E ai libri, chi ci pensa?

Visto che siete tutti lettori e scrittori, vi ricordo il blog Matti per leggere, da me medesima creato e curato, dell’Associazione Amici della Biblioteca dove faccio la sguattera di pomeriggio.
Oggi c’è anche un raccontino di Natale, sempre di me medesima, in omaggio ai cari compagni con i quali condivido l’impegno per la divulgazione della lettura e il sostegno alle attività della biblioteca rivolte agli adulti.

Contro il mio interesse

Se avessi non dico il bernoccolo degli affari, ma almeno un microgrammo di autostima, non ve lo direi. Invece per scarsità dell’uno e dell’altra ve lo dico: voi (due o tre che siate) che per qualche imperscrutabile motivo state leggendo il mio ebook, lasciatelo perdere e leggete piuttosto qualcosa che vale sul serio.
Vi consiglio un romanzo (meglio, un racconto lungo; meglio ancora, un racconto fatto di racconti) affascinante: La corte del diavolo, di Ivo Andric (1892-1975, premio Nobel per la letteratura nel 1961).
Vi si narra l’esperienza di un frate bosniaco in un carcere turco dove era stato rinchiuso benché innocente, e gli incontri con altri detenuti, ciascuno carico di un proprio vissuto spesso bizzarro, a volte tragico. L’ambiente, anzi gli ambienti, e la varietà di personaggi e di storie hanno qualcosa di fiabesco. Lo stile è pulito eppure affabulatorio, ricco com’è di immagini, di sensazioni. Ne sono stata catturata fin dall’incipit e ho deciso di presentarlo al Gruppo Lettori della mia biblioteca quando, il 20 settembre prossimo, ci riuniremo per raccontarci cosa abbiamo letto di bello quest’estate.
Chi viene è benvenuto, non se ne pentirà e avrà voglia di tornare.

Noi siamo sempre più o meno propensi a condannare quelli che parlano molto, specie se di cose che non li riguardano direttamente, e a giudicarli con disprezzo, considerandoli chiacchieroni e parolai, gente noiosa. E non ci rendiamo conto che questo difetto, così umano e così frequente, ha pure i suoi lati buoni. Che cosa, infatti, sapremmo noi dell’animo e dei pensieri altrui, dell’altra gente, e quindi anche di noi stessi, di ambienti e paesi che non abbiamo mai visto né avremmo occasione di vedere, se non ci fossero questi individui che hanno bisogno di raccontare a voce o per iscritto le cose che hanno visto e udito, le emozioni e i pensieri che esse hanno fatto nascere in loro? Poco, molto poco. E anche se i loro racconti sono incompleti, coloriti di passioni e di esigenze personali, o magari inesatti, noi, che appunto abbiamo giudizio ed esperienza, possiamo valutarli e confrontarli tra loro, accettarli o respingerli, in tutto o in parte. Sicché, qualcosa dell’umana verità sopravvive pur sempre per coloro che li ascoltano o che li leggono con pazienza.”

Qua sono, e dove sennò?

