Hotel du Lac

Il libro che ho presentato ieri sera in biblioteca al pubblico dei circa trenta Lettori Assatanati del Venerdì è dell’inglese Anita Brookner, oggi ottantaquattrenne, una storica e critica dell’arte che ha insegnato a lungo all’università di Cambridge. È però anche una valente scrittrice, più nota nei Paesi anglofoni che in Italia, ed è stata paragonata a nomi del calibro di Henry James, Jane Austen e Virginia Woolf. Con questo romanzo, Hotel du lac, del 1984, ha vinto il massimo premio letterario d’Inghilterra, il Booker Prize, che equivale al nostro Campiello o allo Strega.

L’ho letto per due motivi. Anzitutto mi è stato consigliato da mia sorella (sì, la cito spesso, ma converrete che ha un suo perché), la quale come lettrice è ancora più assatanata di me e poi legge in lingua originale ed è anche una meticolosa conoscitrice di Virginia Woolf, che anche questo ha un suo perché. Il secondo motivo è che il titolo suggerisce una vicenda ambientata in un albergo. L’idea di un albergo mi interessava perché è uno di quei posti, come chessò un condominio, un treno, una sala d’aspetto eccetera, anche solo una banale coda a uno sportello, in cui va e viene un’umanità varia, fatta di sconosciuti di passaggio che magari non hanno motivo di parlarsi ma che portano, ognuno, una propria storia nascosta. Quindi un ambiente che si presta moltissimo per uno studio di caratteri, un ambiente che molti scrittori amano riprodurre perché consente loro di mettere in scena molte storie diverse all’interno di un’unica storia, con un filo conduttore non troppo vincolante, che lascia ampio spazio all’immaginazione e alla riflessione.
La vicenda dunque si svolge in un vecchio e distinto albergo sul lago di Ginevra, dallo stile aristocratico e forse appena appena un po’ decaduto, ma sempre frequentato da persone altolocate in cerca di un soggiorno tranquillo e confortevole. La stagione è l’inizio dell’autunno, quando ormai i villeggianti più giovani e animati sono ripartiti e rimangono solo ospiti di una certa età, ovviamente facoltosi. In questo albergo arriva Edith, scrittrice quasi quarantenne, una figura dimessa, riservata, malinconica, per un soggiorno che potremmo definire coatto: non è una vera vacanza, bensì una specie di esilio temporaneo cui è stata costretta in seguito a uno scandalo di cui è stata al centro, e che verrà rivelato solo intorno alla metà del romanzo. Edith scrive storie romantiche e ha un buon successo; si è scelta uno pseudonimo le cui iniziali sono V, come Virginia, e W, come Woolf. Anche nell’aspetto somiglia alla grande scrittrice, glielo dicono tutti, e questo particolare ha un suo retroscena curioso nella realtà perché la stessa Brookner, come dicevo, è stata paragonata a Virginia Woolf, e devo dire che sono piuttosto d’accordo.
Questa Edith è un’eroina un po’ fuori moda, se vogliamo, di quelle in gonna di tweed e cardigan; una donna che può ormai dirsi quasi una zitella, che non ha avuto molta fortuna con gli uomini, che ha una relazione segreta con un uomo sposato che non lascerà mai sua moglie, che si aspetta dalle amicizie qualcosa di più che parole e gesti convenzionali. Una donna che vive in penombra, abituata più a subire che a essere protagonista. E in questo momento della sua vita si trova, volente o nolente, nella condizione di doversi tenere ancora più in disparte, e di questa quarantena forzata approfitta per tentare di completare il suo ultimo romanzo ma anche di sottoporre ad autocritica la sua esistenza sull’orlo del fallimento.
All’albergo si trova obbligata dalla buona educazione a frequentare gli altri ospiti. I personaggi più importanti e meglio delineati sono tutti femminili, e la loro funzione è principalmente quella di esaltare il confronto con la protagonista perché tutti, in un modo o nell’altro, rappresentano un mondo di ricchezza, superficialità, vanità, camuffate da successo.
C’è una vecchia nobildonna completamente sorda e per nulla socievole, Mme de Bonneuil: una donna anziana, molto piccola, con la faccia simile a quella di un bulldog, e gambe così arcuate che sembrava ondeggiare da una parte e dall’altra nello sforzo di tenersi in piedi.
Un’altra, più giovane, dall’aspetto affascinante, si chiama Monica: una donna alta, di straordinaria magrezza, con la testa stretta e ciondolante di un uccellino. In lei tutto sembrava esagerato: la statura, la lunghezza delle sue straordinarie dita, la voce imperiosa, gli enormi occhi color ostrica dietro le lenti scure degli occhiali.
Ci sono due donne inseparabili, madre e figlia, Iris e Jennifer, che solo da vicino rivelano la loro vera età: quasi ottanta la prima e verso i quaranta la seconda, ma entrambe giocano a fare le sirene, sono belle, ricche, lussuosamente vestite e ingioiellate, sempre al centro dell’attenzione, ostentando la loro familiarità con gli ambienti più raffinati.
All’inizio Edith è in imbarazzo nei confronti di queste donne così diverse da lei, ma poco a poco capisce che ognuna di loro è una maschera. La nobildonna è una vecchia sola, trascurata dal figlio e dalla nuora e isolata dal mondo anche a causa della sua sordità. La bella donna magra che sembra una flessuosa danzatrice nasconde una storia di nevrosi e frustrazioni. Madre e figlia, così incantevoli, sono in realtà due persone arroganti, superficiali e meschine.
Nel cast vi sono anche degli uomini, ma sono delineati meno acutamente e in fondo si somigliano un po’ tutti. L’autrice, e questo secondo me è un suo limite, li ha disegnati secondo lo stereotipo del maschio egoista che non capisce i misteri della sensibilità femminile e che bada prima di tutto alla propria immagine di uomo arrivato e rispettabile.

