Lettere dal fronte 70 anni dopo

Cara signora o signorina Melusina,
hanno appena visitato il vostro salone charmant letterario e con la mia grande sorpresa j’ vi hanno trovato lettere che senza dubbio appartengono al mio nonno Damien Lafouffe. Lo stile, il carattere e gli eventi qu’ dice sono completamente loro i suoi, e m’ hanno dato un’emozione inexprimable. Non li chiedo de quelle façon ne siete entrati in possesso, quello sarebbe indiscreto. E tuttavia vi ringrazio d’ avere voluto contribuire a fare meglio conoscere l’ figura incomparabile di quest’uomo leggendario. J’ avete il grande piacere di potere darvi notizie al mio giro sugli eventi seguiti la guerra che, come tutti lo sa e grazie alla clairvoyance dura d’ un’impugnatura di soldati, è terminata in parità perfetta.
Quasi immediatamente, il mio nonno s’ è sistemato nella vedova Clicquot, proprietaria d’ una piccola vigna, e c’ e in questo modo qu’ ha costruito la sua fortuna. Ora, a l’ età di 91 anni e dopo molte vedovanza, continua a lavorare come un giovane ragazzo, in s’ occupando della sua intrapresa vinicola e della sua catena di bed and breakfast. Ha anche partecipato alla ricostruzione del paese dopo la guerra, mettendo al mondo 28 bambini, il più giovane n’ avendo soltanto 3 anni. Sono, infatti, la sua nipote numero 14. Egli n’ a non ancora terminato d’ scrivere il suo romanzo autobiographique, parce qu’ dice, a ragione, qu’ egli n’ a non ancora terminato di vivere la sua vita. Poiché vedete, tutta la sua vita non fa se non di confermare il suo atteggiamento alla saggezza ed alla generosità.
Sarei molto onorato di riceverli alla mia modesta fermo in Bretagna, e con tutta la mia famiglia vorrei dimostrarvi tangiblement il nostro riconoscimento.

Permette di abbracciarsi affettuosamente in l’ attesa di conoscerli personalmente.
Vostra

Arlette Lafouffe, mariée Fripon

poscrittum: volete scusare i miei difetti. Non conosco l’ italiano e dunque mi sono rimessa nel traduttore Google.

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Lettere dal fronte .5

Lettere dal fronte .5

Carissima sorella,
questa è sicuramente l’ultima lettera che ti scriverò, e forse non ti arriverà mai. Poco fa abbiamo udito da lontano il rombo di un aereo, il primo dopo mesi, e abbiamo capito che è la fine. Siamo corsi tutti al riparo sotto le brande con l’elmetto in testa e qualche sacchetto di sabbia intorno, difese ridicole rispetto ai danni del bombardamento che ci aspetta. Non sappiamo se l’aereo sia dei nostri o dei loro; in ogni caso quando sgancerà ci prenderà tutti senza distinzione. Ho solo il tempo per mandare l’ultimo saluto a te e a tutti; vi voglio bene, mi siete mancati e morirò con il rimpianto di non aver fatto qualcosa di bello per tutti voi. Abbraccia la mamma, il papà, gli zii, i prozii, i nonni, i fratelli, le sorelle, i cugini, i vicini di casa, i miei vecchi amici riformati o già reduci, il farmacista, il vinaio, la panettiera, la mia maestra, le monache dell’asilo, il curato con la perpetua e il sacrestano, Ermeline col marito gobbetto, il maresciallo della gendarmeria, la locandiera della Vache qui rit e tutti quelli che mi conoscono.
Eccolo che si avvicina, ormai ci è quasi sopra. Non piangete per me: la vita è bella.
Addio addio addio.