Se venite in biblioteca in questi giorni, mi trovate sempre. Anche la mattina. Almeno fino al ritorno del Capo dalle ferie, perché dopo riprenderò il mio orario esclusivamente pomeridiano, in rispetto delle altre mansioni che mi spettano in qualità di (trovo sempre abnorme definirmi così anche dopo tanti anni) casalinga.
Venite e mi trovate. Se non mi vedete subito, abbiate fede: ci sono, ma magari imboscata tra gli scaffali o nel magazzino, oppure al mio posto ma troppo piccola per emergere dietro gli scatoloni. Se sono visibile, probabilmente sono impegnata in ricerche al computer, o sto telefonando e ricevendo telefonate, o riordinando libri e quotidiani. Se sono visibile ma solo con la coda dell’occhio, è perché sto saltando come un grillo da un computer all’altro, da uno scaffale all’altro, alla velocità di superman e con l’agilità dell’uomo ragno. Se riuscite a fermarmi, rivolgetemi pure qualunque domanda o richiesta: dimostrerò con un largo sorriso la mia attenzione ai vostri problemi e tutta la volontà traboccante di risolverli. Più sono ardui e più mi vedrete luccicare negli occhi la felicità per la sfida. Mi metterò al vostro servizio e per voi troverò l’introvabile e consiglierò l’inconsigliabile, anche facendo forza su me stessa, sul mio naso che ha il vizio ineducato di storcersi facilmente, quello snob.
Volete una lettura da ombrellone? Vi accompagnerò personalmente allo scaffale di Sparks (che poi sta vicino a Danielle Steel) e lì vi lascerò da soli a scegliere nella più completa libertà e riservatezza, astenendomi da commenti. Occhio che un po’ più in là c’è Steinbeck: evitatelo, per voi è veleno.
Volete tutta la bibliografia di Cristina Benedetta Parodi? Vi procurerò la sua opera omnia richiedendola ad altre biblioteche più spendaccione e meno selettive, e vi avviserò dell’avvenuta consegna in tempo reale via telefono o mail. Ce la fate a mangiare cose decenti nell’attesa delle sue ricette sciagurate?
A un mese dal prestito vostro figlio non riesce ancora a staccarsi dal librino cartonato di quattro pagine con il trenino e gli orsetti? Niente paura, segno che il bimbo è sensibile: ve lo prorogo per altri sei mesi, d’accordo? Così intanto il pargolo cresce e magari passa a qualcos’altro, tipo Stilton che va sempre come il pane e poi è molto formativo. Mica come Rodari.
Avete finito di leggere un libro peso e sentite il bisogno di disintossicarvi con qualcosa di più estivo? E qual era il libro peso? Hornby? Capito, siete maturi per passare a Kinsella: tutto un altro mondo. Non badate al mio sogghigno, un attimo di debolezza e non sono riuscita a trattenerlo.
Cercate Coelho, Faletti, un thriller scandinavo, una saga celtica, un fantasy nostrano, l’autobiografia di un calciatore, le rivelazioni di Paolo Brosio, la dieta Dukan, una guida della Patagonia? Se non li ho in casa, rastrello tutto il sistema (98 biblioteche, mica niente) e Dio mi fulmini se non ve li trovo.

Se invece siete all’antica, leggete col cuore, cercate la vostra vita vera e inconfessata in quella dei personaggi, amate pesare il valore della singola parola, rabbrividite di commozione nello scoprire che un libro vi capisce come mai nessuno prima, godete sulla vostra pelle e nelle vostre occhiaie l’insonnia del bibliofilo perché leggere è la cosa più bella che abbiate imparato a fare, è la salvezza dell’anima dalle sabbie mobili, dalla pece, dalla bonaccia sterile, dall’omologazione rincoglionente, dall’inesauribile stupidità dei vostri simili che non leggono, se la lettura per voi è insieme linguaggio, musica, immagine, realtà e sogno, azione e riflessione, stimolo e sostegno, ragione di vita, infinito amore, beh a voi darò il meglio di me. Chiedete, e cercheremo insieme, e insieme troveremo e insieme ci innamoreremo, illuminandoci d’immenso. Grazie di esserci. 

ps: no, perché stamattina una liceale mi ha chiesto un libro che si chiama Otello, non sono sicura ma credo sia di scespir

Ci vorrebbe un amico

Aveva ragione SpeakerMuto: ho fatto bene a riprendere Americana, di Don DeLillo. Degli ultimi quattro libri che ho letto, ben tre erano di donne, fatto piuttosto insolito per me, ma ne è valsa la pena perché alla fine non mi sono dispiaciuti. Quello che mi ha colpita di più è stato L’infinito nel palmo della mano  di Gioconda Belli; casomai ne scrivo qualcosa un’altra volta, o forse anche no.
Ma dopo Egan, Brookner e Belli avevo voglia di ritornare al mio genere preferito: il postmoderno, quello duro e ruvido ma struggente di Wallace e dei suoi predecessori, come Barth e questo grande DeLillo che da due sere mi sta confortando, e anche abbastanza tormentando (le relazioni vive implicano pure questi due aspetti antitetici, no?).
Lo sento, lo vedo, sono lì, riconosco tutto come chi riconosca, al tatto e dall’odore, la trama del suo cappotto più liso e avvolgente. E questo benché io non abbia mai visto New York, non sia mai stata una donna in carriera, non abbia mai subito il fascino del successo e della visibilità (sono tutte cose scomodissime). È una di quelle storie intellettuali che mi stimolano, mi gratificano, mi commuovono con la rivelazione di una sorprendente empatia: questa parla di alienazione e vanità, mette a nudo con spietata eleganza l’immaturità e la miopia di una società vittima dell’immagine.
Non dico altro. Lascio parlare lui, un pezzetto abbastanza a caso perché il linguaggio e l’incanto è tutto di questo tono, classe e suggestione.