Il romanzo si basa quasi tutto su questa analisi di caratteri. C’è pochissima azione, a parte l’antefatto dello scandalo che qui non rivelerò per rispetto di chi volesse scoprirlo da solo; viceversa c’è molta atmosfera, ed è questo che me lo ha fatto apprezzare. Ho anche apprezzato il finale, in cui la protagonista sembra aver preso maggiore coscienza di sé e all’ultimo momento riuscirà ad evitare  un altro ennesimo errore.
È una storia in cui l’amore ha il suo peso ma per fortuna non è trattato con eccessivo sentimentalismo, altrimenti non avrei letto fino in fondo. La mano femminile si avverte molto proprio nella capacità analitica e descrittiva e nell’eleganza raffinata dello stile. Un romanzo con un suo fascino, che può fare compagnia senza deprimere, adatto però più a un pubblico femminile.

La calata dei barbari e il calo della cultura

Ne parla, pur senza esprimere nulla che non sia già evidente a chi ha un minimo di sale in zucca, Pietro Citati sul Corriere cultura di oggi.
A margine, mi permetto di dissentire – ma a puro titolo personale, e anche a nome di alcune casalinghe di Voghera come me – sulla scelta dei due libri portati a esempio di letteratura alta eppure di successo degli ormai arcaici anni settanta. L’insostenibile leggerezza dell’essere l’ho trovato insostenibile e presuntuoso; l’altro, Le nozze di Cadmo e Armonia, dopo un avvio entusiasmante, mi ha stremata.
Inoltre a Kafka aggiungerei, per dirne uno, Steinbeck.
Per fortuna, a scuola fanno leggere Calvino: tutto sta a cosa ci capiscono.

 ps: secondo me, un pezzo come questo di Citati avrebbe potuto scriverlo, rendendolo anche più accattivante ed esaustivo, un qualunque blogger di medio livello.

Il trauma del trapasso

No, non si tratta di un caso di morte violenta. Mi riferisco a quello spinoso periodo di transizione in cui si trova il lettore quando, dopo aver terminato un libro, deve scegliere quello successivo.
Ieri sera ho finito L’Opera galleggiante, di John Barth. Il mio primo libro di questo autore, che devo dire mi è piaciuto e mi ha lasciato la voglia di leggerne altri. Non intendo farne qui una recensione accurata; mi limito a buttar giù qualche aggettivo tanto per fissare le idee. Stravagante. Minuzioso. Paradossale. Comunque interessante proprio perché l’ho sentito lontano dal romanzo standard. Ecco, ora mi è venuto l’aggettivo giusto e onnicomprensivo: intellettuale. O cerebrale? Boh. Tanto non è di questo che volevo parlare, se non per dire che è stata una lettura goduta, che valeva la pena, e che ciò mi rende alquanto imbarazzante la scelta della prossima.
Mio fratello, accanito lettore soprattutto nel métro di Parigi, ha un suo dettato in proposito: un libro serio/un libro di cacca/un libro serio/un libro di cacca, e via così. In breve, raccomanda l’alternanza. E la pratica, anche, perché dopo uno Steinbeck in lingua originale passa a uno Jacovitti d’annata, e ci si trova benissimo.
Io ho qualche anno più di lui, e più passa il tempo meno mi sento disposta a sprecarne in letture di cacca. Ogni anno in più sono venti o trenta libri in meno che potrò leggere, e se ci penso mi deprimo orribilmente.
Sicché ieri sera chiudo lentamente, quasi sacralmente, l’Opera galleggiante, poi mi prendo qualche minuto di silenzio interiore (chiudo anche gli occhi) come per lasciar decantare la chiusa e le ultime sensazioni che mi ha insinuato e che ora, nei prossimi giorni, sedimenteranno le une sulle altre fino a rivelarmi pian piano l’entità del segno che quel libro mi ha lasciato. Ma per intanto mi trovo senza un libro da leggere che mi assicuri un pari livello di soddisfazione, o perlomeno non mi procuri una delusione. Allora apro quello che avrebbe il diritto di precedenza sugli altri perché è la lettura consigliata dal Gruppo Lettori della biblioteca per il mese di febbraio: Ho servito il Re d’Inghilterra, del per me sconosciuto Bohumil Hrabal (talmente sconosciuto che me lo facevo arabo o libanese). Ora, non so come dirlo agli amici del Gruppo Lettori, ma l’approccio non è stato per niente invitante. D’accordo che ho letto troppo poche pagine, ma se già dall’inizio mi infastidisce una punteggiatura che sembra messa per far dispetto direi che non si mette tanto bene.
Ok, ho ancora tanto di quel DFW da leggere che potrei dirmi a posto per il resto della mia vita, ma ogni tanto bisogna anche cambiare. Ho un paio di Franzen sul comodino, ma Franzen non mi ammalia più da quando ho letto qualcosa che me lo ha fatto giudicare un gran presuntuoso. Ho circa 800 e-book nel kindle, lì sì che ci sono alla rinfusa libri seri e libri di cacca, e temo che finirà proprio così: un’altra serata persa in uno zapping scellerato e inconcludente.
Insomma, mi serve qualcosa che non mi faccia rimpiangere Barth: voi cosa mi consigliate di leggere?

Edit: nel frattempo ho cominciato Come diventare se stessi, di Lipsky e Wallace (sì, ci sono ricascata, ma che bello!)

Perplessità in biblioteca

Confusione
Utente assidua ultrasettantenne, che legge solo thriller e polizieschi ma in quantità, mi chiede urbanamente, per la nipote che studia:
“Vorrei Orgoglio e pregiudizio di Jane Eyre”.
Orgoglio e pregiudizio o Jane Eyre?
Orgoglio e pregiudizio di Jane Eyre”.
Orgoglio e pregiudizio è di Jane Austen – la avverto.
“Ah sì? Mi sarò confusa. Ma allora Jane Eyre cos’ha scritto?”

Apparenze
Mammina volonterosa con pargoletto quattro-cinquenne mi chiede La festa dei pigmei.
“Forse intendeva La foresta dei pigmei di Isabel Allende?”
“Ah sì, volevo dire la foresta!”
Del resto una rapida ricerca nel catalogo e poi anche in ibs mi conferma che non esiste un libro con il titolo che dice lei. Le vado dunque a prendere il libro giusto, ma quando lo prende in mano la costernazione si dipinge sul suo viso:
“Ma non è una storia per bambini?? Sa, dal titolo…”
Li ho dirottati su una storia dei Puffi, che sono come pigmei ma blù, e poi fanno un sacco di feste nella loro foresta.

