bene lasciarmi andare con mio padre, è stato un colloquio virile in cui abbiamo toccato tutti i temi e finalmente mi sono sentito compreso a fondo come figlio.
“Beh, si è fatto tardi. Se non ti dispiace io andrei a farmi un pisolino. Ma lascia che ti dica che parlare con te mi ha molto rinfrancato: ora mi sento pronto ad aspettare ancora, e con maggiore fiducia. Grazie, daddy. Sei un grande.”
Uliana si fa interprete delle frasi di congedo:
“Sua Altezza Reale il principe consorte, Filippo duca di Edimburgo, ha detto: Grazie a te per la visita, e torna pure ogni volta che ne sentirai il bisogno”.
Strano. Un po’ l’ho imparato anche io, il linguaggio biascicato di papà, e non è esattamente questo che mi sembra abbia detto.
“Uliana, è sicura? Perché a me non pare”.
“Sicurissima, Altezza – si inalbera lei – A Voi cosa era parso di intendere?”
“Guardi, non si offenda: qui se c’è qualcuno che dovrebbe offendersi, quello sono io. E sa perché? Perché Sua Altezza Reale il principe consorte, Filippo duca di Edimburgo, mi ha appena detto: Aspetta e spera, coglione”. 

*  *  *

Questa indegna spiritosaggine partecipa all’eds Attesa, lanciato dalla Donna Camèl, insieme a:
– SpeakerMuto con Ti aspetto
– Hombre, con Faccio lo sborone
– firulì firulà (1) con E tu come stai?
– Lillina con Anime
– Dario con Ombre di fiori sul mio cammino
– Chiagia con In-attesa
– firulì firulà (2) con Quanto manca alle nove
– firulì firulà (3) con Credevo, e invece
– La Donna Camèl con Quanto a me
– Pendolante con Il Melo
– MaiMaturo con E se

Ma davvero non li avete mai visti?

(Marc Chagall: Il Sole giallo, 1958)