Decisi di andare a piedi. Faceva freddo, e il vento soffiava dagli angoli di strada portando odore di neve e vaghi sentori di sempreverde dalle bancarelle degli alberi di Natale. Nella Terza Avenue, gli autobus sfrecciavano via in branco, illuminati a festa come sale operatorie, con ciascun finestrino che conteneva più teste moribonde. Qualche metro più avanti a me c’era un uomo con una radiolina. Attraversò la strada stringendosela all’orecchio, senza prestare la minima attenzione al traffico. Gli tenni dietro per cinque isolati, e lui non abbassò la radio neppure una volta. Lo affiancai. Ascoltava le previsioni del tempo mormorando fra sé, o forse dialogava con la radio. Era molto più giovane di quanto immaginassi, un ragazzino sui quindici anni, tondo e chiazzato, con uno sguardo enigmatico offuscato dalla ciccia infantile, e aveva quell’aspetto da lieve ritardo mentale tipico del genio in erba: la stessa astuzia rapace e grifagna dei collezionisti metropolitani di stracci e bottiglie vuote, grandi campioni evolutivi dell’arte della sopravvivenza. Il ragazzo mi guardò.
«Il bollettino della neve» disse.
Non mi era mai piaciuto avvicinarmi troppo a gente del
genere. Attraversai la Terza Avenue in fretta. Avevo percorso meno di un isolato che lo sentii gridarmi dietro qualcosa. Era fermo dall’altra parte della strada, vicino a un lampione, con le mani a imbuto sulla bocca a chiamarmi e la radio sotto l’ascella, la sagoma corpulenta che scompariva e riappariva tra le macchine e gli autobus che sfrecciavano fra noi, come una successione di diapositive.
«Arriva!» urlò. «L’hanno appena annunciato. Scenderà da un momento all’altro. Otto centimetri entro mezzanotte. Bisogna lasciar libere le corsie di emergenza. Il sindaco consiglia di non usare l’automobile se non in caso di necessità. Da un momento all’altro. Otto-dieci centimetri. La neve! La neve! La neve!»

Hotel du Lac

Il libro che ho presentato ieri sera in biblioteca al pubblico dei circa trenta Lettori Assatanati del Venerdì è dell’inglese Anita Brookner, oggi ottantaquattrenne, una storica e critica dell’arte che ha insegnato a lungo all’università di Cambridge. È però anche una valente scrittrice, più nota nei Paesi anglofoni che in Italia, ed è stata paragonata a nomi del calibro di Henry James, Jane Austen e Virginia Woolf. Con questo romanzo, Hotel du lac, del 1984, ha vinto il massimo premio letterario d’Inghilterra, il Booker Prize, che equivale al nostro Campiello o allo Strega.

