Serenissima

1755, un pomeriggio di autunno inoltrato, nel palazzetto Sandonà sito in fondamenta della Misericordia, sestiere di Cannaregio.
I musici arrivano per tempo e si danno subito da fare per verificare se la sala da musica sia stata predisposta in modo confacente; fanno spostare sedie e tavolini, misurano a occhio, fanno e disfanno con grande gravità finché non sono ragionevolmente soddisfatti. Poi chiedono di essere lasciati tranquilli qualche minuto per accordare gli strumenti e gli spiriti prima dell’arrivo degli invitati, e da dietro la porta iniziano a formarsi suoni di prova, per ora slegati, interrotti, bislacchi, come stonature di goffi principianti. Io, servetta dodicenne venuta dalle campagne, me ne sto nei paraggi senza farmi vedere ma attratta da enorme curiosità, e mi chiedo come questa accozzaglia potrà, fra poco, trasformarsi in qualcosa di compiuto, ordinato e così paradisiaco come il mio padrone si aspetta.
Frattanto sopraggiungono gli ospiti. Ecco fare ingresso la figlia maggiore maritata, con quel suo goffo marito infelice al guinzaglio, ecco i suoceri intimiditi e ansiosi di far buona figura. Ecco poi alcuni notabili con le mogli, nonché il medico e il farmacista, tutti più mondani e a loro agio; ecco la marchesa Dolfin, donna affascinante malgrado l’età, la cui purissima nobiltà è finita sul lastrico. A ognuno ritiro pastrani, cappelli, bastoni da passeggio; le signore si liberano di mantelle e manicotti, esibendo gli abiti buoni con scollature peraltro modeste data la natura severa dell’intrattenimento.
E finalmente i maestri concertisti annunciano di essere pronti. Per generosità del padrone, i due battenti della porta vengono lasciati spalancati, e i servi sono ammessi sulla soglia, la cuoca, le fantesche, perfino il vecchio gondoliere, un omone grande e grosso, ruvidissimo e di così poche parole da passare per muto. Si affollano discretissimi e rispettosi, gli occhi lustri.
Io, la più piccola e l’ultima arrivata, la sguattera di cucina, mi accuccio da sola sul primo gradino della scala, gelido e duro, in attesa di capire quale rito a me sconosciuto si stia per celebrare. Inchini, riverenze, sommessi complimenti, poi gli ultimi scalpiccii, gli ultimi cigolii delle sedie, gli ultimi fruscii degli abiti ben accomodati, e si fa silenzio.
E da questo silenzio germoglia, sboccia, si apre, si alza e vola sotto gli alti soffitti verdeazzurri una voce unica, un arpeggio di corde di leggiadria estrema, e si articola disunendosi e poi riunendosi come un filo di seta, o d’oro fino; si snoda, si sgomitola, si divincola lieve sopra le parrucche e i bassi pensieri, se ne va su a galleggiare per l’aria intrecciando note a cascata, una dopo l’altra e una dentro e sopra l’altra, in una armonia mirabile, e quest’armonia pare nascere ininterrottamente da se stessa e sostenersi da sola, spandersi sopra le nostre teste, occupare poco per volta tutto lo spazio alla ricerca di un altro spazio più vasto dove distendersi, di un cielo libero, magari dalle parti dove sta il Paradiso degli angeli, unico posto degno di questa infinita bellezza, troppo perfetta per appartenere al mondo dei mortali. Ė dapprima un liuto gentile, ma a momenti imperioso, poi trascinante, poi cadenzato come una danza sui prati; ma presto si inserisce un altro timbro, quello di un oboe, cui il primo strumento sembra aver voluto solo aprire la strada, e da esso si sprigiona intensa e pungente una nuova melodia, malinconica come una pioggia autunnale, poi mistica come una preghiera, e prende il posto del brio trasformandosi in dolce e accorato tormento, come se raccontasse un dolore fine, e lo accarezzasse con infinita grazia. Un incanto mi assale la mente e tutte le membra, illanguidendo, erodendo, scavando sotto la scorza dei sentimenti nascosti, frugando l’intimità più vulnerabile, trafiggendo i sensi e il cuore col più tenero e crudele stiletto. Nessuna voce sa essere più struggente di quella di un oboe quando è triste, e in questa improvvisa rivelazione avverto la mia piccola anima spezzarsi in un dolce mare di lacrime.