Macché! Non era mica un bombardiere. Era un aereoplanino sbilenco che zigzagava un po’ ubriaco lanciando volantini sopra il paese, sopra i crinali da muli della collina e sopra le nostre trincee. Ha fatto due o tre volteggi allegri e poi si è allontanato, lasciando il terreno cosparso di foglietti svolazzanti che siamo subito corsi a raccogliere. C’era scritto “Guerra finita 0 a 0! Rompete le righe! Tutti a casa!”
Noi abbiamo cominciato a saltare di gioia come scimmie, ma il tenente ha voluto avere la conferma ufficiale e ha chiamato il comando. Noi tutti zitti e tesissimi ad aspettare il responso. Quando è tornato gli abbiamo chiesto: “Con chi ha parlato?” E lui, perplesso: “Con la donna dei cessi delle pulizie. Dice che è rimasta lei sola a riordinare, gli altri sono tutti di sotto al bar del quartier generale a far casino baldoria”. Era tutto vero, è proprio finita, e nessuno ha perso, ma tutti noi abbiamo vinto contro la guerra. Infatti dalla valle, la nostra di qua e la loro di là, arrivava il suono delle campane a festa e il fumo dei barbecue che i paesani hanno subito cominciato ad allestire.
Allora è saltato il primo tappo e non ci siamo più trattenuti. Brandendo ciascuno un paio di bottiglie di Chardonnay, abbiamo scavalcato il filo spinato e siamo corsi incontro agli altri, anche loro forniti di vino e gasati come noi, e lì in mezzo, nella terra non più di nessuno ma di tutti, ci siamo abbracciati, ubriacati e scambiati le maglie. Poi abbiamo giocato la partita del secolo ma eravamo così fuori di melone che ogni due minuti dovevamo bere un sorso per riprendere fiato, e nessuno è riuscito a fare un tiro in porta che fosse uno. Coerenti fino all’ultimo, e amici per sempre. Ti confesso: al momento di salutarci avevamo tutti la balla triste ed eravamo già pieni di nostalgia, di voglia di rivederci presto.

Ora stiamo sbaraccando e presto scenderemo in paese dove ci stanno preparando un pranzo interminabile: sembra che metteranno dei tavoli lungo tutta la strada principale e si mangerà, si berrà e si ballerà fino a notte fonda. Poi per la prima volta in tanti mesi dormiremo in un letto vero, e personalmente non avrò che l’imbarazzo di scegliere quale. Sai cosa ti dico? Che mi sento giovane come se avessi vent’anni, e invece ne ho quasi venticinque, non è incredibile?
Abbraccia di nuovo la mamma, il papà, gli zii, i prozii,i nonni, i fratelli, le sorelle, i cugini, i vicini di casa, i miei vecchi amici riformati o già reduci, il farmacista, il vinaio, la panettiera, la mia maestra, le monache dell’asilo, il curato con la perpetua e il sacrestano, Ermeline col marito gobbetto, il maresciallo della gendarmeria, la locandiera della Vache qui rit e tutti quelli che mi conoscono.
Digli che sta tornando, tutto intero e in ottima forma, il loro affezionatissimo
Damien

poscrittum: a ripensarci, credo che mi fermerò in paese ancora qualche giorno. Mi sto lavorando Sono in trattative con una certa vedova Clicquot per un suo piccolo vigneto sul quale ho un mio progettino. Se va tutto come dico io, sarete fieri di me.

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Lettere dal fronte 70 anni dopo