Dilemma
La Tribù dei Lettori della biblioteca, reduci dallo spasso del Nobel secondo noi, si è inventata un’altra carnevalata: una serata dedicata ai libri da S-consigliare. Ciascuno presenti un libro acclamato che secondo lui è una bufala e lo stronchi senza pietà. Divertimento assicurato. Il guaio è che i libri che non mi piacciono entro le prime 50 pagine io li mollo senza finirli, quindi con quali argomentazioni potrei stroncare, chessò, City di Baricco o un qualunque Paasilinna o La solitudine dei numeri primi eccè eccè eccè? Solo barando di brutto, temo.
Però non credo di avere tutta quella faccia tosta, per cui mi sa che stavolta passo.

Questione di feeling

Ieri sera mi sono arresa e ho abbandonato L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon. È inutile: una quarantina di pagine in una settimana sono un segnale evidente di disinteresse. E mi dispiace, perché da questo libro mi aspettavo molto: mi aspettavo una nuova immersione nel postmoderno, mi aspettavo di conoscere un autore considerato fra i predecessori di D.F.Wallace, mi aspettavo che l’incipit – che mi aveva colpito con le sue atmosfere – mantenesse le promesse. Invece ho dovuto constatare che la scrittura di Pynchon non mi parla, non mi dice niente, benché io per avvicinarla mi fossi disposta con le orecchie ben aperte.
Mi dispiace sempre abbandonare un libro, e più ancora un libro considerato importante o in generale un autore universalmente acclamato, e ne ricerco i motivi, che possono essere diversi. A volte capita di voler per forza leggere il libro giusto ma nel momento sbagliato: è il caso in cui la colpa del mancato feeling dipende da me, da fattori personali, da circostanze esterne che condizionano in negativo la mia capacità di ricezione. Può anche capitare che un libro si presenti ostico perché – vai a sapere – sono io che non ci arrivo, non sono all’altezza. Oppure al contrario ho preteso troppo e mi sono fidata di consigli inadatti ai miei gusti o di critiche mercenarie.
Ma spesso il mancato aggancio fra libro e lettore dipende dall’autore stesso, che parla una lingua solo sua e si rivolge solo a se stesso. Si scrive addosso. Ovviamente questo è un criterio quanto mai soggettivo, è una sensazione che il lettore è libero di provare senza sentirsi in dovere di discolparsene. Lo stesso libro ad altri parlerà forte e chiaro e accontenterà le loro aspettative. Questione di gusti, di habitus, di livelli di esperienza e maturità. Questione anche di, per così dire, supporto.
Per esempio, Dante. Non ho avuto fortuna con gli insegnanti, al liceo, cosicché di Dante ho capito la bellezza solo dopo, crescendo da sola.
Viceversa Manzoni non mi è andato giù neanche dopo la scuola (la mia è stata quella nozionistica pre-sessantotto). Manzoni non mi piace perché è zelante, e lo zelo uccide la narrativa.
Altro mostro sacro con cui non parlo è Buzzati. Mi dicono che è un’eresia, ma c’è poco da fare: con Buzzati è un dialogo fra sordi.
E via così.
Da Céline mi aspettavo molto, e mi ha disturbato subito con un senso diffuso di forzatura (cosa che trovo piuttosto puerile).
Proust, che vagheggiavo mi avrebbe scaldata nei lunghi inverni padani, mi ha esasperata per le lungaggini autoreferenziali: diamine, sono una lettrice, non la sua psicoanalista.
Joyce mi spaventa non poco, ma lo sorseggio con cautela e forse la mia umiltà alla lunga avrà successo. Svevo invece è nelle mie corde.
Franzen mi aveva fulminato con Le correzioni ma ultimamente lo avverto freddo e presuntuoso.
Nabokov lo sento indigesto, un altro che parla da dietro un muro o da sopra un pulpito.
Steinbeck lo adoro, Faulkner mi fa sudare.
Roba più spicciola: Tamaro e Mazzantini non le reggo perché ridicole; il fantasy in generale perché noioso; Kundera perché parla in arabo; Baricco perché esala solo fumo; Tiziano Scarpa perché insincero; di Camilleri diffido perché scrive troppo; anche Simenon ha scritto tanto, ma sapeva come fare a non annoiare il lettore. Infatti lo leggo da sempre e non mi stufa mai.
Comunque ieri sera ho aperto Americana, di DeLillo, e per il momento mi sembra che potremmo intenderci, anche se siamo ancora ai preliminari. Purché non durino troppo…