Devo essere svenuta.
Mi sveglio sul mio lettuccio in soffitta. Accanto a me il padrone, il dottore, la cuoca, mi sventolano con un ventaglio, mi toccano la fronte, la trovano rovente.
“Cos’è stato? – chiedo in un sussurro.
Qualcuno, misericordioso, mi dà la spiegazione:
“Musica. Si chiama musica. Ora dormi tranquilla, va tutto bene”.

*  *  *

Contributo all’eds della donna Camèl, insieme a:
Incanto, di Dario
Io, l’amministratore e la signora grassa, di Hombre
Il viaggio, di Pendolante
Quel certo non so che, di Lillina
Io non c’entro, della Donna Camèl
Mercoledì, di *cla
Tutto quello che avreste voluto sapere sul seNso ma non avete mai osato chiedere, di Hombre
Cinque, di effe 

nell’immagine, Concertino, di Pietro Longhi, 1741

L’orecchio assoluto

In ritardissimo ma ben convinta e orgogliosa di partecipare all’eds della Donna Camèl, eccomi qua, con uno dei miei soliti raccontini dove ficco dentro un po’ di cose che mi sono molto care: Venezia, il settecento, la musica. Prima non ho proprio potuto: sapete com’è, a volte si ha il tempo ma non una storia, io ultimamente ho le storie ma non il tempo per scriverle.

Ah povero Serafino, che ne sapevi tu! Tu, l’ultimo di sette fratelli e sorelle, tu il più gracile e pensieroso, quello buono solo a cogliere frutti dagli alberi mentre gli altri vangavano la terra e spaccavano la legna, robusti e fracassoni quanto tu eri – e sei – così magrolino e inappetente, così sognatore e suggestionabile, così fatto di un’altra pasta.
Vai, vai – ti hanno spinto, emozionati, tutti quanti, tuo padre, tua madre, i parenti, perfino i pochi amici un po’ invidiosi della tua fortuna.
Vai vai, Venezia è la città della musica, dei teatri, degli artisti – ti lusingava il curato, quello che per primo si era accorto del tuo talento e ti aveva messo in mano il primo violino.
Vai,Serafino, tu sei nato per diventare un grande musicista, qui non è posto per te, non sarai mai un contadino, non imparerai mai a zappare i campi, a tirare il collo alle galline, non sei fatto per questa vita.
Ne parlavano tutti insieme la sera intorno alla tavola, facendo conti e progetti con gli occhi lustri. Tua madre ti ha rimesso a nuovo un abito di velluto che a tuo padre era venuto stretto molto presto, e ha venduto un’oca delle migliori per farti fare un paio di scarpe eleganti, con la fibbia, da città. Per i concerti, diceva, commovendosi. Tuo padre ti ha contato il denaro in un sacchetto di stoffa e ti ha fatto un discorsetto da uomo, poi ti ha salutato stringendoti la mano come si fa tra adulti, la sua mano grossa e coriacea e la tua gentile e affilata, quella di un violinista, di un angelo.
E hai lasciato il paese, un barcaiolo ti ha traghettato col tuo piccolo baule attraverso un largo braccio di laguna e tu hai finalmente messo piede nella città dei tuoi studi e del tuo incantevole futuro.

