Mentre mi mantro un mantra

Il giorno in cui, fresca di laurea, ho timbrato il mio primo cartellino, ho ricevuto anche un dono, del cui valore mi sarei capacitata solo più avanti. Indossavo un camice nuovo, il fonendoscopio era il mio ottimo Littmann dalla membrana sensibilissima, e lo tenevo – come l’ho sempre tenuto – in tasca, non a scialle sul collo come si sono inventati di fare, scomodissimamente, gli americani. In tasca anche il martelletto e un laccio emostatico; nel taschino una biro omaggio di casa farmaceutica. In testa, esaltazione e panico. Qualcosa di simile a “chi me lo ha fatto fare” oppure “Domine non sum digna”.
In quell’ospedale di campagna, eppure o proprio per questo d’eccellenza, la lingua ufficiale era il dialetto. Lo parlavano tutti, tranne il primario che non era di quelle parti e io che non sono abituata a farlo. Così fu in dialetto che mi venne rivolta forse la più solida e illuminante frase-chiave della mia vita, a opera di un collega giovane, un ragazzotto bonario, dinamico e preparatissimo, il quale mi precedette nella prima delle stanze a me assegnate e me ne consegnò la giurisdizione con un largo gesto sorridente e queste parole incoraggianti: Ciapa in man la situassion.
Come dire: “mettiti al lavoro e fai vedere chi sei”, più che “da oggi questi son cazzi tuoi”. Un’investitura, ma più pacca che spada, sulla spalla.
Strano che mi ci sia voluto del tempo per rendermi conto che quella formula non mi era nuova, perché era esattamente la formula programmatica di tutta la mia vita. Quel giorno, semplicemente, l’ho sentita pronunciare ad alta voce in un momento topico. E ha funzionato. Ha funzionato nella professione, soprattutto nelle ore di guardia in cui l’emergenza richiede decisioni rapide e non concertate con altri che ne sanno più di te. Funziona comunque ogni santo giorno, di fronte a decisioni anche spicciole della routine. Funziona come mantra della mattina, quando scendo in cucina alle sei e rotti e mi guardo intorno e mi chiedo da dove devo cominciare a reinventare me stessa. È la coscienza delle responsabilità che si sveglia prima di me e mi butta giù dal letto quando è ancora buio, per indossare l’armatura e montare a cavallo. Mi armo e parto. E non delego, ma prendo in mano la situassion. 

Il mantra della sera, quello che concilia il sonno ai giusti, suona come l’appagato (a volte rassegnato) epilogo di una giornata vissuta nel segno di quella formula esortativa: Anche questa è fatta.
Come sto bene quando posso dirlo a me stessa in tutta sincerità! Quando posso voltarmi indietro e constatare che, seppure annaspando o brontolando, anche per oggi ho pulito, cucinato, ascoltato, rabberciato qualche problema, messo del mio, fatto il possibile, il massimo o tutto del poco che so fare. Pur se resta sempre qualcosa, o tanto, in sospeso; pur se a troppi guasti ho potuto mettere solo un cerotto; pur se al posto delle macerie spazzate oggi ne troverò sempre di nuove domani; pur se domani sarà probabilmente (su base statistica) scontato e irrisolvibile esattamente come oggi. Ma ci saranno comunque altre ventiquattro ore nuove di zecca per riprovarci a far succedere le cose giuste: così pensa chi non vuole arrendersi al pessimismo, perché il pessimismo è un facile alibi per non fare niente, non provarci neanche, e in fondo per essere lugubremente soddisfatti quando si perde, perché almeno non si saranno sbagliate le previsioni.
Invece a me piace sfidarle, le Cassandre, guarda un po’.
E mi piace andare a letto la sera stanca per aver tentato di scalare a mani nude la Montagna del Fato, saltando crepacci e scansando slavine, perché mi hanno detto che da lassù in cima si vede il mare. 

La fotografia è di Robert Doisneau e mi ritrae all’alba mentre esco a conquistare il mondo.