2011: promossi e bocciati

Il mio 2011 di lettrice è stato caratterizzato da due fatti: il primo è che, per motivi tristissimi – sui quali sorvolo ché è meglio – contiene un buco di alcuni mesi durante i quali è già tanto se sono riuscita a leggere o rileggere il caro, vecchio e terapeutico Asimov; il secondo, che per quel che mi riguarda si è realizzato il sorpasso delle letture digitali su quelle tradizionali. Già nell’autunno del 2010 mi ero provvista di e-reader, spendendo i soldi più intelligenti degli ultimi cinque anni, e da allora la mia disponibilità di letture si è ingigantita, oltre a essere immensamente aumentata la comodità di leggere. Nota bene che in precedenza ero stata una tenace assertrice della superiorità della carta e dell’inchiostro, ma una rivelazione sulla via di Amazon mi ha illuminata, e la mia conversione è stata felice e convinta. Poi, dico, riconsiderare le proprie convinzioni e ammettere che poteva anche trattarsi di pregiudizi un po’ sclerotici è sempre cosa buona e salutare. Un po’ per volta ho accumulato un posseduto in e-book che mai mi sarei potuta permettere in carta rilegata, e me lo posso portar dietro dove mi pare: un’intera biblioteca in borsa, ma ci starebbe anche in tasca solo che le signore non usano le tasche perché si sformano, e poi non rinunciano mai a una bella borsa comoda e piena di cose che forse potrebbero servire e che poi invece non servono mai, ma ci si affeziona.
Ciò premesso, è di libri letti e di giudizi dati che intendevo parlare. E comincio col rammaricarmi che il 2011 sia stato un anno senza acuti, senza libri memorabili, ma purtuttavia con qualche titolo che si è meritato la lettura e ha strappato il mio esigente e personalissimo gradimento. Altri invece mi hanno disturbata o annoiata, e perciò non sfuggiranno alla mia censura. Però mi limiterò a pochi casi, anche perché non tengo nota di tutto ciò che leggo, e viceversa non ho più sufficiente memoria per ricordarlo ugualmente. I libri che elenco sono evidentemente quelli che nel bene o nel male si fanno ricordare da soli.
L’ultima sposa di Palmira (Giuseppe Lupo): ecco, questo è forse il migliore. Un libro originale e visionario, complessivamente non stucchevole, con uno scenario evocato con grande suggestione e certe atmosfere da realismo magico che mi hanno fatto subito pensare a Garcia Marquez e al suo Macondo. Libro ben scritto, immaginifico e onesto. 8/10
Non tutti i bastardi sono di Vienna (Andrea Molesini): questo manco l’ho continuato perché ho trovato contorte, penose e presuntuose le prime 50 pagine. Molesini mi sembra pieno di spocchia al punto da non riuscire a descrivere in modo realistico nemmeno un ambiente, quello veneto, che dovrebbe conoscere bene e che io, essendo veneta anzi veneziana come lui, gli contesto visceralmente. Libro insincero, costruito, scostante. 3/10
Il fasciocomunista (Antonio Pennacchi) nel complesso mi ha divertita, è un libro pieno di vita e di sapori, un libro gustoso come era stato Canale Mussolini del quale però non regge il confronto, un libro in cui Pennacchi dimostra la naturalezza e la personalità che deve possedere un vero scrittore. Agli antipodi di Molesini, per parlar chiaro. Gli perdono volentieri una certa lungaggine e qualche ripetizione, perché molte scene e tutti assolutamente tutti i dialoghi sono tecnicamente e emotivamente perfetti. Libro simpatico, sanguigno e credibile. 8/10
Settanta acrilico trenta lana (Viola Di Grado): mah, che dire. Le auguro di maturare e di dare un senso alla sua scrittura, uno spessore alle sue storie, perché talento ne ha, ma certo se continua così a scrivere un misto di trash e intellettuale con larghe dosi di compiacimento commerciale e di effetti speciali di bassa lega le si aprono due possibilità opposte: un gran successo di cassetta oppure la fine di una meteora. Libro che comincia benissimo ma presto scivola nell’eccesso gratuito. Disturbante. 4/10
Indignazione (Philip Roth): scritto bene, benissimo, da un maestro che sa perfettamente come gestire la tecnica senza ostentarla. E tuttavia un libro che mi ha sconcertata, forse perché ci riponevo troppe aspettative. Quello che mi è mancato del tutto è il feeling con lo stile e con la tematica, e me ne dispiace perché, ripeto, concordo con i suoi fans sul fatto che sia un autore eccellente. Ma io avverto una certa vanità, sia nel senso di una eccessiva considerazione di sé, sia in quello di una assenza di verità. Mi infastidisce (anzi mi indigna) un protagonista sbarbatello ventenne che definisce indignazione quello che altro non è che complesso di persecuzione e dedizione al culto di un microcosmo circoscritto alle infime dimensioni del proprio ombelico. Libro freddo e (ho la sensazione) contraddittorio. Però siccome di Roth non ho letto altro sospendo il giudizio e lo rimando prudentemente a settembre.
Il re pallido (David Foster Wallace, e chi sennò?): l’evento dell’anno almeno per chi, come me, venera questo immenso autore e ringrazia il Fato di poter leggere ancora qualcosa (e che cosa) di suo a tre anni dalla morte per suicidio. Non sarà mai un capolavoro come Infinite jest, ma solo per il semplice motivo che è rimasto incompiuto e avrebbe necessitato di qualche altro anno di lavoro per apparire nella forma organica che stava già tutta nella vulcanica mente del suo autore. Un libro difficile, complesso, eppure trasparente, che richiede solo la massima dedizione e umiltà perché ciò che dice risulti chiarissimo. DFW non si nascondeva dietro metafore, non era criptico, non era un venditore di fumo: diceva sempre le cose come stanno, poi però sta a chi lo legge accettare di arrendersi all’evidenza che lui le aveva capite e noi invece preferiamo mettere la testa sotto. Libro superiore, libro-summa, libro complicato ma illuminante, libro da leggere assolutamente per ultimo dopo essere passati per i suoi romanzi e saggi precedenti, e se possibile nell’ordine in cui sono usciti. Se non gli do il massimo dei voti è solo perché il materiale è stato riordinato e rielaborato – quanto arbitrariamente non lo sapremo mai – da altri. Ma alle premesse e alla memoria un 9/10 non glielo leva nessuno.