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Cara sorella,
ieri abbiamo ricevuto una visita. A dorso di mulo, con taccuino e macchina fotografica, è arrivato fin quassù un giornalista, uno di quegli inviati di guerra che vanno in giro come posseduti dalla parossistica missione di cacciare il naso raccogliere testimonianze. Subito ci siamo innervositi. “Oh no – ci siamo detti – questo si ferma a pranzo di sicuro”. Perché, capisci, noi avevamo i polli contati, uno per ciascuno, e Pierrot li stava già facendo girare tutti e diciassette sullo spiedo. Per fortuna il tipo aveva le sue razioni d’emergenza: gallette muffe e mezza fiasca di orzo annacquato, così ci siamo messi tranquilli.
Lui si è messo invece a caccia di notizie, esaminando con aria stoicamente partecipe tutti gli aspetti della nostra routine e dimostrando di non capire un cazzo prendere lucciole per lanterne a ogni piè sospinto.
Quando mi ha visto piangere desolatamente, ha annotato sul suo taccuino che i lunghi mesi di isolamento hanno minato irrimediabilmente il controllo emotivo dei soggetti più fragili. Invece stavo sbucciando un secchio di cipolle, e Dio sa se non mi stavo già pregustando la soupe à l’oignon della cena
Quando ha visto Tonton e Fifi affacciati alla trincea a sbracciarsi rivolti agli altri di là, ha preso nota che le munizioni sono ormai finite ma la determinazione di combattere ha trovato un’altra strada, quella dell’insulto. Invece quelli si stavano raccontando barzellette da caserma a gesti e le loro non erano imprecazioni guerresche ma sani sghignazzi da osteria.
Quando ha visto il tenente steso sulla branda con una benda sugli occhi, ha scritto un poema sul nostro comandante che era stato ferito alla testa e rischiava di perdere la vista ma sopportava eroicamente la menomazione rifiutando di essere trasferito. Invece stava smaltendo il Calvados della sera prima, quando aveva fatto le ore piccole giocando a poker con quei tre bari di Dodo, Momo e Jacquot.
Poi si è impuntato a voler prendere delle fotografie, e questo ci ha dato parecchio fastidio. Gli interessavano particolarmente le latrine, il che ci ha fatto capire che era proprio un pervertito. Insomma, non lo volevamo più fra i piedi. Così siamo andati a svegliare il tenente e gli abbiamo detto “Faccia qualcosa lei, perché qua c’è uno che ci sta sputtanando infamando”. Il nostro tenente è un grand’uomo, uno che sa sempre come liberarsi dagli impicci anche quando è ubriaco indisposto (per dire, dal carcere di Nantes è evaso due volte, e da quello di Tolosa tre). Al giornalista ha fatto un bel discorso. Gli ha detto che qua siamo in zona di guerra, in una postazione di altissimo valore tattico e strategico, e che qualsiasi fuga di notizie avrebbe compromesso irreparabilmente non solo la nostra incolumità ma le sorti stesse della guerra, e che pertanto lui si trovava nella scomodissima posizione di rischiare di essere passato per le armi immediatamente e sul posto per alto tradimento, a meno di non girare le chiappe e sparire alla nostra vista entro un minuto esatto, ma non prima di aver consegnato gli appunti e il rollino fotografico. Nel frattempo, Philou dava una pacca sul deretano del mulo, cosicché il povero inviato non solo se l’è filata senza farsi pregare, ma ha anche dovuto scapicollarglisi dietro (inutilmente) giù per la discesa con rovinosi scivoloni e cadute.
E noi ci siamo finalmente messi a tavola in santa pace. Non chiediamo altro.
Un fraterno abbraccio dal tuo affezionato

Damien

poscrittum: no che non ci sono rimasto male se Ermeline ha deciso di rompere il fidanzamento con me e di sposare Perpignol. Lui me lo ricordo, è quel gobbetto che fa il calzolaio di fianco alle pompe funebri. Ma questa Ermeline, scusa se te lo chiedo, chi è?

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Cara sorella,
la novità è che l’inverno sembra finito e qui è ora di pulizie di primavera. Abbiamo spazzato tutti i cunicoli, dato aria alle brande, cosparso gli angoli di polvere antipulci, fatto il bucato generale e alla fine ci siamo lavati e rasati anche noi. Io ne avevo meno bisogno degli altri perché la vedova Norbert continua a mettermi a disposizione il suo mastello, e mi lava anche i panni; così quando abbiamo steso i nostri stracci sul filo spinato e li abbiamo confrontati con quelli degli altri, di là dalla terra di nessuno, abbiamo fatto la nostra discreta figura. In altre parole, siamo pari con loro anche in fatto di pezze al culo.
Anche quelli di là fanno le pulizie e il bucato. Per la verità fanno tutte le cose che facciamo noi, il che conferma che siamo tutti nella stessa merda nello stesso brodo.
Siamo pari in tutto. Diciassette noi, diciassette loro. Avanzi di galera noi, avanzi di galera loro. Giù dal loro versante della collina – questa collina dove la guerra si è bloccata in un eterno pareggio – hanno il loro paese di vedove tale quale il nostro. Le pulci, uguale. L’odore di zuppa, uguale. Nessuna intenzione seria di armare baionette, uguale. Tiriamo a campare senza darci fastidio, abbiamo lo stesso identico sano obiettivo di restare vivi, e perciò c’è questo tacito accordo di lasciare le cose come stanno.
È cominciato un giorno di nebbione che noi qua si mugugnava per la noia, e il tenente ha fatto metter fuori una bandierina bianca per vedere di muovere un po’ le acque stagnanti. Beh, non ci crederai: nello stesso momento una bandierina bianca uguale identica è spuntata da sopra l’altra trincea. I due tenenti si sono incontrati al centro esatto della terra di nessuno e si sono messi a confabulare tra loro, prima un po’ freddi e circospetti, poi visibilmente sempre più rilassati, tanto che a un certo punto hanno fatto portare un tavolino e due sgabelli e si sono messi comodi a scambiarsi pareri sulle cartine tattiche. Dopo un altro po’, siccome la cosa andava per le lunghe, hanno ordinato anche grappa e bicchieri, e la conversazione ad alto livello è diventata ancora più cordiale.
Noi li spiavamo dalla nostra trincea, gli altri dalla loro, ma nessuno sentiva di cosa parlavano; dovevano essere argomenti divertenti perché ogni due frasi si facevano delle gran risate e si davano vigorose pacche sulle ginocchia. Quei due si capivano. Allora abbiamo pensato che potevamo capirci anche noi, e uno dopo l’altro, prima timidamente poi con crescente baldanza, siamo usciti e abbiamo incontrato gli altri che ovviamente avevano avuto la stessa idea.
È stato così che è cominciato il torneo di pallone. Adesso giochiamo tutte le domeniche, mentre i tenenti, tanto per salvare la faccia, fanno il loro briefing settimanale a bordo campo. Le nostre partite sono sedici contro sedici, non c’è arbitro e l’unica regola è il pareggio obbligatorio. Se alla fine della partita una squadra è in vantaggio, rimette le cose a posto con un autogol. Così abbiamo un buon motivo per rigiocarcela la domenica dopo. Dimmi se questo non è buon senso.

