La prassi dello scaricabarile nell’educazione dei figli

I bambini.
Oddio, non sono una che stravede per i bambini, non per quelli degli altri, almeno. Ciascuno straveda per i suoi, voglio dire,  e io trovo un po’ forzate certe manifestazioni di commozione e viscerale amore indiscriminati, soprattutto se rivolte ai bambini pasciuti e maleducati che rappresentano la maggioranza di quelli che allignano oggi. Se mi dite i bambini poveri, maltrattati, affamati, sfruttati o orfani, è un altro discorso; benché anche per loro non sia il caso di stravedere a parole e lacrime quanto di agire in concreto, e io nel mio piccolo l’ho fatto e lo faccio, in base alla profonda convinzione che i figli di nessuno siano, al contrario, figli di tutti.
Ma perché sto parlando di bambini? Ah sì, perché la premessa è che davanti a loro non sono il tipo di donna che si sdilinquisce di default. Sono piuttosto il tipo di donna che li considera altrettante persone, da capire e rispettare come gli adulti seppure mutatis mutandis. E naturalmente da guidare: con fermezza e saggezza, ma senza agitare spettri di uomini neri o di orchi mangiabambini.
I bambini li vedo in biblioteca. Ne vengono tanti ogni giorno, dagli zero ai 13 anni; dopo li colloco nella categoria ragazzi, che meriterebbe considerazioni a parte solo che mi viene il nervoso solo a pensarci. Già, sui 13 anni comincio a non sopportarli proprio, diventano dei marziani, dei trogloditi anzi. Forse perché a quell’età si imbozzolano e stanno lì dentro a maturare per uscirne farfalle verso i 18. E da lì si può ricominciare a ragionarci. Anche se.
In biblioteca, a seconda dell’età, vengono soli o accompagnati. E io è di quelli accompagnati che volevo parlare. Perché non sono loro, ma le mamme. Che i bambini giochino, corrano, facciano casino, tirino fuori i libri e li sparpaglino per terra, li calpestino, li colorino con i pennarelli, stacchino le pagine o ci rovescino sopra la cocacola, vabbè non è un bel vedere però uno dice “sono bambini, non sanno quello che fanno”. Ma io dico anche “sono bambini, non sanno quello che fanno però hanno ben una mamma che dovrebbe saperlo lei”. E invece col cavolo. I piccoli vandali saccheggiano e le madri se ne stanno al cellulare. Questo, fanno, le madri. Se poi la gazzarra raggiunge limiti estremi e accidentalmente disturba anche le loro telefonate, il massimo che fanno è – dopo qualche blando avvertimento – coinvolgere ME ricordando ai frutti dei LORO lombi che “la signora si arrabbia e ci manda via”.
Io mi arrabbio?? Io li mando via?? Ma come vi permettete? Certo che mi verrebbe voglia di spezzargli le braccine o di fare viola il loro paffuto culetto, ma non si illudano che lo farò al loro posto, passando oltretutto per la strega che non sono e rischiando di dissuadere i nostri più piccoli utenti dalla frequentazione della biblioteca. Quello è il tipo di madre cieca e sorda che non ha voglia di scomodarsi, il tipo di madre che non ha le palle per rimproverare, il tipo di madre che non si espone di persona e piuttosto raccomanda ai figli di non fare capricci perché sennò Gesù bambino piange o la bibliotecaria (che ovviamente è meno paziente di Gesù bambino) si arrabbia. Il tipo di madre, probabilmente, che per convincerli a mangiare gli spinaci li minaccia nascondendosi dietro l’Uomo Nero, e che quando obbediscono gli dà lo zuccherino e li porta alle giostre. Educazione per delega o per ricatto. Le nuove frontiere del rapporto genitori/figli. E con questo no, non sto invocando le sberle e gli sculaccioni di un tempo, ma solo quella doverosa fermezza che costituisce la base di un imprinting convincente e ragionato.
Ho appena ammesso, con la massima onestà e trasparenza, di non avere una particolare attitudine a essere paziente con i bambini, ma giuro che ne ho poca o nessuna a spaventarli passando da castigamatti, e ancor meno che ho a togliere le castagne dal fuoco a madri scarsamente idonee. Io non mi presto, e non tanto perché esula dal mio mansionario ma proprio per principio.
Ci pensino loro. Una volta passi, la seconda è già cartellino giallo, alla terza non si appellino a me, ma prendano su armi, bagagli e bambini e li portino fuori, al campetto, a giocare all’aria aperta e a fare quel cazzo che gli pare, alla larga dai nostri poveri libri. Col piffero che ve li educo io, i vostri piccoli mostri.