Mort en terre étrangère

di Donna Leon

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Donna Leon: un nome che sembra uno pseudonimo, e se così fosse sarebbe anche azzeccato, accattivante. Le sue biografie la descrivono come una signora americana che vive da decenni a Venezia; si favoleggia addirittura che insegni (o abbia insegnato) qualche cosa all’università di Ca’ Foscari, un dato, questo, che potrei facilmente verificare, se ne valesse veramente la pena. Dirò che non la vale, perché non ho alcuna difficoltà a concordare sulla sua capacità di scrivere in modo più che scorrevole, come ci si aspetta da una persona che frequenti la cultura. In effetti, l’impulso a continuare la lettura di questo romanzo – l’unico finora che ho letto dei quattro che sono in attesa sul mio tavolo – è venuto proprio dal suo incipit, che ho trovato molto promettente dal punto di vista stilistico (anche se poi ho trovato inadeguata e sdolcinata la chiusa, che insieme all’incipit è l’aspetto di un romanzo che andrebbe maggiormente curato perché è uno di quelli che più facilmente fanno breccia sul lettore e ne decretano il gradimento). A Donna Leon riconosco il merito di saper offrire scene estremamente verosimili, curate nei particolari come immagini di un film a colori, e di saper avvolgere il lettore in atmosfere suggestive sfruttando uno scenario adattissimo allo scopo e tradizionalmente prediletto da molti scrittori quale quello rappresentato da Venezia, una città che è nei sogni di tutti. Però, considerando che il genere di Donna Leon è il poliziesco, che il suo eroe è un commissario di polizia e che i suoi intrecci sono incentrati su fatti criminosi e le relative indagini, si converrà che lo stile sicuro (ma senza guizzi) e l’abilità descrittiva (ma un po’ troppo diligente) non sono ingredienti sufficienti quando, viceversa, la trama e la suspense sono talmente esili da restare sopraffatte dalle continue scene o scenette di contorno. Ricorderei volentieri che altri maestri del genere, in particolare Simenon, raggiungono il massimo dell’espressività attraverso un linguaggio scarno e diretto, laddove alla signora Leon sembra non bastino mai le parole: la sua narrazione, per quanto gradevolmente leggibile nel complesso, si affida insistentemente a caratterizzazioni di facile presa popolare e a descrizioni pedantemente didascaliche, con un gusto per l’esposizione minuta che poco si attaglia al carattere virile di un noir. Sembrerebbe che il primo obiettivo dell’Autrice sia non tanto catturare l’attenzione del lettore sui misteri di casi polizieschi e sulle ricerche che li portano a soluzione, quanto piuttosto disegnare con dovizia di mezzi lo sfondo su cui essi si volgono; vengono privilegiati, con non sempre comprensibile insistenza, descrizioni di ambienti e di luoghi, resoconti di colloqui professionali ma più spesso privati, considerazioni di ordine vario e generale che poco hanno a che fare con il caso trattato e che spaziano con discutibile disinvoltura su molti, moltissimi (forse tutti) aspetti della società italiana, della quale da anni Donna Leon è evidentemente critica osservatrice. Suppongo che tutto questo, nelle intenzioni dell’Autrice, sia volto a presentare, all’interno di un romanzo, uno spaccato del nostro Paese visto attraverso l’impietosa (e condivisibile, certo) esposizione dei molti mali che lo affliggono: dalla mafia, alla corruzione, alle connivenze ad alto livello, all’insabbiamento politico degli scandali, all’inquinamento dell’ambiente, al traffico di rifiuti tossici, non ne sfugge uno alla denuncia, ma soprattutto lascia perplessi l’ingenua caparbietà di affrontarli tutti insieme, quasi di ammucchiarli, benché alla rinfusa, in un unico calderone, a rendere il brodo più gustoso oppure, e più verosimilmente, più lungo. Ma se in un solo romanzo, il primo e l’unico che ho finora letto, l’Autrice è riuscita a stipare e sviscerare praticamente tutti i temi della nostra attualità italiana assegnando a ciascuno di essi un ruolo di diverso peso e responsabilità nel corso di una stessa indagine, mi chiedo a cos’altro si appellerà negli altri romanzi per riempirne i capitoli, come troverà nuove idee, nuove piste per il suo commissario, se non tornando a sfruttare questi stessi argomenti che, ammettiamolo, proprio perché risaputi e scomodi fanno tuttavia audience. E in quel caso, al povero recensore non resterà di meglio che ripetersi lui stesso.
Il caso in questione inizia con il ritrovamento, in un canale, di un cadavere, che si scoprirà presto essere quello di un militare americano di stanza alla vicina base statunitense di Vicenza; si complica poi con un’altra morte sospetta, e si intreccia (un po’ macchinosamente) anche con un furto d’arte. Ce n’è abbastanza per tener viva l’attenzione di un lettore di polizieschi, direi; eppure a queste vicende viene dedicato meno spazio di quello che occupano le frequenti e dettagliatissime scene di puro contorno e le altrettanto frequenti e ripetitive – nonché poco originali – elucubrazioni sulla politica, l’attualità e i molti luoghi comuni che all’estero è prassi attribuire agli italiani. Ci si spiega facilmente il motivo per il quale Donna Leon, popolare in tutto il mondo e tradotta in molti paesi, si sia sempre opposta alla traduzione dei suoi libri nella nostra lingua, per arginare la loro distribuzione a un più vasto pubblico e in tal modo limitare l’impatto sgradevole che le sue critiche al sistema Italia potrebbero avere presso lo stesso. Infatti, questo romanzo e gli altri di cui sono venuta in possesso sono copie della loro versione in lingua francese, edita da Calmann-Lévy, e confesso che il fatto di poterli leggere in una lingua a me tanto cara rappresenta forse il vero piacere di questa lettura. Una lettura che non arriverò a giudicare inutile, dato che un certo svago ne ho ricavato, ma che tuttavia definirei “senza infamia e senza lode”. Una lettura, mi è venuto da pensare più volte, da metropolitana: ma in fondo, ammettiamolo, per i nostri momenti di evasione senza pretese, per colmare piccole noie e attese, è proprio di questo genere di letture che andiamo in cerca. E dunque, senza falsi snobismi, lunga vita ora e sempre alla letteratura popolare, e alla spensierata compagnia che ci regala.