Ora ti saluto perché per cena c’era il cassoulet e sento il bisogno di fare due passi prima di andare a dormire.
Il tuo sempre sano e contento
Damien dal fronte

poscrittum: digli a tuo suocero Gaston che mi fa piacere che sia così arzillo alla sua età, però se mi racconti ancora che ti tocca il culo manca di rispetto, quando torno gli metto la cascara nel caffelatte così vedrai come gli passano i bollori.

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Cara sorella,
qui sempre tutto tranquillo. Stamattina, dopo colazione, sono sceso in paese per sgranchirmi le gambe; andare, è tutta discesa, è tornare che si fatica, ma così smaltisco un po’ di chili e mi preparo per il torneo di calcio, del quale ti parlerò la prossima volta.
Giù in paese ho una mia clientela fissa, un mio giro di vedove che mi tengono molto impegnato. Quando passo per la strada principale (l’unica peraltro) fischiettando con le mani in tasca, eccole che si affacciano una dopo l’altra e mi ricordano gli appuntamenti:
“Damien, per quel cancelletto del pollaio?”
“Domani senza fallo, dolcezza; contaci”.
“Damien, ho il tetto che perde!”
“Di nuovo, povera micina? Se finisco presto, vengo in giornata”.
“Damien, il tavolo traballa!”
“Lo rimetto a posto io, non crucciarti, cuoricino mio. Facciamo venerdì, va bene?”
“Damien, la legna è quasi finita. Quando vieni a tagliarne un altro po’?”
“Non prima di giovedì, temo. Ce la fai a resistere, tesoro?”
Le mie vedove sono tutte così: impazienti. E io cerco di accontentarle tutte senza suscitare gelosie. Ma sono anche generose, devo dire. Non mi lasciano andar via senza riempirmi di regali: marmellate, salami, noci, pollastri e altri doni in natura.
Oggi avevo in agenda il camino della vedova Norbert. C’era un vecchio nido ammuffito proprio in cima, mi sono bastati cinque minuti, e poi avessi visto come tirava. Abbiamo acceso un bel fuoco, riempito un mastello di acqua calda e abbiamo ho fatto il bagno insieme da solo.
Domani sistemo il cancelletto del pollaio della vedova Clémence. La vedova Clémence non è proprio sicura di essere vedova; in realtà, suo marito è uscito a comprare le sigarette un bel giorno prima della guerra, e non è ancora tornato. A lei fa comodo così perché spera di ottenere il sussidio, e intanto si comporta da vedova a tutti gli effetti. È quella che mi fa lo zabaione, per spiegarci.
Alle vedove mi dedico la mattina, perché il pomeriggio preferisco farmi un pisolino nella mia branda e dopo magari scrivere il mio romanzo. Non ho ancora deciso se metterci dentro anche le vedove. La scena del mastello però mi sembra buona: pensavo di metterla addirittura in copertina, così, per invogliare il lettore.
Come vedi, le mie giornate sono laboriose e varie; mi arrangio bene a contrastare la noia di questa guerra bloccata, in stallo, come dice il tenente che ha studiato, o in pareggio, come dico io, che sono
il tuo affezionato fratello dal fronte
Damien