Ma nessuno ti aveva parlato delle sue pietre umide, del salso che corrode i muri, dell’ombra perenne di certe calli profonde, dell’acqua che in inverno lambisce le soglie delle case e a volte risale i primi gradini, col suo odore di marciume e il suo ritmo lento e indecifrabile. Non ti avevano detto che nella tua stanzetta in affitto avresti visto una lama di sole solo due ore la mattina, e per il resto del tempo non ci sarebbe stato alcun caminetto a scaldarti mentre studi su un tavolino traballante o provi la tua musica con i mezzi guanti. Non immaginavi quanto avresti rimpianto il grande focolare sempre acceso nella cucina di casa tua, né che avresti dovuto accontentarti di un catino di acqua fredda per lavarti il viso all’alba e di uno scaldino che a malapena ti intiepidisse il lettuccio umido la notte.

Nel salone dove prendi le lezioni con altri giovinetti c’è lo stesso freddo, e solo un po’ più di luce dai finestroni; il maestro, un ex-gesuita suscettibile e intransigente, non tollera lamentele né incertezze, pretende l’impossibile dai suoi allievi e in particolare da te, che ti sei rivelato così promettente fin dal primo giorno, tu con quel dono divino, il tuo orecchio assoluto. Ma già dopo qualche settimana è cominciato il tormento dei geloni, che ti deformavano i sensibili polpastrelli e li gonfiavano e ulceravano fino a farti piangere in silenzio mentre ti imponevi di suonare lo stesso. Il contatto con le corde del tuo strumento li fa sanguinare, ed è così umiliante, oltre che doloroso.
I soldi poi non bastano mai: l’affitto, la lavandaia, le lezioni, i libri. I tuoi scarpini eleganti e inutilissimi non hanno retto ai primi geli e li hai fatti riparare due volte, prima di rassegnarti a procurarti degli stivaletti più dozzinali ma perlomeno più caldi e robusti.
Eppure la passione per la musica finora ha mantenuto viva la tua volontà di resistere; a volte hai suonato per nessuno, sui gradini di un ponte o di una chiesa, per il solo incanto di dialogare con il tuo strumento che sempre risponde con voce celestiale al fiotto di felicità che ti nasce in cuore quando pensi alla musica.
Ma ora, povero Serafino, c’è questa nuova disgrazia che ti sta rodendo l’animo da qualche settimana: quel rumore che ti assilla notte e giorno, ti attraversa la testa da un orecchio all’altro, diabolico e multiforme, a volte come uno stormire di fronde, altre come risacca di alta marea, oppure rauco come un soffio forzato dentro una canna, talora persino simile a uno squittire di topo, o un pigolio di uccelli impazziti. Ti dà poca tregua, ti toglie il sonno, ti smagrisce di giorno, ti rende un povero spettro febbrile che ha perso l’orientamento e rabbrividisce anche alla solita eco dei suoi passi, diventata un rimbombo insopportabile. E il peggio è che anche le note del tuo violino sono contagiate da questo male, ed escono distorte, irriconoscibili, raschianti come le unghie su un vetro, uno strazio che va peggiorando e ti spegne pian piano non solo la dignità ma la stessa voglia di vivere.
Ti torna alla mente il nonno. Era sordo, sordo quasi del tutto. Anche lui sentiva rumori inesistenti, e se ne lamentava con tutti, e tuttavia non avvertiva le parole di chi cercava di consolarlo. Il suo mondo era popolato di stridori e cigolii, e null’altro. E ora sta succedendo a te, povero Serafino, che hai solo diciassette anni e quell’orecchio assoluto che avrebbe dovuto fare di te un grande artista.
L’ultima notte in bianco ha fatto di te uno straccio. Senza la musica, non hai più motivo di vivere, non hai più alcun futuro su cui contare, alcuna gioia da raccogliere.