L’eleganza del riccio

di Muriel Barbery
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Di questo libro parlerò bene, e volentieri, perché fra gli ultimi che ho letto è forse quello che maggiormente mi ha colpita. Il mio apprezzamento è comunque tardivo e preceduto da quello unanime con il quale è stato accolto in Francia, dove nel 2006 è stato definito il “caso letterario dell’anno”, nonché da quello che sta riscuotendo – e per fortuna, aggiungo – anche nel nostro Paese, che credo di poter affermare non annoveri, nell’attuale panorama letterario, una scrittrice di razza paragonabile a Muriel Barbery. La formazione culturale di alto livello dell’Autrice traspare tutta sia nell’eleganza dello stile che nella finezza dell’intreccio, se di intreccio si può parlare in una storia in realtà priva di una vera e propria trama e basata più che altro su una serie di quadri descrittivi e di riflessioni. Dunque, più che di intreccio sarebbe il caso di parlare di “tema”, e il tema è giusto quello sintetizzato nel titolo: l’eleganza trattata dalla Barbery è quella di un animo nascosto, un’eleganza intellettuale celata dietro una voluta apparenza di ottusità e sciatteria, e difesa dagli sguardi altrui (per mancanza di fiducia nel prossimo o in se stessa?) con l’agguerrita tenacia con cui un riccio dispiega tutti i suoi aculei per proteggere la propria fragilità.
Il riccio elegante in questione è Mme Renée Michel, portinaia di un signorile palazzo parigino abitato da persone altolocate che fanno sfoggio, ahimè, di alcuni dei vizi più diffusi proprio in un certo ambiente: la boria, l’ipocrisia, il culto dell’apparenza e, spesso, la più elementare ignoranza. All’opposto, Mme Michel svolge il suo oscuro lavoro di guardiola interpretando il suo personaggio secondo i canoni più tradizionali: bruttina, grassoccia, dimessa, perfino mentalmente limitata, questo è il cliché di ogni portinaia parigina che si rispetti, e questa è soprattutto la maschera che, indossata ogni giorno durante l’orario di servizio, le permette di nascondere doti inusuali che, messe allo scoperto, farebbero di lei una anomalia inquietante, una presenza scomoda e fuori luogo in un ambiente snob come quello. Perché Mme Michel, nel rifugio delle sue due stanze a pianterreno che condivide con un canonico gatto, coltiva in realtà letture ricercate, è una competente frequentatrice di letteratura, arte e filosofia, nonché una raffinata conoscitrice della sofisticata cultura giapponese. Nelle ore libere, nelle notti di insonnia, nella sua solitudine di vedova, ristora il suo animo e lo nutre di Bellezza, per ripagarlo delle piccole meschinità della routine quotidiana e della delusione dei rapporti sociali con persone tanto vanagloriose quanto vacue.
Co-protagonista accanto a lei, e titolare di una vicenda parallela, è la giovanissima Paloma, che abita con la altezzosa famiglia nello stesso palazzo e che, essendo naturalmente dotata di intelligenza precoce e sorprendente capacità di analisi, vive un disagio simile a quello della portinaia, poiché le sue acute osservazioni del mondo che la circonda le restituiscono una realtà assurda, aliena, allucinante, inaccettabile al punto da farle prendere la decisione di porre fine alla sua vita – per l’evidente inutilità di viverla – allo scadere del suo tredicesimo compleanno. Il percorso intimo che la porterà al compimento di questo progetto è contenuto in un diario, al quale essa affida la cronaca della propria crisi esistenziale sulle soglie dell’adolescenza.
Ma la sintesi che ho appena esposto di queste due vicende umane non deve trarre in inganno: esse non sono narrate col tono drammatico o lacrimoso che ci si potrebbe aspettare, e neppure con quello languido o malinconico di un racconto intimista. Tutt’altro, tutt’altro, e grazie al Cielo.
Perché sia Renée che Paloma, ben lungi dall’essere donnicciole piagnucolose o vittimiste, sono due bei caratterini agguerriti e soprattutto dotati di un magnifico spirito, di una intelligente ironia, di un umorismo più che originale, ed è con questi strumenti che riferiscono al lettore – il quale spesso si ritrova con le lacrime agli occhi per il divertimento – i fatterelli stupidi e ripetitivi di ogni giorno e i comportamenti e gli exploits scoraggianti di una società votata solo all’esteriorità e al lusso. Ironia e distacco solo con i quali è possibile deridere la meschinità e non restarne schiacciati.
Terzo personaggio, e personaggio-chiave, è il giapponese signor Ozu, un nuovo inquilino, che racchiude in sé le doti più apprezzabili: l’equilibrio, la semplicità dell’eleganza, la discrezione tipica del gentiluomo orientale, la passione per la cultura. Egli diventerà, con infinito garbo e impareggiabile intuito, il complice spirituale delle due protagoniste, che con lui finalmente potranno condividere il leit-motiv delle loro vite: il gusto per la Bellezza e l’esercizio dell’Intelligenza.
Se si eccettua il coup-de-théatre del finale (del quale ovviamente non parlerò), la vicenda raccontata in questo romanzo segue un filo conduttore abbastanza tenue e non è segnata da avvenimenti o scene d’azione. Ciò che conta e su cui si fonda la particolarità del libro è proprio il minimalismo della trama, che permette all’Autrice di dedicare tutto il suo impegno creativo e tutte le sue risorse stilistiche e linguistiche all’elaborazione di una analisi di caratteri, di sentimenti, di riflessioni, di considerazioni private. Dal punto di vista tecnico, la Barbery possiede un lessico alquanto esteso e una non comune padronanza degli strumenti sintattici, che le permettono di elaborare in modo originale e gradevolissimo la costruzione dei periodi senza cadere in banalità o disomogeneità. Lo stile, pur se colto, è sempre scorrevole, colmo di grazia e leggibile; merito anche di una traduzione (a due mani, di Emmanuelle Caillat e Cinzia Poli) che ha saputo trasferire nella purezza della nostra lingua non solo i singoli componenti delle frasi ma – obiettivo già più arduo – la struttura del fraseggio. Grazie a questo ottimo lavoro, l’immedesimazione risulta estremamente fluida.
Al termine della lettura, dopo essersi staccati di malavoglia da quella conciergerie, da quel microcosmo così ben descritto, da quei personaggi che così facilmente ci sono divenuti familiari, ci rimane tra le mani il senso complessivo e definitivo del romanzo: un omaggio a quei doni della vita che molti non sanno godere e nemmeno individuare, e che invece sono alla portata di chiunque perché appartengono al quotidiano – le piccole armonie presenti in ciò che ci circonda, da un gesto gentile a un colore ben assortito a un sapore riuscito, da una musica che parla al cuore a un silenzio che contiene ben di più. Un romanzo capace di di-vertire perché ci accompagna in un’ambientazione resa con bella capacità espressiva. Ma anche e soprattutto un romanzo capace – suggerendo con grazia e spirito una denuncia sociale verso la superficialità o l’arroganza di molti rapporti umani o verso i vuoti di una imperante sottocultura, ma senza mai cedere a un facile e superfluo moralismo che avrebbe appiattito e banalizzato tutto – di lasciarci dentro, nel tempo, spunti di riflessione applicabili alla vita di ciascuno.