Cioè, così sui due piedi non posso dire di ricordare la data esatta. Capisco che per lei, dottore, sia importante sapere quando è cominciato, e aggiungere questo tassello agli altri che meticolosamente sta raccogliendo per redigere la mia cartella clinica. Però, le ripeto, dubito di poter essere precisa come chiede lei. Posso arrivarci, diciamo così, per approssimazione, mettendo in fila con un po’ di buona volontà alcuni punti più o meno fissi del passato e cercando così di individuare una specie di linea temporale, o almeno una serie, anche non troppo ordinata, di paletti fra i quali condurre il mio più lontano ricordo come lungo il percorso di uno slalom, o di una caccia al tesoro.
Il nonno era ancora vivo, su questo giurerei. Doveva avere già avuto il primo ictus, perché me lo ricordo con la bocca un po’ storta e il braccio fiacco, e la nonna strepitava sempre nel vedere che si sbrodolava mangiando. Vecchi e acciaccati, litigavano ancora con la stessa foga e perizia di sessant’anni prima, quando i loro bisticci di sposi li sentivano dai balconi tutti i vicini (e poi sentivano anche le serenate con cui lui la riconquistava a notte fonda, chiuso fuori dal portone).
C’era anche il cugino Rodolfo, ma lui era uno che andava e veniva di continuo, cambiava idea ogni momento, quindi non è certo se in quel momento fosse tornato dal seminario e si stesse preparando a partire per Istanbul, oppure se avesse già fatto fallimento anche lì (aveva messo su un hammam) e stesse progettando di imbarcarsi per Caracas.
La zia Imelda era già vedova, questo è sicuro. Aveva anzi per le mani un nuovo possibile marito, anche se non saprei dire con certezza se si trattasse di quel commerciante di pellami con magazzino in Stiria o del maresciallo in pensione che poi si è ammalato di una specie di lupus ed è morto da solo chiuso in casa come in una tana. La zia in effetti non si è più risposata, ha continuato ad avere sfortuna con gli uomini e alla fine beveva anche molto.
Mio fratello metteva via i soldi per aprire un bar oppure un’officina. Non sapeva neanche lui cosa volesse fare, e nel dubbio è rimasto senza far niente finché è diventato così vecchio da poter andare in pensione, se solo avesse mai avuto quel bar o quell’officina.
In fondo alla strada c’era ancora quello spiazzo incolto che confinava con le vigne del conte Folco e che gli faceva tanta gola, ma il proprietario non voleva venderglielo a nessun prezzo perché non si era mai dimenticato che loro due, durante la guerra, avevano corteggiato la stessa ragazza l’uno all’insaputa dell’altro. Quella ragazza era poi la sorella della mia maestra, che all’epoca si era ritirata in un convento per affari di cuore finiti male, ma dopo un po’ si era stufata, era uscita e si era trovata in quattro e quattr’otto un marito scavezzacollo con il quale si divertiva a correre spericolatamente sullo stradone a bordo di una vecchia moto residuato di guerra. Quale fosse la guerra, non mi è chiaro: la prima o la seconda, o forse un’altra prima ancora o addirittura in mezzo fra le due. Mi scusi, non riesco proprio a essere più precisa di così.
Quindi. In conclusione. In conclusione niente, non sono arrivata a nessuna conclusione.
Quel che è certo è che adesso quel terreno incolto se l’è preso il padrone di una catena di supermercati e indovini cosa ci ha costruito? Un supermercato, bravo. Però ha dovuto aspettare che morisse sia il conte Folco che il suo antico rivale, e questo è successo un bel po’ di tempo fa, ma dopo che il bambino dei Forabosco venisse rapito nella culla dagli zingari durante la festa del patrono, e prima che il Serpio straripasse inondando la Cantina Sociale e le stalle dei Ravazzi.
Non ricordo nemmeno la stagione, pensi lei. Però non credo fosse l’inverno della grande neve, quando restammo per settimane bloccati dietro i vetri con le coperte addosso; era piuttosto la bella stagione, non so se l’estate dell’eclisse di sole o quella in cui la moglie del macellaio si annegò per amore del cappellano.
Ma venendo al sodo, io in tutto questo non so ancora bene dove collocarmi. Ero bambina? Ragazzina? Aspetti, ora che ci penso stavo facendo all’amore col Giuseppe. Già, però il Giuseppe quale, il meccanico di biciclette o il mugnaio? Perché ci ho fatto all’amore con tutti e due, questo è il fatto; prima con uno e poi con l’altro, ma in quale ordine adesso proprio non saprei dirle. Le basta così? Guardi, anche se mi spremo, di più non mi viene. Posso continuare tutta la notte, se vuole, a farle questa cronistoria slegata dei fatti della mia vita, ma se spera che da questo rimestamento bislacco possa saltar fuori qualcosa di certo e sicuro, una data almeno minimamente plausibile, credo proprio che si stia illudendo.
Diciamo, ma molto grossomodo, con beneficio di inventario, insomma a spanna, a occhio, all’incirca che più all’incirca non si può, diciamo che è stato in un lasso di tempo non meglio precisabile tra la posa della lapide ai caduti in piazza e la cresima del primogenito dei Montaguti che si può vagamente collocare il momento in cui tutto è cominciato, come dice lei. Il momento in cui, insomma, li ho visti per la prima volta.
Gli asini.
Volare.
E il guaio, il problema, la malattia, se vuole, non è tanto che continui a vederli ancora, quanto che nessuno mi creda; neanche lei, dottore. Un vero peccato che voi non li vediate, perché sono così belli, così leggiadri, così beati e sorridenti che sembrano proprio angeli.

Una storia infinita

C’è un viale, e in fondo un cancello; e oltre il cancello un giardino, e in mezzo al giardino una casa.