L’ho letto per due motivi. Anzitutto mi è stato consigliato da mia sorella (sì, la cito spesso, ma converrete che ha un suo perché), la quale come lettrice è ancora più assatanata di me e poi legge in lingua originale ed è anche una meticolosa conoscitrice di Virginia Woolf, che anche questo ha un suo perché. Il secondo motivo è che il titolo suggerisce una vicenda ambientata in un albergo. L’idea di un albergo mi interessava perché è uno di quei posti, come chessò un condominio, un treno, una sala d’aspetto eccetera, anche solo una banale coda a uno sportello, in cui va e viene un’umanità varia, fatta di sconosciuti di passaggio che magari non hanno motivo di parlarsi ma che portano, ognuno, una propria storia nascosta. Quindi un ambiente che si presta moltissimo per uno studio di caratteri, un ambiente che molti scrittori amano riprodurre perché consente loro di mettere in scena molte storie diverse all’interno di un’unica storia, con un filo conduttore non troppo vincolante, che lascia ampio spazio all’immaginazione e alla riflessione.
La vicenda dunque si svolge in un vecchio e distinto albergo sul lago di Ginevra, dallo stile aristocratico e forse appena appena un po’ decaduto, ma sempre frequentato da persone altolocate in cerca di un soggiorno tranquillo e confortevole. La stagione è l’inizio dell’autunno, quando ormai i villeggianti più giovani e animati sono ripartiti e rimangono solo ospiti di una certa età, ovviamente facoltosi. In questo albergo arriva Edith, scrittrice quasi quarantenne, una figura dimessa, riservata, malinconica, per un soggiorno che potremmo definire coatto: non è una vera vacanza, bensì una specie di esilio temporaneo cui è stata costretta in seguito a uno scandalo di cui è stata al centro, e che verrà rivelato solo intorno alla metà del romanzo. Edith scrive storie romantiche e ha un buon successo; si è scelta uno pseudonimo le cui iniziali sono V, come Virginia, e W, come Woolf. Anche nell’aspetto somiglia alla grande scrittrice, glielo dicono tutti, e questo particolare ha un suo retroscena curioso nella realtà perché la stessa Brookner, come dicevo, è stata paragonata a Virginia Woolf, e devo dire che sono piuttosto d’accordo.
Questa Edith è un’eroina un po’ fuori moda, se vogliamo, di quelle in gonna di tweed e cardigan; una donna che può ormai dirsi quasi una zitella, che non ha avuto molta fortuna con gli uomini, che ha una relazione segreta con un uomo sposato che non lascerà mai sua moglie, che si aspetta dalle amicizie qualcosa di più che parole e gesti convenzionali. Una donna che vive in penombra, abituata più a subire che a essere protagonista. E in questo momento della sua vita si trova, volente o nolente, nella condizione di doversi tenere ancora più in disparte, e di questa quarantena forzata approfitta per tentare di completare il suo ultimo romanzo ma anche di sottoporre ad autocritica la sua esistenza sull’orlo del fallimento.
All’albergo si trova obbligata dalla buona educazione a frequentare gli altri ospiti. I personaggi più importanti e meglio delineati sono tutti femminili, e la loro funzione è principalmente quella di esaltare il confronto con la protagonista perché tutti, in un modo o nell’altro, rappresentano un mondo di ricchezza, superficialità, vanità, camuffate da successo.
C’è una vecchia nobildonna completamente sorda e per nulla socievole, Mme de Bonneuil: una donna anziana, molto piccola, con la faccia simile a quella di un bulldog, e gambe così arcuate che sembrava ondeggiare da una parte e dall’altra nello sforzo di tenersi in piedi.
Un’altra, più giovane, dall’aspetto affascinante, si chiama Monica: una donna alta, di straordinaria magrezza, con la testa stretta e ciondolante di un uccellino. In lei tutto sembrava esagerato: la statura, la lunghezza delle sue straordinarie dita, la voce imperiosa, gli enormi occhi color ostrica dietro le lenti scure degli occhiali.
Ci sono due donne inseparabili, madre e figlia, Iris e Jennifer, che solo da vicino rivelano la loro vera età: quasi ottanta la prima e verso i quaranta la seconda, ma entrambe giocano a fare le sirene, sono belle, ricche, lussuosamente vestite e ingioiellate, sempre al centro dell’attenzione, ostentando la loro familiarità con gli ambienti più raffinati.
All’inizio Edith è in imbarazzo nei confronti di queste donne così diverse da lei, ma poco a poco capisce che ognuna di loro è una maschera. La nobildonna è una vecchia sola, trascurata dal figlio e dalla nuora e isolata dal mondo anche a causa della sua sordità. La bella donna magra che sembra una flessuosa danzatrice nasconde una storia di nevrosi e frustrazioni. Madre e figlia, così incantevoli, sono in realtà due persone arroganti, superficiali e meschine.
Nel cast vi sono anche degli uomini, ma sono delineati meno acutamente e in fondo si somigliano un po’ tutti. L’autrice, e questo secondo me è un suo limite, li ha disegnati secondo lo stereotipo del maschio egoista che non capisce i misteri della sensibilità femminile e che bada prima di tutto alla propria immagine di uomo arrivato e rispettabile.