Sei in cima a un ponte. Ti affacci alla spalletta. L’acqua del canale è verde e pigra, e muove lentamente con sé qualche immondizia: quasi una metafora della deriva senza più rimedio che è diventata la tua vita. Due cose sole ti restano da fare. La prima è la più facile: scavalcare quel parapetto e lasciarti cadere nell’acqua fredda e sporca. La seconda invece è troppo difficile, e sai già che non ci riuscirai: non riuscirai a lasciarti anche andare a fondo perché ci vorrebbe uno sforzo di volontà disumano per rinunciare a nuotare, e tu sai nuotare e sei anche un po’ codardo, così ti salveresti malgrado tutto.
Ma ci provi lo stesso, spinto da un nuovo attacco di fruscii e scampanii che ti si scatena in testa più forte del solito, forse animato dal galoppo del tuo cuore portato allo stremo. Sei magro e agile, una gamba è già sopra la spalletta, tiri su anche l’altra.
“No no, bambin mio, cossa fastu? – grida una donna, e ti senti trattenere un braccio, poi anche l’orlo della giacca, e la donna insiste a gridare e altri passanti si fermano, ti soccorrono, ti strappano al parapetto, ti parlano tutti insieme, accalorati, premurosi, e tu ti abbandoni fra le loro braccia e ti afflosci a terra chiudendo gli occhi pieni di lacrime.
Un uomo grande e grosso ti carica in spalla, qualcun altro si preoccupa del tuo violino, la donna materna ti cede il suo scialle per coprirti la testa nuda, e tu sei senza forze e pieno di vergogna e lasci fare, non ti opponi più a niente, avresti voluto morire e forse sei morto lo stesso, anche se quelli te lo hanno impedito.
Ti portano lì vicino, nella bottega dello speziale. Lì dentro c’è un bel tepore e profumi pungenti. Lo speziale ti accoglie bonario, gli raccontano la cosa, lui ti fa sedere su una poltroncina e ti esamina con mani calde e sorriso indulgente.
“Su su, giovinotto, non sono cose da fare, queste. È stato un brutto momento, lo so, ma adesso è passato, vero? Prendete qua, bevete questo – ti danno qualcosa da bere, ti brucia un po’ la gola ma ti dà forza e conforto.
Poi lo speziale manda via tutti e avvicina una sedia per fare due chiacchiere con te, come farebbero un padre o un buon prete confessore.
“Allora, adesso potete dirmi cos’è successo – ti invita.
E tu, riscaldato nelle vene da quel cordiale, cominci a raccontargli il tuo male, prima con pudore e poi con sempre maggiore sincerità e particolari. I rumori, gli incubi, la paura, il nonno sordo. Gli confessi – e non sai nemmeno tu da dove hai trovato tanto coraggio – di esserti convinto di andare incontro a pazzia e morte precoce, perché un tormento come quello che soffri da qualche mese non può che far impazzire chiunque, soprattutto se giovane, inesperto e lontano da casa come te.
“Macché macché, per morire ce ne vuole, giovinotto. Intanto vediamo un po’ se si può fare qualcosa: ho già un’idea, sapete? E se è quella giusta, vi assicuro che tra pochi minuti uscirete dalla mia bottega guarito e rinato”.