Ora perdiamoci un po’ nei particolari, facciamo un riposante esercizio di fantasia, seguendo criteri non troppo razionali ma non per questo incoerenti. Stiamo scrivendo una storia sul Tempo, eppure deve essere una storia senza tempo; è questa l’idea, dunque dobbiamo cercare un’atmosfera surreale ma coinvolgente, un obiettivo concesso solo a una fantasia capace di lasciarsi andare.
Il viale è un viale di un quartiere residenziale. In termini di Tempo, dobbiamo subito chiarire che è un vecchio viale di un vecchio quartiere residenziale, e si lascia invecchiare vittorioso e placido, fiancheggiato da ippocastani ombrosi e protettivi. A terra, foglie gialle che nessuno è passato a raccogliere dall’ultimo autunno: un tappeto sontuoso che attutisce i passi. Nessuno sui marciapiedi, in questo momento. Gli abitanti delle case – vecchie case padronali stinte eppure ancora nobili – escono raramente, vecchi anch’essi, a volte impediti nelle gambe, o ormai noncuranti dei cambiamenti e appagati da un regime al minimo sotto l’occhio di una pendola rallentata e dietro le tende ingiallite delle poche finestre che ancora val la pena aprire.
Il viale termina a fondo cieco con un cancello, l’ultimo della strada. Questo cancello è alto, ma non facciamolo funereo: no, non ha niente che richiami un cimitero monumentale, anzi il ferro battuto è attorto in sinuose volute floreali e sembra invitare a entrare per scoprire le delizie di un eden. Varcato questo cancello – basta spingere e suscitare il suo antico cigolio – ci accoglie l’abbraccio di un giardino dimenticato, dove alberi maestosi e arbusti troppo cresciuti ospitano uccelli silenziosi in attesa dell’imbrunire, e le aiole hanno smarrito i loro confini per fondersi con l’invadente vegetazione spontanea, i muschi, i fiori selvatici. Si alternano profumi intensi di humus e tiglio, persistenti e ondivaghi come un astuccio di vecchia cipria dimenticata sulla toilette di una dama appassita.
E la casa, l’alta casa di pietra, la solida dimora di una stirpe, è anch’essa parte di quell’intrico, di quel tirannico abbraccio di edere inarrestabili  e glicini sfatti che tutta o quasi ormai la riveste, arrampicando con cieca tenacia verso le tegole ondose e gli spenti comignoli del tetto.
Ma noi, che abbiamo ali, sì, ma di altra materia, lasciamo quel tetto e il più alto dei suoi comignoli alla cicogna che vi ha fatto il nido, e entriamo piuttosto nella casa, da quella soglia il cui marmo ha perduto lo splendore e si è arrotondato sugli spigoli ai passi delle generazioni che l’hanno varcata. Il portone si lascia socchiudere sul suo letto di foglie secche con un fruscio felpato, e all’interno ci accoglie una mezza luce calda, polverosa, che piove obliqua da qualche vetrata. Ci attende una successione di stanze in infilata, una di seguito all’altra, in una prospettiva sfumata che sembra non avere fine. Stanze tutte disabitate e spoglie, ma ognuna diversa per piccoli particolari: la posizione e le dimensioni del caminetto, le tracce sui muri dei mobili che vi erano stati addossati, il colore degli intonaci, ovunque sbiadito ma qua nei toni del grigio, là in quelli dell’azzurro o del verde veneziano o del giallo spento; e tuttavia non vale la pena indugiare sui colori, dal momento che ne sono rimaste solo ombre indefinibili. Tra una stanza e l’altra, nessuna porta; cosicché dalla prima si vede la loro fuga una dopo l’altra, come una via obbligata da seguire per raggiungere l’ultima, per quanto lontana sia, e l’ultima è infatti l’unica invisibile, dietro un battente chiuso, e per questo ci attira irresistibilmente. Quando appoggiamo la mano sulla maniglia brunita, sentiamo di essere sulla soglia del cuore della casa. E il cuore si lascia toccare.
La stanza è diversa da tutte le altre. È calda e viva. È zeppa di mobili, oggetti, tappezzerie. È come se gli arredi e i beni più importanti e irrinunciabili della casa fossero stati raccolti lì per essere conservati e vivere delle loro utilità ancora un po’. Sulle pareti, librerie stipate e quadri di famiglia; sulla mensola del caminetto, orologi e soprammobili; e poi tavolini, cassettoni, vetrine, tutto legno massiccio e zampe leonine, tappeti gloriosamente infeltriti, un divano damascato, cuscini color rosso cupo, una scrivania col piano in cuoio, tendaggi fastosamente drappeggiati e ingrigiti, collezioni di pipe e tabacchiere inglesi, anzi un senso diffuso e confortevole di collezione, di rifugio.
Il collezionista è lì, seduto su una poltrona al centro della stanza. Un vecchio in giacca di velluto, con lo sguardo rivolto a un cavalletto di fronte a lui. Sul cavalletto un quadro con chiazze lucide di pittura ancora fresca; i pennelli e i colori sono ancora lì accanto, sopra uno sgabello. E quel quadro è la nostra destinazione, o forse la fine di una traversata e l’inizio di un’altra.
Perché il quadro raffigura una stanza, questa, zeppa di mobili, oggetti e tappezzerie. Con il camino, le librerie, le tende, i damaschi, i tappeti. È questa stessa stanza, nei minimi particolari, anche gli stucchi, le frange, le ombre sull’alto soffitto da cui pende quieto un lampadario di ragnatele.
E al centro del quadro è ritratto il collezionista, questo stesso collezionista – un autoritratto, dunque -, e come lui sta osservando il quadro appena ultimato.
E nel quadro è ritratto tutto daccapo: la stanza, i mobili, gli orologi, la poltrona e l’uomo, ma stavolta è un po’ meno vecchio; e meno vecchio è l’uomo che egli contempla all’interno del quadro nel quadro, dove un altro uomo, ancora impercettibilmente più giovane, fa la stessa cosa circondato dalle stesse cose, e l’uomo del quadro successivo è più vecchio di quello seguente, e le stanze e i quadri continuano a inseguirsi gli uni dentro e dopo gli altri, in dimensioni sempre più ridotte, percorrendo a ritroso la linea del Tempo fino a indefinirsi nell’ultima immagine che i nostri occhi possono ancora cogliere e che ha le proporzioni di una miniatura.
Oltre, è questione forse solo di lenti sempre più forti e di fantasia sempre più audace, per raggiungere quel fanciullo seduto su una poltrona troppo alta per le sue gambette, ma anche lui in contemplazione di un quadro, il quadro appena ultimato di un infinito precedente, il punto più vicino al primo Big Bang.