Il romanzo si basa quasi tutto su questa analisi di caratteri. C’è pochissima azione, a parte l’antefatto dello scandalo che qui non rivelerò per rispetto di chi volesse scoprirlo da solo; viceversa c’è molta atmosfera, ed è questo che me lo ha fatto apprezzare. Ho anche apprezzato il finale, in cui la protagonista sembra aver preso maggiore coscienza di sé e all’ultimo momento riuscirà ad evitare  un altro ennesimo errore.
È una storia in cui l’amore ha il suo peso ma per fortuna non è trattato con eccessivo sentimentalismo, altrimenti non avrei letto fino in fondo. La mano femminile si avverte molto proprio nella capacità analitica e descrittiva e nell’eleganza raffinata dello stile. Un romanzo con un suo fascino, che può fare compagnia senza deprimere, adatto però più a un pubblico femminile.

La calata dei barbari e il calo della cultura

Ne parla, pur senza esprimere nulla che non sia già evidente a chi ha un minimo di sale in zucca, Pietro Citati sul Corriere cultura di oggi.
A margine, mi permetto di dissentire – ma a puro titolo personale, e anche a nome di alcune casalinghe di Voghera come me – sulla scelta dei due libri portati a esempio di letteratura alta eppure di successo degli ormai arcaici anni settanta. L’insostenibile leggerezza dell’essere l’ho trovato insostenibile e presuntuoso; l’altro, Le nozze di Cadmo e Armonia, dopo un avvio entusiasmante, mi ha stremata.
Inoltre a Kafka aggiungerei, per dirne uno, Steinbeck.
Per fortuna, a scuola fanno leggere Calvino: tutto sta a cosa ci capiscono.

 ps: secondo me, un pezzo come questo di Citati avrebbe potuto scriverlo, rendendolo anche più accattivante ed esaustivo, un qualunque blogger di medio livello.

Il trauma del trapasso

No, non si tratta di un caso di morte violenta. Mi riferisco a quello spinoso periodo di transizione in cui si trova il lettore quando, dopo aver terminato un libro, deve scegliere quello successivo.
Ieri sera ho finito L’Opera galleggiante, di John Barth. Il mio primo libro di questo autore, che devo dire mi è piaciuto e mi ha lasciato la voglia di leggerne altri. Non intendo farne qui una recensione accurata; mi limito a buttar giù qualche aggettivo tanto per fissare le idee. Stravagante. Minuzioso. Paradossale. Comunque interessante proprio perché l’ho sentito lontano dal romanzo standard. Ecco, ora mi è venuto l’aggettivo giusto e onnicomprensivo: intellettuale. O cerebrale? Boh. Tanto non è di questo che volevo parlare, se non per dire che è stata una lettura goduta, che valeva la pena, e che ciò mi rende alquanto imbarazzante la scelta della prossima.
Mio fratello, accanito lettore soprattutto nel métro di Parigi, ha un suo dettato in proposito: un libro serio/un libro di cacca/un libro serio/un libro di cacca, e via così. In breve, raccomanda l’alternanza. E la pratica, anche, perché dopo uno Steinbeck in lingua originale passa a uno Jacovitti d’annata, e ci si trova benissimo.
Io ho qualche anno più di lui, e più passa il tempo meno mi sento disposta a sprecarne in letture di cacca. Ogni anno in più sono venti o trenta libri in meno che potrò leggere, e se ci penso mi deprimo orribilmente.
Sicché ieri sera chiudo lentamente, quasi sacralmente, l’Opera galleggiante, poi mi prendo qualche minuto di silenzio interiore (chiudo anche gli occhi) come per lasciar decantare la chiusa e le ultime sensazioni che mi ha insinuato e che ora, nei prossimi giorni, sedimenteranno le une sulle altre fino a rivelarmi pian piano l’entità del segno che quel libro mi ha lasciato. Ma per intanto mi trovo senza un libro da leggere che mi assicuri un pari livello di soddisfazione, o perlomeno non mi procuri una delusione. Allora apro quello che avrebbe il diritto di precedenza sugli altri perché è la lettura consigliata dal Gruppo Lettori della biblioteca per il mese di febbraio: Ho servito il Re d’Inghilterra, del per me sconosciuto Bohumil Hrabal (talmente sconosciuto che me lo facevo arabo o libanese). Ora, non so come dirlo agli amici del Gruppo Lettori, ma l’approccio non è stato per niente invitante. D’accordo che ho letto troppo poche pagine, ma se già dall’inizio mi infastidisce una punteggiatura che sembra messa per far dispetto direi che non si mette tanto bene.
Ok, ho ancora tanto di quel DFW da leggere che potrei dirmi a posto per il resto della mia vita, ma ogni tanto bisogna anche cambiare. Ho un paio di Franzen sul comodino, ma Franzen non mi ammalia più da quando ho letto qualcosa che me lo ha fatto giudicare un gran presuntuoso. Ho circa 800 e-book nel kindle, lì sì che ci sono alla rinfusa libri seri e libri di cacca, e temo che finirà proprio così: un’altra serata persa in uno zapping scellerato e inconcludente.
Insomma, mi serve qualcosa che non mi faccia rimpiangere Barth: voi cosa mi consigliate di leggere?