poscrittum: sono molto contento delle notizie che mi dai, in particolare mi congratulo con il prozio Eustace per il ritrovamento della sua dentiera e con la cugina Philomène per la sua nuova gravidanza (però, scusa, non era vedova anche lei?)

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Lettere dal fronte 70 anni dopo

Lettere dal fronte .1

Cara sorella,
anzitutto non allarmarti se scrivo su carta intestata del Tribunale. Non mi sono cacciato in nessun nuovo pasticcio, è solo un regalo che ho ricevuto dalla vedova Maladroit (un cognome molto imbarazzante per un notaio, non trovi?) e che mi fa molto comodo. Lui poverino è morto la settimana scorsa per cancrena diabetica a un piede, e negli ultimi tempi gli avevo portato la morfina che era l’unica cosa da fare. Noi quassù in trincea di morfina ne abbiamo in quantità e devo dire che fortunatamente non ci serve. Stiamo tutti bene. Qualche cazzotto quando si è un po’ ubriachi, tutt’al più: niente che non si aggiusti con un impacco di neve sui lividi, e qui abbiamo in quantità anche la neve.
Il corso di infermiere che mi hanno fatto fare prima di spedirmi al fronte è stato finora abbastanza inutile: qua da mesi non succede niente e nessuno ha bisogno di me, perciò ho chiesto di aiutare un po’ in cucina per tenermi occupato. Il guaio è che mentre aiuto non mi trattengo dall’assaggiare, così sto ingrassando. Qua si mangia meglio che in prigione, te lo assicuro: ho fatto un ottimo affare a offrirmi volontario, così mi hanno messo fuori e mi hanno dato due stracci, qualche lezione di pronto soccorso e la libertà di salvarmi le chiappe standomene ben riparato dentro una trincea.
Ho talmente tanto tempo libero che ti voglio comunicare con soddisfazione che ho cominciato a scrivere un romanzo, e sono già a buon punto anche grazie alla carta intestata della vedova Maladroit. Sarà un romanzo pornoautobiografico ma anche tutto inventato, e farà molto ridere ma anche riflettere. Il tenente ha letto qualche pagina e dice che ho la faccia tosta necessaria stoffa.
Il nemico tace. Sta di là dalla terra di nessuno, inzaccherato e trincerato come noi, e come noi non ha niente da fare perché ordini non ne arrivano. Siamo bloccati da mesi, in attesa che i generali si mettano d’accordo su quali siano i criteri per lanciare un attacco di sorpresa. Per sorprendere il nemico bisogna attaccare quando meno se lo aspetta, per esempio se c’è nebbia che non si vede a un passo, o neve che ci affondi fino alle ascelle; non se lo aspetta neanche di notte, ma noi di notte dormiamo; né in pieno giorno con la migliore visibilità perché sarebbe da coglioni suicidi e noi mica ci teniamo a morire così facilmente. E allora, per un motivo o per l’altro, l’ora X non arriva mai e noi continuiamo a stare qua, a giocare a carte, a fraternizzare con gli abitanti del paese giù a valle e a pelare patate per il gratin dauphinois.
Ora mi interrompo perché è arrivato il mulo della posta e voglio consegnargli questa lettera, ma domani ti scrivo ancora.
Io qui tutto bene e così spero di te.
tuo fratello al fronte
Damien

poscrittum: mi dispiace che mi scrivi che è morta la vecchia Alphonsine, la nonna del cognato del cugino del canonico, ma non credo di averla mai conosciuta. L’unica Alphonsine che mi ricordo è un bel pezzo di figliola una distinta signorina di Marsiglia che mi aveva giurato di avere ventidue anni ma secondo me erano cinque o sei di meno. E forse non si chiamava nemmeno Alphonsine.

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