Paolino

Io da grande faccio il sub così quando arrivano gli squali zac zac gli sparo con il fucile subacqueo e gli faccio uscire tutte le budelle.
Io da grande faccio quello che pilota i caccia così sbam sbam sgancio le bombe che distruggo tutte le case.
Io da grande faccio quello che guida la macchina che schiaccia i sassi così sgrenghete sgrenghete li rompo tutti quanti.
Io da grande faccio il meccanico delle automobili così vroom vroom guido tutte le macchine anche le ferrari e tiro sotto i pedoni.
Io da grande faccio quello che guida il camion dei pompieri con la sirena po-pì po-pì così passo col rosso e non mi danno le multe.
O sennò quello che guida le auto della polizia così prendo i banditi e bang bang li ammazzo stecchiti.
Io da grande faccio il calciatore così non vado più a scuola e prendo tanti soldi.
O sennò faccio quello che comanda tutte le fabbriche del mondo così divento ricco lo stesso anche senza lavorare.
Io da grande gli spacco il muso a mio fratello così la smette di prendermi in giro perché dice che lui ha i superpoteri e io no. E alle bambole di mia sorella ci faccio l’autopsia come su foxcraim.
Io da grande quando muore mio papà oppure diventa vecchio mi prendo la sua moto e anche l’aifon e tutti i soldi.
Io da grande sposo la mia mamma così poi mi faccio preparare le patatine fritte tutti i giorni.

* * *

Questo post partecipa all’eds lanciato dalla Donna Camèl insieme a:
– Hombre con Puzzle
– Lillina con Tentar non nuoce
– Orsa Bipolare con Kronos e Kairos
– SpeakerMuto con Al pensiero
– MaiMaturo con Gli sguardi del cuore
– La Donna Camèl con Sono io
– Singlemama con È un gioco
– Dario con Se lavessi saputo prima
– Kisciotte con Tira più un pelo di ca…