Edit: nel frattempo ho cominciato Come diventare se stessi, di Lipsky e Wallace (sì, ci sono ricascata, ma che bello!)

Ve la do io, la scrittura creativa

Vi dico come è andata. Sono nata in una casa piena di libri e in un’epoca in cui solo pochi ricchi avevano il televisore. Noi ovviamente non eravamo ricchi, se non di libri. Hai detto niente.
Mia mamma era sempre assorbita da altri due bimbi più piccoli e – diciamolo pure – malaticci. Non so se a loro raccontasse le storie; forse erano davvero troppo piccoli, oppure lei era troppo occupata a mescere sciroppi e lavare panni a mano (anche la lavatrice l’avevano solo in pochi, gli stessi che avevano il televisore, suppongo). A me comunque non le raccontava, perché la sera era stanca. Un dato di fatto, non una colpa, intendiamoci.
Ma la solitudine genera fantasia, soprattutto se si ha la fortuna di crescere fra pareti foderate di libri. E fu così che cominciai molto presto a raccontarmele da me, le storie. Ben prima di andare a scuola, con un anno di anticipo, e di aver imparato a leggere, cosa che mi riuscì con la facilità con la quale i pesci imparano a nuotare. Le storie mi nascevano da sole, la sera, dopo che mi avevano fatto spegnere la lucetta sul comodino. Ed erano anni in cui si andava a letto presto, soprattutto chi, non avendo il televisore, non poteva nemmeno accampare la scusa di vedere almeno Carosello.
Così è andata. È andata che ho cominciato a raccontarmi le storie da sola quando avevo cinque piccoli anni, e da allora non ho più smesso. E più avanti ho cominciato anche a scriverle, quelle storie. Prima solo per me, poi a volte anche per altri. Ma sempre così, come mi venivano, come mi erano nate. Tutto qua.
Ora abito in una casa ancora più piena di libri di quella in cui sono nata, e alle mie figlie, che ormai sono donne, ho raccontato storie finché me lo hanno permesso. Ho raccontato loro non di Cenerentola o del Brutto anatroccolo, bensì di Ulisse e Polifemo, e di Jean Valjean e di Cosetta, e di Jane Eyre e Rochester.
Poi un giorno hanno smesso di ascoltarmi e hanno scoperto Beautyful.
Io invece le mie storie me le racconto ancora e per me sono sempre nuove, così ogni tanto mi dico massì, perché no, e le racconto anche a voi.