Il mistero di Edwin Drood

di Charles Dickens

Dickens

Un mostro sacro come Dickens, lungi da me recensirlo; posso solo accodarmi devotamente a quanti lo hanno sempre indicato come un Maestro di narrativa, psicologia e arguzia. Un Intoccabile.
Tuttavia mi piace partecipare il godimento che mi ha procurato la lettura di un suo romanzo poco conosciuto, Il mistero di Edwin Drood, ultimo in ordine cronologico nella bibliografia dickensiana e lasciato interrotto dall’Autore nel 1870, quando morì dopo averne completato circa la metà. Il mistero è dunque nel titolo ma anche nella natura stessa dell’opera, della quale rimasero ai posteri solo vaghi appunti scritti e qualche accenno verbale raccolto da amici o familiari. Si incaponì a volerlo completare uno scrittore nostro contemporaneo buon conoscitore dello stile e delle tematiche dickensiane, Leon Garfield, ed è grazie alla sua paziente maestria nonché al talento sorprendente di un traduttore come Pier Francesco Paolini che oggi possiamo accedere a questo lavoro controverso, affascinante, enigmatico.
Due parole sulla trama, che mi permetterò di sintetizzare al massimo: l’Edwin Drood del titolo, un giovane onesto e promettente, scompare misteriosamente, e ne viene incolpato un altro giovane, Neville Landless, altrettanto onesto ma di temperamento alquanto focoso. Attorno a questo nucleo centrale, ruotano diverse vicende di carattere sociale e sentimentale, connesse a una schiera di personaggi dettagliatamente rappresentati e puntualmente inseriti in una cornice ghiottamente deliziosa quale uno spaccato dell’Inghilterra di metà Ottocento (ambientazione e contesto nei quali la penna di Dickens si rivela sempre di impagabile efficacia). Tra i ghiotti ingredienti, un borgo della benpensante provincia inglese dominato da un’antica Cattedrale alla cui ombra si stende un caratteristico camposanto, e poi salotti austeri oppure civettuoli dove si conversa con la studiata retorica del tempo, un collegio per signorine all’insegna tutta vittoriana della serietà e della pudicizia, soffitte malsane per studenti a mal partito o oppiomani derelitti e disperati, una natura affascinante e selvatica che odora del mare vicino.
Ma più che l’intreccio, in quest’opera va rilevata – una volta di più, perché non è certo una scoperta – l’abilità tutta dickensiana di permeare atmosfere lugubri e inquietanti con uno spirito sottilissimo e sornione, che smitizza il racconto a forti tinte proprio con la caricaturale sottolineatura di certe sue inevitabili enfasi. Vien da immaginare il Vecchio Scrittore, avvezzo a ogni aspetto delle debolezze umane da lui costantemente osservate e rielaborate, intento a scrivere le ultime pagine della sua vita – già malato e da tempo – ma ancora e forse più che mai, proprio per la consapevolezza di essere alla fine, immerso nel piacere creativo, nell’ispirazione incontenibile, nel fervore della costruzione di frasi, periodi, capitoli, descrizioni, riflessioni, elucubrazioni particolareggiate fino alla logorrea, come quando la mente è completamente assorta nel prodotto della sua creazione e ci vive in simbiosi, non desiderando che trasmettere ad altri le immagini e le sensazioni di cui alimenta se stessa. Dunque logorrea, forse, ma deliziosa nel risultato per il lettore, al quale resta impossibile non accettare l’invito a lasciarsi coinvolgere in quell’immaginazione, in quella ricostruzione di un mondo che appartiene al passato ma che ci torna così nitidamente delineato da sembrare plausibile e vicino.
Lode al Traduttore Paolini, e al suo mirabile lavoro di mediazione tra noi lettori e uno stile ottocentesco apparentemente arcaico ma aderentissimo alla collocazione e studiato al fine di trasmettere il lavoro dell’Autore con la massima e più leggibile fedeltà, sia sintattica che concettuale.
Un libro – un librone, oltre 500 pagine nell’edizione Bompiani del 2001 – consigliabile nelle lunghe serate invernali, da leggere preferibilmente adagiati in una comoda poltrona accanto a un caminetto acceso mentre fuori piove e tira vento, senza cedere al senso di colpa se la felice evasione ci farà – e con rammarico – spegnere la luce molto tardi.

Siccome ogni qual volta il reverendo Septimus si faceva pensieroso, la sua buona madre vedeva in ciò un segno infallibile ch’egli aveva “bisogno di sostegno”, la florida vecchia signora si recò in tutta fretta alla credenza della sala da pranzo per prelevar da essa il necessario “sostentamento”, sotto forma di un bicchiere di Constantia e di un biscotto casalingo. Era una magnifica credenza, degna di Cloisterham e di Minor Canon Corner. Sopra di essa, un ritratto di Händel, in fluente parrucca, sorrideva dall’alto allo spettatore, con l’aria di reputarsi all’altezza del contenuto della credenza, e con un nonsoché nello sguardo che sembrava tradir l’intenzione del musicista di combinar tutte le sue armonie in un’unica deliziosa toccata e fuga. Non era una comune credenza dal volgare sportello che s’aprisse tutt’assieme sui cardini, senza lasciar nulla da scoprire per gradi, no: quella rara credenza aveva una serratura al mezzo, ove due pannelli scorrevoli si congiungevano, perpendicolari; e l’uno calava giù, e l’altro saliva su. Il pannello superiore, nel venir tirato giù (lasciando l’altro scomparto doppiamente sbarrato, nel mistero) rivelava profondi scaffali gremiti di vasetti di sottaceti, barattoli di marmellata, scatole di latta, teche di spezie, e recipiente gradevolmente esotici, bianchi ed azzurri, profumati ricettacolo di conserve al tamarindo e allo zenzero. Ogni benevolo abitante di quel chiostro aveva il proprio nome iscritto sul ventre. I sottaceti, nelle loro uniformi dal pastrano marrone a doppiopetto, con fregi gialli o di colore scuro, si presentavan con il loro nome a lettere maiuscole, in stampatello, come Cetrioli, Cipolle, Cavoli, Broccoli, Carote, Misticanza, ed altri membri della nobile famiglia degli ortaggi. Le marmellate, essendo di temperamento meno mascolino, ed indossando crestine di carta, si annunciavano, in femminil calligrafia, come un tenue sussurro, quali Fragole, Pesche, Albicocche, Prugne, Susine, Mele e Mirtilli. Chiudendosi il sipario su queste tentatrici, e salendo il pannello inferiore, venivan rivelate melarance, insieme ad una scatola di zucchero, laccata, onde temprare la loro acerbità, se poco mature. Biscotti casarecci facevan corte a quelle Potenze, accompagnate da un grosso frammento di focaccia farcita, e da svariati cialdoni detti dita-di-dame, da immergersi nel vin dolce e baciarsi. Più in basso ancora, un ripostiglio foderato di piombo dava ricetto al vin santo e a vari cordiali, e da esso provenivano bisbigli di Arancia di Siviglia, Limone, Mandorla e Semi di Comino. Aveva l’aria, quella regina delle credenze, di aver udito per secoli l’eco delle campane e dell’organo della Cattedrale, un’eco come di ronzanti api, finché quelle venerande pecchie avevan trasformato in miele sublime tutto ciò che essa conteneva nel suo seno; e si osservava sempre che chiunque si immergesse fra quegli scaffali (profondi, come si è notato, da inghiottire testa, spalle e gomiti) ne ritornava fuori con ridente sembiante, come se avesse subito una zuccherosa trasformazione.