Il sant’uomo va nel retrobottega, e quasi subito ne torna con degli oggetti in mano e un panno pulito. Hai paura, eh, Serafino? Paura di quella bacinella fumante, di quei piccoli strumenti metallici, di quel rito sconosciuto che sta per iniziare e potrebbe rivelarsi doloroso. Non ne sai niente, tu, di malattie, di dottori. A casa, in campagna, era tua madre a curarti quando avevi bisogno: tisane, impiastri, purganti, e via. Tutto andava a posto subito, grazie alle sue mani sante e all’aria familiare di casa tua, del tuo lettino, dei tuoi cari vicino a te.
Lo speziale comincia con guardarti l’interno dell’orecchio avvicinando una candela per vederci meglio. Lo senti ridacchiare piano, un riso più di soddisfazione che di derisione. Poi avverti un liquido caldo e oleoso entrarti in un orecchio; lo senti diffondersi piacevole e indolore, e chiudi gli occhi ormai pronto a tutto. Ora qualcos’altro si fa strada nel tuo orecchio, ma sempre in modo delicato anche se stavolta hai capito che si tratta di uno strumento, qualcosa di metallico, prudente e preciso. Ancora qualche istante, ed ecco la voce trionfante dello speziale che estrae la pinza, si raddrizza e annuncia “Ecco fatto!”
E infatti nello stesso attimo il tuo orecchio esacerbato si è riaperto alla vita come per incanto e senza dolore, solo un lieve ed euforico stordimento nel momento in cui l’ovatta e la risacca e gli squittii si sono dissolti per lasciare tutto lo spazio a un colpo di vento benefico e alla perfezione totale dei rumori circostanti, ora nuovamente distinti, puliti, intonati, non più stranieri. Anzi, ogni rumore è un suono, un’armonia vergine, un balsamo.
“Eccolo qua, il male che vi dava tanto fastidio: un frammento di paglia, nientemeno! – lo speziale ha un po’ l’aria di canzonarti, ma benevolmente, mentre ti fa vedere il frustolino ancora trattenuto nella pinzetta. Tu sgrani gli occhi, sei confuso, arrossisci: mai avresti pensato che una pagliuzza potesse rischiare di far impazzire un uomo. E allora ti viene in mente che sì, Marcolina, il fienile, il giorno prima di partire, lei un po’ piangeva e un po’ rideva, perché non voleva lasciarti andare, e non ti ha detto di no, e neanche tu hai detto di no a lei, e quel fienile era caldo e odoroso e ci avete passato le ultime ore e le più belle alla vigilia della partenza. Poi quella pagliuzza è partita con te, forse per impedirti di dimenticare Marcolina, o forse invece per farti diventare uomo davvero.
Adesso è tempo di tornare a vivere: ringrazi lo speziale, sei colmo di gratitudine, e gli chiedi quant’è il suo onorario. Ma lui non vuole denaro, no. Lui guarda il tuo violino, e tu per un attimo ti senti nuovamente morire all’idea che voglia essere ripagato proprio con ciò che più che ti sta a cuore.
Invece no, hai capito male: non è lo strumento che vuole, lo speziale, ma il piacere di ascoltarti suonare qualcosa solo per lui, ora, lì, tra quegli scaffali di noce, i vasi di ceramica con le scritte in latino, gli aromi canforati che impregnano il bancone. E tu, Serafino, suoni con le lacrime agli occhi, e il tuo violino è tornato a essere il violino degli angeli e alza verso le travi del soffitto e oltre la vetrina e su per la calle e in alto fino ai tetti e alle cupole e al cielo di marzo le note perfette del tuo orecchio assoluto.