E non mi annoio

Da qualche anno passo quattro pomeriggi la settimana in una biblioteca comunale. Farmi assumere come sguattera aggratis è stato facilissimo. Faccio di tutto, da lavori di concetto a bassa manovalanza. Tutto tranne due cose: non spolvero (non lo farei neanche a pagamento, mi basta la polvere di casa mia) e non catalogo (anche se lo saprei fare, ma c’è la catalogazione centralizzata). Tra i lavori di concetto, il più gratificante è stato l’inventario, il primo nella storia pluridecennale della biblioteca. Mi ha richiesto nove mesi (oltre 26.000 documenti, in discreta parte infrattati) e l’ho fatto tutto da sola. Routinariamente mi occupo di tutto, prestiti, restituzioni, riordino, insomma saprete anche voi quanto c’è da fare in una biblioteca di grande traffico. Ma il ruolo che preferisco e che mi riesce meglio è quello di consulente letteraria. Infatti i casi disperati li mandano tutti a me. Il mio slogan è: nessuno deve uscire dalla biblioteca senza aver ottenuto una risposta. Ammetto che a volte, per mettere in pratica questo precetto, occorre barare un po’.
Ne sento delle belle.
I bimbi in età prescolare – o meglio le loro mammine spesso sull’orlo di una crisi di nervi – li sistemo facilmente con Topo Tip, la Pimpa e i dinosauri. Passati i sette anni, mi chiedono soprattutto aiuto per le ricerchino scolastiche: vanno sempre alla grande gli antichi egizi e gli insetti, ma anche gli “altropodi” e gli “anellìdi”. In prima media scoprono il famigerato Stilton o Capitan Mutanda (tutta roba che contribuisce a sviluppare il senso estetico nell’età evolutiva, suppongo). Comunque fra gli zero e i 13-14 anni devo dire che leggono. Cazzate anche, ma leggono. Peccato che alcuni, spavaldi, pretendano di entrare in biblioteca senza togliersi i pattini, ma la loro è fame di cultura che non guarda in faccia niente e nessuno.
Il vuoto arriva con l’adolescenza: se si eccettua il solito drappello di sgallettate che spulciano lo scaffale degli amoretti adolescenziali, a partire dalle scuole superiori smettono di leggere autonomamente e prendono in prestito solo i libri imposti dagli insegnanti. In inverno vanno molto i Visconti dimezzati, i Diari di Anna Frank,  i Bambini col pigiama a righe, i Sergenti nella neve e perfino – quest’anno – Madame Bovary, di cui ho consegnato più di una copia a studentelli costernati che parevano andare al supplizio (e ci andavano davvero, a dover leggere Flaubert a quell’età).
Giorni fa una ragazza di seconda superiore mi chiede:
– Vorrei qualcosa su  (apre un bigliettino e compita) Dickens, col ci kappa.
– Su o di?
(riapre il bigliettino, lo consulta attentamente, poi chiarisce) – Di.
– È per la scuola?
– Sì. La prof ci ha detto di leggere qualcosa di (ancora il bigliettino) Dickens. Una cosa qualunque.
Qualche prof che mi legge si offende se dico che il metodo didattico di quella sua collega mi suscita non poche perplessità?
Comunque cosa potevo fare, dare alla sprovveduta fanciulla allo sbaraglio un David Copperfield? Ma neanche il Circolo Pickwick! Le ho scovato un Canto di Natale illustrato nello scaffale dei ragazzi (però versione integrale) e l’ho mandata a casa in pace.
Un altro, diciottenne in crisi brufolosa, cerca un romanzo sulla vita militare, ma non durante la guerra perché i libri di guerra – dice – li ha letti tutti. Aspe’ che ti interrogo, se li hai letti tutti:
– Anche Comma 22?
– Uhm, no.
Aggiudicato. Mi saprà dire.
Maturanda che vuol prendersi avanti con le tesine:
– Vorrei qualcosa sul simbolismo.
– Quale, in poesia, in arte…
– Ah non so.
Per orientarla le sciorino tutto il nostro posseduto e alla fine opta per il simbolismo in arte, forse anche perché ci sono le figure. Poi però si accontenta di un fascicolo di Art & Dossier (saranno 40 pagine) e vai con Dio anche tu.
La signora che organizza pomeriggi teatrali al circolo anziani è alla ricerca della versione in italiano realizzata da Carlo Goldoni di una commedia dialettale di Giacinto Gallina. Ora, non perché io sia veneziana. E nemmeno perché conosca piuttosto a fondo Goldoni. Ma dico io per una semplice considerazione aritmetica: Goldoni (1707-1793) come potrebbe aver trasposto in italiano una commedia di Gallina (1852-1897)?? È stato uno dei rari casi in cui non sono riuscita ad accontentare una utente. La quale, non convinta, se ne è andata scuotendo la testa e annunciando che avrebbe cercato in qualche altra biblioteca.
E no che non mi annoio!

ps:
– Ma Liala non scrive più?