La pioggia prima che cada


(praticamente, una stroncatura)

Non mi è piaciuto, tuttavia lo ho letto fino in fondo.
Lo ho letto fino in fondo perché mi sentivo in dovere di capire il motivo per il quale non mi piace Coe in generale, il motivo per cui tempo fa avevo abbandonato dopo qualche decina di pagine la lettura di un altro suo romanzo, La famiglia Winshaw, indicato fra i due o tre migliori di questo autore da molti apprezzato, addirittura celebrato. Quel libro mi aveva letteralmente infastidita a causa dello stile contorto e della scarsa limpidezza della trama, tanto da decidere di escludere questo autore da successivi programmi di lettura. Decisione recentemente rientrata per motivi tutto sommato superficiali: anzitutto la curiosità appunto di sondare meglio il mio iniziale rifiuto, poi senz’altro l’attrazione esercitata dal titolo – poetico ed enigmatico – e da ultimo l’opportunità di leggere un libro che forse non mi sarebbe piaciuto senza rischiare di pentirmi di averlo acquistato, avendolo preso in prestito dalla biblioteca comunale. E’ rimasto nelle mie mani tre giorni, il tempo di leggerlo con attenzione, poi lo ho riportato più che volentieri sul suo scaffale, dove probabilmente procurerà a qualche altro lettore maggiore soddisfazione.
Ma torno a ripetere, invertendo i termini: lo ho letto fino in fondo, tuttavia non mi è piaciuto.
E non mi è piaciuto probabilmente anche perché tra la sensibilità dell’autore e la mia di lettrice non ho avvertito nemmeno questa volta alcun punto di contatto, né dal punto di vista stilistico né da quello del contenuto narrativo. Non c’è stata interazione, non c’è stato feeling, non c’è stato coinvolgimento. La vicenda si lascia leggere, devo ammetterlo, così come ammetto che Coe non è un bluff ma sa indubbiamente scrivere, però un giudizio tecnico e non solo emotivo non può ignorare che la storia è greve come una telenovela strappalacrime, e come una telenovela è forzata fino a una ridicola inverosimiglianza.
L’obiettivo sembra quello di sconcertare e commuovere soprattutto il pubblico femminile, quello cui il libro appare naturalmente e preferibilmente dedicato dal momento che narra di una cronologia tutta al femminile: la concatenazione delle vite di tre generazioni di donne osservata, analizzata e rivissuta da altre donne, il tutto all’interno di una sola e ramificata famiglia inglese lungo il corso di alcuni decenni del novecento. Ma l’obiettivo di sconcertare e commuovere è tra i più banali, se poi viene perseguito grazie a certe insistenti forzature tragiche che, proprio perché irrealistiche, risultano al contrario quantomai prevedibili, e quindi deludenti per il lettore meno sprovveduto. Il libro appare un polpettone tenacemente malinconico, infarcito com’è di ingredienti di risaputo effetto come la presenza di una fanciulla cieca, il tema dell’omosessualità femminile, quello dell’adozione di minori sottratti alla podestà di genitori indegni, perfino la cronaca in diretta di un suicidio. Ingredienti eccessivi, estremi e quindi complessivamente ingenui.
All’inizio mi aveva fatto ben sperare la trovata – se non originalissima, almeno accattivante – di un filo conduttore rappresentato dalla descrizione di una serie di vecchie fotografie di famiglia, ognuna delle quali introduce la rievocazione di una tappa significativa nell’intera saga e ne connota l’ambientazione nello spazio, nel tempo e nei costumi di una società. Peccato che questo artificio ben presto perda la sua efficacia soffocato sotto pagine di tediosissime descrizioni di paesaggi e di dettagli che, seppure funzionali al fatto che il racconto è rivolto alla fanciulla cieca di cui sopra, non colgono tuttavia l’obiettivo di far vedere e far vivere davvero i soggetti, gli oggetti e gli ambienti fotografati: tutto resta piuttosto estraneo, lontano, incomprensibile e scarsamente condivisibile, come accade con ciò che, per quanto si sforzi, non ha un’anima sincera da mostrare. Descrizioni diligenti, persino ossessive, e tuttavia o proprio per questo fredde, affettate, vacue come cartelloni pubblicitari.
L’unico merito che riconoscerei a Coe è quello di aver cercato di interpretare l’animo femminile costruendo una vicenda e uno scenario dominati quasi esclusivamente da donne, delle quali ha voluto narrare – direi calcando un po’ troppo la mano, come se a scrivere fosse stata una signora depressa dalla menopausa – a quali abissi di complessità e paranoia possano giungere le conseguenze di problemi affettivi sorti nell’infanzia e mai sufficientemente compresi. Intuendo quale impegno sia richiesto da parte di uno scrittore per immedesimarsi credibilmente nell’altro sesso, ci si capacita di come Coe, nel perseguire il suo scopo, sia caduto in qualche stereotipo di troppo; un po’ meno di come non abbia mai pensato di attingere, dalla invidiabile tradizione britannica, un po’ di quello humour inglese che ha caratterizzato al meglio tante altre opere di suoi connazionali e che avrebbe evitato anche a lui lo scadimento nello psicodramma mediocre, gratuito e déjà-vu.
Complessivamente dunque un libro scritto bene ma incapace di affascinare; un libro che, per la pretesa di contenere troppe verità, non ne esprime nessuna di convincente; un libro che costa poco leggere se non altro per potersi poi dire aggiornati sulle novità editoriali di cui bene o male si parla, ma che consiglierei preferibilmente a un pubblico di pretese modeste e incline ai sentimenti forti, purché rassegnato a una certa pazienza davanti alle tante lungaggini descrittive.