*   *   *

All’eds della Donna Camel hanno partecipato, prima e meglio di me:
MaiMaturo – Il movimento
Lillina – Ti lascio una parola
Fevarin e carnazza – Un errore di sbaglio
*cla – Il pallone
Hombre – Testa di ignudo
MaiMaturo (bis) – Il rumore del vento
La Donna Camèl – Amico mio
Pendolante – Il sibilo
Dario – Michelino e Filippo

Io e Vivaldi

(immagine presa in prestito da http://www.magicoveneto.it/Padovano/Piazzola/Villa-1.htm

Dal piccolo borgo dove abito alla Villa Contarini di Piazzola sul Brenta c’è un unico rettilineo di pochi chilometri (roba di cinque minuti in macchina), lungo una strada che prende il nome di “Strada Contarina” perché ideata e voluta dagli storici proprietari della Villa, la quale – va detto – è la più vasta di tutte le altrettanto famose Ville Venete.
Ieri sera, dopo cena e in compagnia solo della mia voglia di qualcosa di bello e armonioso che mi risarcisse delle molte recenti tristitudini, ho preso la mia peugeottina da campagna e sono andata fin là, col mio prode biglietto nella borsa, per assistere a un concerto vivaldiano dei Solisti Veneti. Concerto all’aperto, nel cosiddetto Giardino dei Limoni che deve la denominazione alla presenza di orci di terracotta contenenti gli agrumi di cui sopra, seppure in numero a mio avviso piuttosto insufficiente a garantire tanta gloria, e anche a dirla tutta in condizioni di non soddisfacente rigoglio.
Rigogliosa, al contrario, era l’erba in cui i miei sandalini piatti affondavano morbidamente, procurandomi un piacevole e fresco vellichio vegetale cui presto si è aggiunta una componente un po’ meno gradita: quella di legioni di zanzare che ieri sera non hanno trattenuto la loro irresistibile gioia nel vedersi offrire un banchetto di sangue umano di quelle proporzioni: almeno duecentocinquanta soggetti, in gran parte di sesso femminile e perciò convenientemente e comodamente sbracciati e scollati, in una parola pronti per essere ripetutamente e diffusamente succhiellati su ogni centimetro quadrato di epidermide scoperta.
Il Maestro Claudio Scimone, padovano di nascita e over 70 per età, è un omino dal cranietto minuto orlato da grandi e tenere orecchie e confinante con due spallucce fragili; dalla vita in giù, cambia taglia, si allarga in fianchi sfiancati e si accorcia in gambette corte e un tantino arcuate. I suoi passi un po’ dondolanti e svagati sembrano quelli di un pensionato in pantofole, ossia quanto di meno ieratico si possa immaginare in un direttore d’orchestra bardato nel frac regolamentare (Nota di Colore:  un frac dai pantaloni del tutto privi di forma e dalla giacca approssimativamente spazzolata). Sempre il sorriso – un sorriso da vecchio zio simpatico che tenta di ridimensionare il pathos della musica – sulle labbra, e pochi gesti miti di mani sottili, che la suddetta musica vanno a cercare e a dominare lassù, nell’aria dove aleggia e dove aspetta di essere carpita per farsene dono a noi che la amiamo.
I Solisti, che a Piazzola sono di casa, erano anch’essi esenti da ogni atteggiamento divistico, anzi parevano una combriccola di goliardi a una festa di laurea: ridanciani, scherzosi, informali. L’unica donna combatteva la sua battaglia personale con la sua legione personale di zanzare, che le avevano puntato braccia e scollatura e non sembravano intimidite dalla vigoria con cui l’archetto del violino sferzava l’aria.
Gli spettatori: non ne conoscevo nessuno, eppure siamo tutti residenti in zona, ma ho apprezzato il fatto di aver condiviso quasi due ore con persone che tutte, evidentemente, fra la partita dell’Italia in tv e l’esibizione dei Solisti Veneti non avevano avuto dubbi sulla scelta.
La musica: come suo solito, Scimone ha usato mano leggera, e i suoi lo hanno seguito in un’interpretazione tutto sommato gradevole anche se priva di carattere e passionalità. E Vivaldi, invece, ne richiede: non può essere trattato come un musicante lezioso da salottini, adatto a un uditorio superficiale che si contenta di un sottofondo barocco mentre chiacchiera sgranocchiando biscottini. Insomma, avrei preferito più intensità, più fuoco, più foga: ho trovato buoni alcun brani ma un po’ troppo scialbi quasi tutti gli altri.
All’altezza i violini, un po’ afono il violoncello, micidiale invece il liuto, che sgangherava le corde con la mano pesante di un chitarrista rockettaro, ma transeat.
Il bello della serata, comunque, è stata la serata stessa, l’evasione in solitaria dopo un tempo incommensurabile che non mi concedevo una gratificazione del genere. La musica, l’ho ascoltata a occhi chiusi per evitare la minima distrazione e perché è l’unico modo in cui amo veramente ascoltarla. Il Largo dell’Inverno, quello sì, quello come sempre mi ha liquefatto il calcare che sento a volte di avere nelle vene, e nel buio degli occhi chiusi ho sentito ben chiaramente le mie ciglia inumidirsi, e anche qualcosa di più.
Alla fine, due bis: un Divertimento di Mozart e il notissimo Minuetto di Boccherini, per mandarci a casa e a letto con l’eco di questa delizia che è, soprattutto qui in Veneto, fra queste Ville e questi canali, la Musica Barocca.