Questione di feeling

Ieri sera mi sono arresa e ho abbandonato L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon. È inutile: una quarantina di pagine in una settimana sono un segnale evidente di disinteresse. E mi dispiace, perché da questo libro mi aspettavo molto: mi aspettavo una nuova immersione nel postmoderno, mi aspettavo di conoscere un autore considerato fra i predecessori di D.F.Wallace, mi aspettavo che l’incipit – che mi aveva colpito con le sue atmosfere – mantenesse le promesse. Invece ho dovuto constatare che la scrittura di Pynchon non mi parla, non mi dice niente, benché io per avvicinarla mi fossi disposta con le orecchie ben aperte.
Mi dispiace sempre abbandonare un libro, e più ancora un libro considerato importante o in generale un autore universalmente acclamato, e ne ricerco i motivi, che possono essere diversi. A volte capita di voler per forza leggere il libro giusto ma nel momento sbagliato: è il caso in cui la colpa del mancato feeling dipende da me, da fattori personali, da circostanze esterne che condizionano in negativo la mia capacità di ricezione. Può anche capitare che un libro si presenti ostico perché – vai a sapere – sono io che non ci arrivo, non sono all’altezza. Oppure al contrario ho preteso troppo e mi sono fidata di consigli inadatti ai miei gusti o di critiche mercenarie.
Ma spesso il mancato aggancio fra libro e lettore dipende dall’autore stesso, che parla una lingua solo sua e si rivolge solo a se stesso. Si scrive addosso. Ovviamente questo è un criterio quanto mai soggettivo, è una sensazione che il lettore è libero di provare senza sentirsi in dovere di discolparsene. Lo stesso libro ad altri parlerà forte e chiaro e accontenterà le loro aspettative. Questione di gusti, di habitus, di livelli di esperienza e maturità. Questione anche di, per così dire, supporto.
Per esempio, Dante. Non ho avuto fortuna con gli insegnanti, al liceo, cosicché di Dante ho capito la bellezza solo dopo, crescendo da sola.
Viceversa Manzoni non mi è andato giù neanche dopo la scuola (la mia è stata quella nozionistica pre-sessantotto). Manzoni non mi piace perché è zelante, e lo zelo uccide la narrativa.
Altro mostro sacro con cui non parlo è Buzzati. Mi dicono che è un’eresia, ma c’è poco da fare: con Buzzati è un dialogo fra sordi.
E via così.
Da Céline mi aspettavo molto, e mi ha disturbato subito con un senso diffuso di forzatura (cosa che trovo piuttosto puerile).
Proust, che vagheggiavo mi avrebbe scaldata nei lunghi inverni padani, mi ha esasperata per le lungaggini autoreferenziali: diamine, sono una lettrice, non la sua psicoanalista.
Joyce mi spaventa non poco, ma lo sorseggio con cautela e forse la mia umiltà alla lunga avrà successo. Svevo invece è nelle mie corde.
Franzen mi aveva fulminato con Le correzioni ma ultimamente lo avverto freddo e presuntuoso.
Nabokov lo sento indigesto, un altro che parla da dietro un muro o da sopra un pulpito.
Steinbeck lo adoro, Faulkner mi fa sudare.
Roba più spicciola: Tamaro e Mazzantini non le reggo perché ridicole; il fantasy in generale perché noioso; Kundera perché parla in arabo; Baricco perché esala solo fumo; Tiziano Scarpa perché insincero; di Camilleri diffido perché scrive troppo; anche Simenon ha scritto tanto, ma sapeva come fare a non annoiare il lettore. Infatti lo leggo da sempre e non mi stufa mai.
Comunque ieri sera ho aperto Americana, di DeLillo, e per il momento mi sembra che potremmo intenderci, anche se siamo ancora ai preliminari. Purché non durino troppo…