La pioggia prima che cada


(praticamente, una stroncatura)

Non mi è piaciuto, tuttavia lo ho letto fino in fondo.
Lo ho letto fino in fondo perché mi sentivo in dovere di capire il motivo per il quale non mi piace Coe in generale, il motivo per cui tempo fa avevo abbandonato dopo qualche decina di pagine la lettura di un altro suo romanzo, La famiglia Winshaw, indicato fra i due o tre migliori di questo autore da molti apprezzato, addirittura celebrato. Quel libro mi aveva letteralmente infastidita a causa dello stile contorto e della scarsa limpidezza della trama, tanto da decidere di escludere questo autore da successivi programmi di lettura. Decisione recentemente rientrata per motivi tutto sommato superficiali: anzitutto la curiosità appunto di sondare meglio il mio iniziale rifiuto, poi senz’altro l’attrazione esercitata dal titolo – poetico ed enigmatico – e da ultimo l’opportunità di leggere un libro che forse non mi sarebbe piaciuto senza rischiare di pentirmi di averlo acquistato, avendolo preso in prestito dalla biblioteca comunale. E’ rimasto nelle mie mani tre giorni, il tempo di leggerlo con attenzione, poi lo ho riportato più che volentieri sul suo scaffale, dove probabilmente procurerà a qualche altro lettore maggiore soddisfazione.
Ma torno a ripetere, invertendo i termini: lo ho letto fino in fondo, tuttavia non mi è piaciuto.
E non mi è piaciuto probabilmente anche perché tra la sensibilità dell’autore e la mia di lettrice non ho avvertito nemmeno questa volta alcun punto di contatto, né dal punto di vista stilistico né da quello del contenuto narrativo. Non c’è stata interazione, non c’è stato feeling, non c’è stato coinvolgimento. La vicenda si lascia leggere, devo ammetterlo, così come ammetto che Coe non è un bluff ma sa indubbiamente scrivere, però un giudizio tecnico e non solo emotivo non può ignorare che la storia è greve come una telenovela strappalacrime, e come una telenovela è forzata fino a una ridicola inverosimiglianza.
L’obiettivo sembra quello di sconcertare e commuovere soprattutto il pubblico femminile, quello cui il libro appare naturalmente e preferibilmente dedicato dal momento che narra di una cronologia tutta al femminile: la concatenazione delle vite di tre generazioni di donne osservata, analizzata e rivissuta da altre donne, il tutto all’interno di una sola e ramificata famiglia inglese lungo il corso di alcuni decenni del novecento. Ma l’obiettivo di sconcertare e commuovere è tra i più banali, se poi viene perseguito grazie a certe insistenti forzature tragiche che, proprio perché irrealistiche, risultano al contrario quantomai prevedibili, e quindi deludenti per il lettore meno sprovveduto. Il libro appare un polpettone tenacemente malinconico, infarcito com’è di ingredienti di risaputo effetto come la presenza di una fanciulla cieca, il tema dell’omosessualità femminile, quello dell’adozione di minori sottratti alla podestà di genitori indegni, perfino la cronaca in diretta di un suicidio. Ingredienti eccessivi, estremi e quindi complessivamente ingenui.
All’inizio mi aveva fatto ben sperare la trovata – se non originalissima, almeno accattivante – di un filo conduttore rappresentato dalla descrizione di una serie di vecchie fotografie di famiglia, ognuna delle quali introduce la rievocazione di una tappa significativa nell’intera saga e ne connota l’ambientazione nello spazio, nel tempo e nei costumi di una società. Peccato che questo artificio ben presto perda la sua efficacia soffocato sotto pagine di tediosissime descrizioni di paesaggi e di dettagli che, seppure funzionali al fatto che il racconto è rivolto alla fanciulla cieca di cui sopra, non colgono tuttavia l’obiettivo di far vedere e far vivere davvero i soggetti, gli oggetti e gli ambienti fotografati: tutto resta piuttosto estraneo, lontano, incomprensibile e scarsamente condivisibile, come accade con ciò che, per quanto si sforzi, non ha un’anima sincera da mostrare. Descrizioni diligenti, persino ossessive, e tuttavia o proprio per questo fredde, affettate, vacue come cartelloni pubblicitari.
L’unico merito che riconoscerei a Coe è quello di aver cercato di interpretare l’animo femminile costruendo una vicenda e uno scenario dominati quasi esclusivamente da donne, delle quali ha voluto narrare – direi calcando un po’ troppo la mano, come se a scrivere fosse stata una signora depressa dalla menopausa – a quali abissi di complessità e paranoia possano giungere le conseguenze di problemi affettivi sorti nell’infanzia e mai sufficientemente compresi. Intuendo quale impegno sia richiesto da parte di uno scrittore per immedesimarsi credibilmente nell’altro sesso, ci si capacita di come Coe, nel perseguire il suo scopo, sia caduto in qualche stereotipo di troppo; un po’ meno di come non abbia mai pensato di attingere, dalla invidiabile tradizione britannica, un po’ di quello humour inglese che ha caratterizzato al meglio tante altre opere di suoi connazionali e che avrebbe evitato anche a lui lo scadimento nello psicodramma mediocre, gratuito e déjà-vu.
Complessivamente dunque un libro scritto bene ma incapace di affascinare; un libro che, per la pretesa di contenere troppe verità, non ne esprime nessuna di convincente; un libro che costa poco leggere se non altro per potersi poi dire aggiornati sulle novità editoriali di cui bene o male si parla, ma che consiglierei preferibilmente a un pubblico di pretese modeste e incline ai sentimenti forti, purché rassegnato a una certa pazienza davanti alle tante lungaggini descrittive.