All’ombra dell’ultimo sole

Devo essermi assopito un attimo. Questo caldo, questa luce del mezzogiorno.
Ma anche mentre dormicchiavo sentivo tutto. Sentivo il ronzio delle api sulle aiole e sentivo le voci dei bambini che giocavano un po’ più in là; sentivo qualcuno sparecchiare il tavolo del pranzo sotto la pergola e sistemare le sedie all’ombra per servire il caffè. Io intanto riposavo, tenevo gli occhi chiusi, semplicemente, e lasciavo andare i pensieri a casaccio, come si fa di domenica dopo mangiato.
Sto bene qui, all’ombra; forse il gelsomino profuma un po’ troppo, o forse non è nemmeno un gelsomino. Forse è il profumo di una donna. Forse è profumo di un dolce di compleanno, dei confetti di un battesimo, dell’incenso di un funerale.
– Come va? I bambini danno fastidio? Adesso li faccio smettere.
Ma no, che giochino pure. La tenda bianca della porta finestra si muove appena, come se dietro ci fosse qualcuno che guarda fuori senza farsi vedere. Questo caldo, questa giornata che non finisce mai. Ho fatto del mio meglio. Il pranzo era buono, leggero, vario, c’era di tutto, ottimo vino – dicono – e una torta con le scritte in oro. Ho fatto del mio meglio, ma non avevo molto appetito. Solo l’idea mi spossava. Ho assaggiato, nulla di più. Ho mangiucchiato guardandomi intorno per intercettare gli sguardi preoccupati, delusi. Ho cercato di tenere da parte un po’ di fiato per la candelina, una sola grossa e dorata, ma sospetto che qualcuno, alle mie spalle, abbia soffiato forte al mio posto. Così li ho fatti tutti contenti, e al partire dell’applauso mi è partito anche un po’ di mal di testa, il solito del resto. È stato allora che mi sono assentato per un po’. Avrei voluto chiedere scusa ma ho rimandato a dopo. Prima avevo solo un assoluto bisogno di riposare un pochino. Ogni cosa, ormai, richiede un lungo percorso di preparazione prima e di riposo dopo. Quello che ho notato, purtroppo, è che fra quel prima e quel dopo i ricordi del passato e anche la percezione del presente svaniscono. Non sono più capace di trattenerli e di assimilarli. Non sono più capace di trattenere e di assimilare nulla.
Ho figli, nipoti e pronipoti. Non di tutti mi ricordo i nomi, sono tanti. Vanno e vengono in casa mia, la conoscono meglio di me; io non me la ricordo quasi più, me la ricordo diversa. Quando c’era la Nini, per esempio. Deve essere lei, quella che smuove leggermente la tenda. Forse aspetta che se ne vadano tutti per raggiungermi in giardino, bagnare i fiori, farmi una carezza. La serata, quella almeno, sarà tutta per noi.
– Papà, noi ce ne andiamo. Adesso l’infermiera ti porta dentro, che c’è più fresco.
Per la verità, io proprio adesso cominciavo a sentire un po’ di freddo. Dite alla Nini di portarmi una coperta. Che si sieda qui accanto a me, che mi scaldi le mani; mentre voi ve ne tornate alle vostre case noi due potremo parlare delle nostre piccole faccende, di come è andata la mia festa di compleanno (“Cento anni, complimenti! La facciamo, una bella fotografia di gruppo?”, mentre io pensavo “Cento anni, di già? Ora si spiega tutto”). E non mi escono le parole, lo temevo; solo si muove vagamente una mano, ma non si sa spiegare, è come un uccello malato che vaga. Cieco.
Ma è solo stanchezza. Cento anni di stanchezza. E poi la stagione, i primi caldi, i pomeriggi lunghi, le notti con i grilli, la nebbiolina dell’alba, il corpo di piombo che fatica a girarsi nel letto. Andate pure, voi, e grazie di tutto. Solo, dite alla Nini se può venire per favore, perché adesso sento molto la sua mancanza.
– Allora ciao papà, e ancora auguri.
Aspettate, mi pareva di avere una cosa da chiedervi. Ma la Nini, poi, l’ho sposata, vero? E dov’è il mio fazzoletto? Abbiate pazienza, è stata una giornata faticosa, mi sento frastornato e allora, sapete, mi vengono dei dubbi. Mi faccio delle domande. Mi guardo intorno per vedere se ho tutto, se ho perso qualcosa, e lo sforzo è inutile. Sono sempre più confuso. Non vale la pena. Andate, andate pure, ci sarà tempo un altro giorno. Fate i bravi, voi, intanto. Io resto qui, non ho bisogno di niente. Davvero.
– Papà? Papà? Mi senti? Oh Dio, papà!
Vi sento, vi sento; siete voi che non potete sentirmi. State tranquilli. Non agitatevi. Sto bene, sto meglio, è tutto molto calmo, sempre più calmo, sempre più leggero, sempre più semplice. Non faccio quasi più fatica. Galleggio, plano, ho imparato a volare. Credetemi, è meraviglioso. 

Nini, sei tu quella luce bianca là in fondo? I ragazzi, sai, li ho sistemati tutti. Ora sono pronto. Se mi vuoi ancora, quando arrivo ti chiederò di sposarmi un’altra volta.

nell’immagine, Gli sposi, di Marc Chagall (1915)

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– Singlemama con È un gioco
– Dario con Se lavessi saputo prima
– Kisciotte con Tira più un pelo di ca…